Stelle di mare è un romanzo di Peter Watts, un autore canadese, poco letto e ancor meno tradotto in Italia. Di suo, oltre a questo romanzo pubblicato nell’ormai remoto 2001 e ovviamente esaurito, si ricorda un libro di Multiplayer edizioni, Crysis Legion (novelisation di un videogioco) e tre racconti in forma di e-book pubblicati da Delos: L’isola, Drone di morte e Le cose, molto poco rispetto alla mole della sua produzione.
Questo suo testo è del 1999, titolo originale Starfish, e la traduzione è di Elisa Villa. Un buon esempio di ciò che può nascere unendo speculazione scientifica di alto livello e capacità non comuni di narratore.
Il romanzo è ambientato sul fondo degli abissi marini, nella stazione oceanica Beebe, posta sulla dorsale Juan de Fuca, nell’Oceano Pacifico. L’equipaggio della stazione è formato da individui modificati per poter sopravvivere sotto il peso di centinaia e centinaia di atmosfere di pressione. Parzialmente anfibi, possono camminare sul fondo del mare respirando acqua e sono in grado di orientarsi nella scarsissima luce ambientale grazie alle calotte sclerali, che ne nascondono completamente gli occhi rendendoli simili a manichini da incubo.
Definire claustrofobico l’ambiente è quantomeno un eufemismo, ma almeno per alcuni di loro l’abisso è qualcosa di più che lavoro e pericoli. L’abisso è anche un luogo di affascinante smarrimento, di silenzio e di allucinata contemplazione. Ognuno di loro ha qualcosa da dimenticare, in fondo al mare: vite sbagliate, fissazioni, perversioni intollerabili. L’equipaggio della Beebe è formato da individui isolati, silenziosi, resi rigidi e curiosamente formali dalla forzata convivenza in spazi ristretti. Difficile conservare un minimo di equilibrio mentale, soprattutto quando emerge la possibilità che qualcuno di loro sia infettato con una forma arcaica ma estremamente efficiente di acido nucleico, capace di spazzare via per sempre la vita basata sul DNA.
Protagonista del romanzo è Lenie Clarke, una donna. Beebe è la sua casa, l’unico luogo dove i conti con se stessa possono anche non essere chiusi. Lenie è tollerante, non giudica e non partecipa. Non è completamente inaridita ma non vuole essere coinvolta in rapporti sentimentali e non si aspetta niente da nessuno. La vita nella stazione è una forma tollerabile di oblio e fuori, appena oltre una parete di metallo, c’è l’abisso, gelido e affascinante.
Giudicato «deprimente», Stelle di mare è probabilmente uno dei migliori romanzi di fantascienza del suo decennio. Innanzitutto perché Watts sceglie deliberatamente di evitare un facile e consolante happy ending, pur senza percorrere l’altrettanto facile strada del mattatoio. In secondo luogo perché riesce a rappresentare con attenzione e sensibilità la psicologia contorta di uomini e donne posti in condizioni estreme. Perché riesce a riutilizzare, vivificandolo, uno dei temi classici della fantascienza: l’enigmatica e minacciosa presenza dell’alieno in un ambiente ristretto e inospitale (gli esempi qui sono davvero tanti, uno per tutti: Alien). Perché fa un uso attento e ragionato delle proprie cognizioni tecnologiche e scientifiche, innestandole armoniosamente in un testo narrativamente efficace (o, reciprocamente, esplorando un universo narrativo che soltanto la speculazione scientifica e tecnologica ha reso possibile e verosimile). Il mondo abissale raccontato da lui acquista il fascino di un universo alieno e nelle descrizioni di crepacci, valli e montagne visti attraverso lo sguardo crepuscolare delle calotte c’è tutto il sense of wonder che un lettore di fantascienza può desiderare.
Da segnalare, in chiusura, la divertente postfazione dell’autore, nella quale racconta la tragicomica serie di rifiuti collezionata dal suo romanzo nel trovare editori stranieri, giudicato cupo, tetro, o che «ti fa venire la tentazione di aprirti le vene in una vasca». Se un buon romanzo di fantascienza trova questo genere di accoglienza, viene da chiedersi, è forse il caso di continuare a tormentarci con domande senza risposta sulla crisi del genere?
Peter Watts, Stelle di mare, Fanucci Solaria 2001, pp. 390, prefazione di Sandro Pergameno, postfazione di Peter Watts, trad. Elisa Villa
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