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    A. Sen – La democrazia degli altri

    • di Silvia Treves
    • Novembre 16, 2005 a 3:37 pm

    Noi diamo valore alla vita umana, crediamo nella libertà individuale e nella legge, Per questo mandiamo all’estero uomini e donne, per proteggere quei valori.
    Donald Rumsfeld, segretario alla difesa USA [1].

    Non può che finire in un fottuto schifo quando pretendi di portare la democrazia in un Paese lontano di cui non sai nulla. Di cui non conosci nulla. Di cui non ti importa nulla… È la lezione del Vietnam che qualcuno non ha ancora imparato
    Lawrence Colburn, soldato, che provò a fermare il massacro di My Lai [2].

    Quando si insiste sull’importanza della libertà di stampa, o si sottolineano le inquietudini che ogni sua limitazione suscita, sembra alla volte di sentire una vecchia canzone intonata […] da altrettanto vecchi «liberali», anime belle d’un tempo che fu. Il caso Abu Ghraib dimostra invece l’importanza di quel principio […] Questo scandalo conferma ancora una volta che una democrazia si regge su un delicato sistema di contrappesi e che il cosiddetto «quarto potere», stampa e tv, ne sono uno degli elementi di controllo.
    Corrado Augias [3].

    Non è facile, in questi mesi, riflettere serenamente sulla natura della democrazia, soprattutto in Italia, dove il Parlamento ha appena approvato una legge sulla televisione che va in direzione esattamente opposta ai principî di salvaguardia democratica, e dove un premier controlla le reti pubbliche nazionali oltre a quelle che possiede personalmente. In casi come questi, la lettura di un buon saggio può davvero aiutare. Io vi propongo La democrazia degli altri: perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente[4] di Amartya Sen (Mondadori, 2004,2005), un libretto smilzo e denso, ottima terapia contro le semplificazioni grossolane e contro la nefanda idea di «esportare» con tutti i mezzi (proprio tutti, come ci è stato appena dimostrato) i «nostri» valori democratici. [Se non altrimenti indicato, le citazioni sono tratte dal libro].

    Nato nel 1933 a Santiniketan, Bengala, da una famiglia di studiosi e accademici, Amartya K. Sen – premio Nobel per l’economia 1998, Rettore del Trinity College di Cambridge e professore emerito ad Harvard – ha trascorso quasi tutta la vita nei campus universitari, prima con i genitori, poi come studente, infine come docente di discipline economiche in università prestigiose come quelle di Calcutta, Cambridge, Oxford, Harvard, il Mit Stanford di Berkeley e la Cornell University. Appassionato di sanscrito, matematica e fisica, Sen scelse infine «l’eccentrico fascino dell’economia» [5]; il suo percorso di studio fu vario e, senza trascurare l’eredità culturale analitica e scientifica dell’India, aperto alle influenze occidentali, asiatiche e africane. Dopo la laurea studiò anche filosofia morale e politica, discipline che gli fornirono stimoli per i suoi studi sulla democrazia, l’equità, la privazione.
    È affascinante scoprire quanto le esperienze di vita personali abbiano, nel corso degli anni, influenzato e plasmato il suo pensiero economico e filosofico. Sen ne è estremamente consapevole e l’ha sottolineato in molte interviste, tanto da dedicare la lettura tenuta in occasione del conferimento del Nobel a una sua breve autobiografia [6], dove i temi di studio, gli anni di collaborazione con importanti studiosi, i rapporti costruttivi e amichevoli con allievi a loro volta diventati economisti eminenti si intrecciano significativamente con le vicende personali.
    Sensibilizzato dagli episodi di settarismo e violenza politica di cui fu testimone da ragazzo, Sen capì molto presto che l’estrema povertà rende gli individui vittime senza speranza di ogni genere di perdita di libertà e violazione dei diritti fondamentali. La sua visione economica è segnata dall’impegno per la tolleranza e il pluralismo politico e dalla convinzione che entrambi questi elementi siano patrimonio dell’umanità, riconosciuti e praticati nel corso dei secoli in molte differenti culture.
    Dopo i primi studi teorici sulla possibilità di operare scelte sociali sia razionali sia democratiche e tolleranti verso le preferenze individuali, Sen passò a problemi più pratici: l’individuazione di parametri per valutare la povertà e l’ineguaglianza economica, l’analisi delle violazioni delle libertà personali e dei diritti di base, la caratterizzazione delle disparità di genere e dello svantaggio sociale femminile. «Sono un economista di professione, e gran parte del mio lavoro è inevitabilmente legato alla natura dei governi e dei rapporti fra sociale e economia. Gli aspetti sociali dell’esistenza umana», ha dichiarato recentemente [7]. Dobbiamo a Sen l’elaborazione dell’HDI, lo Human Development Index, un coefficiente che tiene conto anche di aspetti come l’aspettativa di vita di una popolazione, l’alfabetizzazione degli adulti, la distribuzione del reddito:

    Non si può misurare il benessere dalla ricchezza di un popolo. Se in un Paese ci sono violazioni dei diritti umani e la libertà non è garantita, e se la gente viene messa in prigione soltanto se esprime le proprie opinioni, tutto questo non si può definire ricchezza. La democrazia non solo migliora la qualità della vita ma consente all’economia di mercato di aumentare il tasso di sviluppo e il reddito di un paese. E, soprattutto, queste condizioni di sviluppo consentono di scongiurare disastri come le carestie, che sono state una vera e propria piaga nell’Asia orientale. La libertà politica e quella di mercato sono ambedue fondamentali: l’una aiuta l’altra [8].

    A partire dagli anni Settanta, Amartya K. Sen cominciò a lavorare sulle cause e sulla prevenzione delle carestie, sottolineandone chiaramente il carattere classista: le vittime della carestia del Bengala del 1943 – di cui fu testimone diretto – furono tra due e tre milioni e tutte appartenevano agli strati sociali più poveri, come i lavoratori rurali senza terra. Studiò anche l’equità sanitaria, nella salute pubblica in particolare, un campo di applicazione molto buono per i concetti di equità e giustizia.
    Venne così a maturare un concetto allargato di libertà e di benessere, basati anche sulla possibilità (in relazione alle opportunità sociali) di ognuno di scegliere lo stile di vita più in armonia con i propri valori e sul conseguimento di specifiche capacità: «Le capacità di una persona di ottenere il proprio vantaggio comportano un tipo di approccio in termini di valutazione circa la sua stessa effettiva abilità di realizzare differenti funzionamenti ideali come momento qualificante della sua vita» [9].
    Ho letto qualche giorno fa una riflessione molto simile, espressa con lucida semplicità da Jodie Bieber, fotografa per «New York Times», »L’Express» e «Stern», vincitrice di premi internazionali con i suoi servizi fotografici sull’epidemia Ebola in Ugana (2001). Jodie, riferendosi a We, Children, una ricerca fotografica sulla trasformazione del Sudafrica dopo le prime elezioni democratiche, dice dei ragazzi neri delle township intorno a Joannesburg

    Mi sono resa conto che mentre io potevo entrare e uscire dalle loro vite con grande facilità, questi ragazzi erano invece intrappolati, con scarsissime possibilità di migliorare il proprio mondo […] David, un bimbetto di tre anni ospite di un centro per bambini abbandonati e violentati a Orlando: mentre stavo per andarmene è saltato in macchina con un gigantesco sorriso dipinto sul faccino. Pensava che lo avrei portato a casa… [10]

    La via dello sviluppo, cioè, passa necessariamente attraverso la creazione di reali opportunità di libertà. Il sottosviluppo economico non dipende solo dalla mancanza di risorse, povertà può anche significare privazione della capacità: in molti paesi, per esempio, la sostituzione radicale del tessuto e della cultura produttiva tradizionali a vantaggio di nuovi settori, anche sostenuti da ingenti investimenti di capitale, spesso ha avuto risultati deludenti.
    Nel pensiero di Sen, quindi, la libertà non è semplice mancanza di impedimenti ad agire, ma piuttosto la possibilità di fare e di essere, è la capacità di accedere all’informazione e di maturare la consapevolezza per valutare obiettivamente le reali implicazioni di una determinata scelta.
    Il punto di vista di Sen obbliga a ripensare profondamente il ruolo dello Stato, del mercato e del privato sociale.

    Consigliere Speciale di Kofi Annan pagato simbolicamente 1$ l’anno, Amartya Sen ha recentemente dichiarato in una bella intervista ad Alberto Flores D’Arcais [11]:

    La democrazia è una valore globale, è profondamente sbagliato pensare che sia un valore solo occidentale […] Dire che noi come «Occidente» esportiamo la democrazia è un comportamento arrogante, significa appropriarsi di qualcosa che non è solo nostro, significa «rubare» la democrazia, un valore che è un’eredità mondiale.

    Non sarebbe il primo furto che noi occidentali compiamo ai danni degli «altri», tutti coloro cioè che occidentali non sono e, probabilmente, non vogliono essere.
    Nei due saggi raccolti nel libro Sen ribadisce queste e altre tesi, dipingendo, con una gran varietà di esempi, un quadro della «democrazia» nella storia universale umana molto più composito, variegato e incoraggiante di quanto «noi» riusciamo a immaginare.
    Tanto per cominciare, la convinzione che la democrazia sia un regalo dei greci all’umanità, più che eurocentrica è semplicemente fasulla. Prima di tutto perché non è vero che i greci fossero semplicemente «occidentali», dati i loro ampi e lunghi contatti con gli egizi, i persiani, gli indiani ecc., poi perché la storia ci ha regalato numerosi esempi di «democrazia» indiana, giapponese, cinese, africana anche in tempi molto anteriori alla civiltà greca e che precedono di quasi mille anni un vanto europeo come la Magna Charta. Volete degli esempi?

    – I «concili» buddhisti che, a cominciare da pochi anni dopo la morte di Gautama Buddha, furono uno dei più antichi esempi di incontri generali per risolvere controversie religiose, sociali, civiche, il più grande si svolse nel III secolo a. C. a Pataliputra, allora capitale dell’India, come dimostra l’editto di Erragudi:

    La crescita degli elementi essenziali del Dharma è possibile in molti modi. ma la sua radice sta nel misurato controllo delle parole, in modo che non ci sia l’esaltazione della propria setta o la denigrazione di altre sette […] Se una persona agisce altrimenti, non soltanto insulta la propria sette ma danneggia anche le altre. [p. 25].

    – La «Costituzione dei diciassette articoli», emanata nel 604 d. C. dal principe buddhista giapponese Shotoku e ispirata al medesimo spirito della Magna Charta inglese (1215).

    Obiezione classica: «Sarà anche vero, eh… Però alcune culture, ad esempio quelle asiatiche, danno maggior valore alla disciplina che alla libertà politica, non hanno propensione per la democrazia».
    Questa tesi è indimostrabile, nella storia delle culture asiatiche gli scritti favorevoli all’autoritarismo sono altrettanto frequenti che nei classici del pensiero occidentale, da Platone a Tommaso d’Aquino. Lo stesso vale per la tradizione islamica, con buona pace del coordinatore della Lega Nord, on. Calderoli che, da quel sensibile e pacato osservatore che è, ha dichiarato recentemente «Una religione dell’odio va combattuta con il bastone. Di carote il mondo islamico ne ha già ricevute troppe dal mondo occidentale» [12]. Legga almeno questa dichiarazione, on. Calderoli, l’aiuterebbe a sprovincializzarsi, ad acquisire una visione più ampia, da politico e non da commentatore da Bar Sport, ecco.

    Io penso che tutti noi siamo membri di diversi gruppi […] Ognuno può vivere nella propria [identità N.d.R.] ma con un obbligo: rispettare le altre. Ecco. Indiani, musulmani, cristiani, buddisti devono coltivare la propria identità ma nello stesso tempo, devono rispettare le altre, con la stessa intensità con la quale seguono il proprio cammino. Oggi, purtroppo, assisto alla negazione dell’identità. Si cerca d’imporre l’identità unica: così si riduce la molteplicità dell’individuo e si uccide la libertà. Ai giorni nostri, basta essere arabo per essere bollato a sangue: colpevole. Invece abbiamo storici, matematici, poeti arabi che hanno fatto moltissimo per l’Occidente e la sua cultura [13].

    Una delle tesi più significative sostenuta nei saggi e nelle interviste è proprio quella riguardante il vero significato del concetto di democrazia. La democrazia, dice Sen, è «rispetto delle libertà fondamentali e della diversità, pluralismo. Io la chiamo la “discussione pubblica”, la possibilità di manifestare e discutere liberamente le proprie idee». La democrazia, quindi è soprattutto partecipazione popolare; – come diceva Gaber? «Libertà non è restare sopra un albero…»?
    Le elezioni, insomma, da sole non bastano a rendere un governo «democratico», e non garantiscono nulla, se non sono precedute dalla possibilità di discutere e dissentire apertamente e da un corretto accesso all’informazione. E non si diventa governi antidemocratici soltanto sopprimendo – letteralmente o politicamente – l’opposizione e violando continuamente i diritti civili e le libertà politiche fondamentali, o esercitando dirette e intollerabili pressioni sugli elettori al momento del voto. No, è «sufficiente» aver azzerato con una censura più o meno scoperta la loro possibilità di discutere pubblicamente, o anche, detenendo il monopolio dei mezzi di informazione, impedire all’opposizione di far giungere il proprio pensiero alla gente.
    Mi chiedo se sia «non democratico» anche sfuggire sistematicamente a un pubblico contraddittorio, partecipare soltanto a trasmissioni «amicali», far capire cortesemente che certi giornalisti non sono più graditi in televisione (in tutte le reti televisive, comprese le tre reti pubbliche)…
    Lungi dall’essere, quando c’è, un’esclusiva occidentale, il pluralismo e la salvaguardia della diversità e delle libertà fondamentali sono presenti in forme diverse nella storia di moltissimi popoli. Illuminante l’esempio africano citato da Nelson Mandela in Lungo cammino verso la libertà, nel racconto degli incontri locali a casa del reggente, a Mqhekezweni:

    Ognuno aveva la facoltà di parlare. […] Poteva esserci una gerarchia di importanza tra gli oratori, ma tutti venivano ascoltati, sudditi e capi, guerrieri e uomini di medicina, commercianti e contadini […] Il fondamento dell’autogoverno era che tutti gli uomini fossero liberi di esprimere la propria opinione e uguali nel loro valore di cittadini [p. 12].

    Andando indietro nel tempo si potrebbero ricordare, anche per dimostrarci che è possibile, la civile convivenza tra arabi ed ebrei, nel XII secolo.

    Anche se il mondo contemporaneo è pieno di esempi dei conflitti tra musulmani ed ebrei, i principi musulmani del mondo arabo e della Spagna medievali potevano vantare una lunga storia di integrazione degli ebrei come membri a pieno titolo della comunità sociale, nel completo rispetto delle loro libertà e della loro posizione, spesso molto influenti [p. 22].

    Insomma, la tesi dell’ «eccezionalità occidentale in materia di tolleranza» oltre che falsa è inutile, fornisce alibi ai nostri pregiudizi e non ci aiuta a migliorare la situazione.
    Ad argomentazioni come queste si potrebbe ribattere con tre osservazioni «classiche», tre tormentoni che, si possono ascoltare sia nei bar o dal parrucchiere – luoghi dove disinformazione e non sequitur non sono delitti ma soltanto mancanza di buon senso – sia in televisione, perfino durante i confronti politici, dove informazione e rigore sarebbero un obbligo.
    La prima sembra (ma non è) significativa: l’esercizio della democrazia è molto più facile nelle piccole comunità, il potere centralizzato di un grande stato rende impraticabili le forme pienamente partecipative. Che cosa significa? Forse che bisogna tornare al localismo? Secondo Sen inseguire adesso, tal quale, il mito di una tradizione democratica locale, è un’illusione molto pericolosa che rischia di approdare a derive provincialiste di idee ristrette e, in definitiva, assai poco democratiche. Forse bisognerebbe regalare questo libretto ai rappresentanti della Lega Nord (e soprattutto ai loro elettori).
    La seconda osservazione sembra possibilista e sinceramente partecipe, ma in realtà è semplicemente ipocrita, è servita come giustificazione per tutti i colonialismi (e a tutte le guerre «sante», anche quelle preventive) e suona più o meno così: la democrazia è un diritto di tutti, ma mentre «noi» siamo davvero democratici, «loro» non sono ancora pronti per la democrazia, gliela porteremo noi, a tempo debito.
    Ma, obietta Sen, «i difetti della democrazia richiedono più democrazia e non meno», ovvero ammesso che un paese non sia ancora «pronto» per la democrazia, «lo deve diventare mediante la democrazia», la necessità di democrazia vale per tutti, senza distinzione di sesso, razza, cultura, opinioni.
    L’ultima obiezione è la più complessa e articolata e si basa sull’idea che i sistemi non democratici garantiscano un efficiente sviluppo economico. Come dire, la democrazia è un bel sogno ma per essere competitivi e portare tutti a casa la pagnotta (e fantastilioni di dollari ed euro per qualcuno) dobbiamo camminare con i piedi per terra. Questa è forse la parte più interessante del saggio, perché Sen, dopo aver osservato che, in ogni caso, la democrazia è un bene di per sé, un traguardo e non una semplice condizione di mercato, la demolisce utilizzando le proprie competenze di economista.

    Non c’è alcuna testimonianza convincente che il governo autoritario e la soppressione dei diritti civili e politici favoriscano davvero lo sviluppo economico. Le ricerche sul campo e gli studi di carattere sistematico […] non offrono alcun sostegno concreto alla tesi dell’esistenza di una contraddizione di fondo fra diritti civili ed efficienza economica [p. 54].

    Esistono invece politiche economiche come l’apertura alla concorrenza e gli incentivi statali agli investimenti e investimenti sociali quali la lotta all’analfabetismo e un’elevata scolarizzazione che possono favorire l’espansione economica; ma soprattutto, «la cosa di cui c’è maggiormente bisogno per garantire una crescita più rapida è un clima economico più amichevole, e non certo un sistema politico più rigido e severo».
    Ma come? E io, tremontiana convinta, che credevo che le ricette fossero le «3 I» e la banconota – carta, non moneta – da un euro!
    Praticata correttamente, nemmeno la globalizzazione sarebbe un male, di per sé:

    Io tendo a vedere la globalizzazione come una rete di contatti mondiali in vari campi: la circolazione delle idee, il commercio, i movimenti delle persone, la tecnologia. Tutto questo è globalizzazione. Ma da questo punto di vista non è un fenomeno nuovo ma esiste da migliaia di anni e la storia del mondo è sempre stata legata dall’interazione e dai contatti fra le persone. In senso lato la globalizzazione non è un fenomeno nuovo […] L’economia di mercato in teoria può migliorare le opportunità di tutti, ricchi e poveri. Ma non tutti partono sullo stesso piano. La questione principale riguarda il fatto che milioni di persone non riescono a trarre beneficio dall’economia di mercato perché non esistono fattori di sviluppo importanti come possono essere l’istruzione o la sanità. In un paese lacerato dalla guerra, vittima di una dittatura, il mercato non può funzionare. Inoltre esiste anche una responsabilità dei paesi ricchi che spesso impongono restrizioni economiche alle importazioni accentuando le sofferenze. Le barriere commerciali aggravano la povertà. […] Esiste poi una questione importante come la necessità di regolamentare in modo meno iniquo i brevetti. In Africa, a causa della preclusione ai brevetti, non si possono produrre le medicine necessarie per curare malattie gravi come la malaria, l’Aids, la tubercolosi» [14].

    A questo punto mi sembra chiaro che lo sviluppo economico non vada misurato con giochetti di prestigio come il tasso di crescita del PIL. È importante (e Ilvo Diamanti si sforza di spiegarlo ogni volta che viene intervistato) esaminare un quadro complesso «compreso il bisogno di sicurezza economica e sociale», esaminare, ad esempio:

    I rapporti fra diritti politici e civili da una parte e provvedimenti adottati per prevenire gravi disastri economici dall’altra. I diritti politici e civili conferiscono al popolo l’autorità necessaria per richiamare energicamente l’attenzione sui propri bisogni generali e per esigere un adeguato intervento da parte dello Stato. La risposta del governo alle gravi sofferenze del popolo dipende spesso dalla pressione cui è sottoposto [p. 55].

    Eh sì, è bello leggere di nuovo la parola «popolo» nella certezza che non verrà seguita dalla parola «bue» e che chi scrive con «popolo» non intende un branco di consumatori beoti ma l’insieme di quei cittadini che, avendo sottoscritto un patto al momento del voto, esigono (o potrebbero esigere, e forse prima o poi lo faranno) che il governo tenga fede al medesimo. Però! Sono quasi dei rivoluzionari, ‘sti economisti!
    Tremonti, invece, è un fiscalista, vero?
    La forza stabilizzante della democrazia si vede nelle situazioni gravi, per esempio nella gestione di «calamità naturali» come le carestie, le epidemie ecc. Un governo democratico deve rendere conto al popolo delle proprie scelte, se cerca di nascondere la gravità della situazione viene sbugiardato da una stampa libera, da un’opposizione agguerrita, da manifestazioni popolari. Un governo non democratico, invece, fa ciò che ha fatto la Cina con la SARS, nel 2003, tiene nascoste le cose sino a quando è troppo tardi.
    Vorrei congedarmi ricordando la grandiosa risposta data dai filosofi indiani jainisti ad Alessandro Magno che li rimproverava di non averlo sufficientemente onorato:

    Re Alessandro, ogni uomo possiede solo quella parte di terra sulla quale poggia i propri piedi. Tu sei un uomo come il resto di noi, tranne per il fatto che sei sempre indaffarato e impegnato in nulla di buono, lontano miglia e miglia dalla tua patria, un fastidio per te stesso e per gli altri [p. 17].

    Alessandro, che era violento e di carattere instabile ma anche intelligente e probabilmente dotato di un certo senso dell’umorismo, apprezzò moltissimo la risposta, non querelò i filosofi jainisti e non oscurò le loro trasmissioni telev… Oops, scusate. Non fece loro tagliare la lingua.

    Una bibliografia dei saggi di Amartya Sen pubblicati in Italia, con l’indicazione di alcuni siti a lui dedicati è in rete all’indirizzo:

    Note:

    1) D. Rumsfeld, Audizione alla Commissione Difesa del Senato, 7 maggio 2004.
    2) C. Bonini, La Storia. Giusto disobbedire all’orrore noi l’abbiamo fatto in Vietnam. «La Repubblica», 17 maggio 2004.
    3) C. Augias, L’orrore delle torture e il quarto potere, «La Repubblica», 8 maggio 2004).
    4) Il volume raccoglie i saggi Le radici globali della democrazia, già pubblicato in forma ridotta [«The New Republic», 6 ottobre 2003] e La democrazia come valore universale, discorso pronunciato alla Global Conference on Democracy, Nuova Dehli 14- 17 febbraio 1999 e pubblicato su «Journal of Democracy» [luglio 1999].
    5) A. K. Sen, lettura per il conferimento del Nobel, 1998 presso il sito dell’autore: www.nd.edu/~kmukhopa/cal300/calcutta/amartya.htm.
    6) Ibid.
    7) M. Carpignani (a cura di), Capacità e libertà. Amartya K. Sen e l’ «economia dello sviluppo» in , 6 aprile 2004
    8)
    9) M. Carpignani (a cura di), Capacità e libertà. Amartya K. Sen e l’«economia dello sviluppo» cit.
    10) J. Barbier, Jodie tra le gang, in «D, la Repubblica delle donne», 399, 1 maggio 2004.
    11) Amartya Sen. La democrazia non si esporta: è di tutti in «La Repubblica» 11 marzo 2004.
    12) «La Repubblica», 13 aprile 2004, p. 9.
    13) In M. Melilli, «L’Unità», 31/01/2003 al sito:
    14)

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