Che cosa succede se il computer di bordo di un incrociatore lanciamissili da un miliardo di dollari «decide» di effettuare una divisione perzero?
Un matematico o un alunno di terza elementare fresco di spiegazioni sulla divisione risponderebbero: «un grandissimo casino!» e avrebbero ragione, come ha dimostrato l’avaria della U.S.S. Yorktown il 21 settembre 1997. Lo zero, infatti, è un numeraccio irriducibile e potentissimo. È anche un numero ineffabile, a suo modo celestiale e, se entra in classe dalla porta principale – e non per malevola sbadataggine (515 : 5 = 13! oppure, a scelta, 65 : 5 = 103!) –, porta con sé l’infinità. Gli studenti lo sanno, lo intuiscono prima ancora di capirlo, così per una volta tacciono e ascoltano con attenzione speciale la lezione. Perché zero e l’infinito, sono il nulla e il tutto, i due grandi interrogativi della scienza e della fede. Per conoscere vita e miracoli (letteralmente) dello zero vi consiglio di leggere un buon saggio di Charles Seife dal quale ho appreso le notizie che seguono.
Lo zero è nato qualche secolo prima di Cristo in Iraq, figlio della cultura babilonese. Prima, la matematica non ne aveva bisogno perché era stata inventata per contare pecore e altri beni concreti, stabilire l’estensione dei campi e tenere il conto del passare del tempo. Lo zero non serve per fare la spesa («mi dia zero patate e sei carote, per favore, di patate ne ho ancora a casa…») ma per esprimere concetti complessi e astratti.
Un tempo, insomma, lo zero non esisteva. E prima ancora non esistevano nemmeno i numeri, o per lo meno (ed è la medesima cosa) non esistevano per parole per dirli. Ancora adesso i Siriona boliviani e gli Yanomami brasiliani «dicono» soltanto 1, 2, 3 e «molti».
Ma dire «due» e «tre» porta, alla fine, a pensare a qualcosa come «cinque». E a inventare una parola per indicarlo. A volte «dirlo» è un po’ complicato: i Bakairi e i Bororo amazzonici se la cavano con solo due parole: «uno» e «due», così:
uno; due; due-uno; due-due; due-due-uno; …
Et voilà la numerazione binaria. Quella che a scuola ci faceva impazzire. Siamo una specie ingegnosa….
Sono state rinvenute molte tracce, in tutto il mondo, di numerazioni quinarie (la mano ha cinque dita, no?) e decimali (due mani, dieci dita…): gli idiomi europei derivano da protolinguaggi che usavano il dieci: un-dici e do-dici; oppure: eleven (uno oltre) e twelve (due oltre) Ma perché mai i francesi si ostinano a usare quatre-vingt per dire ottanta? Perché usavano una numerazione vigesimale, ovvero in base venti.
E lo zero che cosa c’entra? Appunto, non c’entra proprio nulla. Lo zero, il nulla, insomma, non c’era, perché nessuno ha zero pecore o zero figli o zero sacchi di farina ma, più semplicemente, non ha pecore, o figli, o sacchi di farina. Per far di conto lo zero non serviva, gli Egizi fecero a meno dello zero, eppure erano astronomi, geometri e agrimensori raffinati. Niente zero nemmeno per i Greci che esplorarono le astrazioni della matematica e la coniugarono con la filosofia. In conclusione lo zero debuttò a Babilonia.
Numerazione astrusa, quella babilonese: era sessagesimale, con due soli simboli, uno semplice per le unità (y) e uno doppio per la decina (yy), con sequenze per le cifre che, ovviamente per noi sono 9 (zero escluso) e per loro erano 59. Di nuovo c’era che la numerazione babilonese era posizionale, come la nostra, cioè consentiva di usare il medesimo simbolo per rappresentare ordini di grandezza diverse: ad esempio il simbolo y indicava sia l’unità, sia la sessantina (corrispondente sessagesimale della nostra decina), sia 3600 (la seconda potenza di 60, corrispondente al nostro centinaio). Quindi, ad esempio: yyy = 3600 + 60 + 1 = 3661. Però yy cosa indicava? 61? 3660? 219600? Come essere certi che yy occupassero le prime due posizioni a sinistra e non la seconda e la terza, o la terza e la quarta o ancora la seconda e la quarta perché la terza posizione era vuota?
– Bisognerebbe lasciare uno spazio vuoto, un buco, per indicare una posizione non occupata… Anzi, meglio metterci un trattino per indicare che non si tratta di un buco casuale ma proprio di un vuoto. Allora yy sarebbe di sicuro 61, yy_ sarebbe 3660, y_y sarebbe 3601 e così via.
Bravi, avete inventato lo zero!
– Ma allora ‘sto zero non è un vero numero, è soltanto un buco!
Ah sì? Disponendo di un comodo zero i babilonesi inventarono anche i numeri con la virgola, mentre i greci dovettero arrangiarsi con le noiosissime frazioni unitarie degli egizi: 3/4 = 1/2 + 1/4; 13/16 = 1/2 + 1/4 + 1/16; …. /39/96 = …. Allora, qual è la risposta? Un po’ complicata, vero? Dai, non fate calcoli astrusi con le frazioni, la risposta è 0,40625. Visto che lo zero non è soltanto un buco!
L’avevano capito persino quei micidiali xenofobi dei greci e, per evitare di utilizzare le frazioni unitarie, nei casi più complessi, effettuavano in gran segreto i calcoli frazionari «alla babilonese» e poi ritrasformavano i risultati in notazione greca. Però lo zero proprio non lo digerivano.
Il fatto è che le proprietà matematiche dello zero sono – o almeno erano – inesplicabili: fino a che funziona come cifra, per formare numeri, è un buon numero, domestico. Ma da solo è una bomba a tempo, proprio come la bomba informatica che ha imballato il computer della U.S.S. Yorktown. Ad esempio: qualunque numero sommato a se stesso dà un numero maggiore di se stesso, ma «0 + 0 = 0»: lo zero rifiuta di aumentare. Idem considerando «0 x 0». Non parliamo poi della divisione, la vera pietra dello scandalo. Come saprete ( e come forse vi hanno a suo tempo dimostrato, io comunque vi risparmio) «0 : 0» vale contemporaneamente qualunque risultato: 3; 67; e 13654… Non vi convince? Fate la prova: moltiplicate uno dei miei risultati per il divisore (cioè 0) e troverete il dividendo (cioè 0!).
Brutta bestia lo zero, un numero da far tremare i polsi. Che fare? Radiarlo dall’onesta congrega dei numeri, carcerarlo a vita e perdere la chiave, fingere di non averlo mai conosciuto… Dar ragione a Zenone e al suo celebre paradosso: il vuoto non esiste e il niente nemmeno. E infatti un gran numero di civiltà fecero finta di «niente».
Lo zero non trovò posto nella concezione matematica greca perché essa implicava una equipollenza tra numeri e forme: «Lo zero avrebbe aperto una falla nel nitido ordinamento pitagorico delle cose e per questo andava assolutamente rigettata». A sua volta la visione del cosmo aristotelica non prevedeva né l’infinito né il vuoto ma un numero finito di sfere concentriche alla Terra; ogni sfera manteneva in rotazione quella immediatamente più interna ed era mossa da quella immediatamente più esterna; l’ultima sfera – priva di motore – era il cielo delle stelle fisse. Questa visione del mondo dominò anche l’Occidente cristiano per lunghi secoli perché offriva una prova indiscutibile dell’esistenza di Dio: a muovere l’ultima sfera non poteva che essere il Primum Mobile, Dio.
Nemmeno la matematica romana diede cittadinanza allo zero: i romani, lo sappiamo, erano dei gran pragmatici e non giocavano con le astrazioni. Anzi, secondo l’autore del saggio, il loro maggior contributo alla matematica fu… l’uccisione colposa di Archimede da parte di un soldato romano durante l’invasione di Siracusa: Archimede, infatti, applicandosi allo studio delle curve si era molto avvicinato ai moderni concetti di limite e di calcolo infinitesimale. Al momento del fatale incontro col rozzo romano lo studioso andava già per la settantina, ma chissà, a lasciarlo fare… Invece zac: un bel colpo di daga e ciao. E il povero zero poté farsi vedere in Occidente solo a metà del XII secolo, grazie agli Arabi.
Dove aveva soggiornato lo zero per più di un millennio? In Oriente, portatovi da Alessandro Magno (sì, proprio l’allievo di Aristotele) che lo aveva appreso dai babilonesi. Lì, al riparo dagli strali degli aristotelici, dei romani e dei cristiani, prosperò grazie alla lunga convivenza tra induismo e nulla: una delle manifestazioni di Shiva è proprio il supremo vuoto da cui scaturisce l’Universo infinito… Già forniti di una numerazione posizionale decimale e poco interessati alla geometri piana, i matematici indiani, che manipolavano benissimo i numeri, diedero l’avvio alla moderna algebra inventando (come anche i cinesi) i numeri negativi.
Nell’VIII secolo gli Arabi conquistarono l’India, vi appresero la notazione numerica indiana e, come d’abitudine, incorporarono rapidamente la nuova cultura, traducendone i testi principali che custodirono nella Casa della saggezza di Baghdad, il maggior centro studi bibliotecario del mondo orientale (diamo all’Islam ciò che gli spetta). Insieme al vuoto e allo zero gli Arabi adottarono anche le teorie atomistiche, liberandosi del peso opprimente dell’Aristotelismo.
In Occidente, uno dei primi entusiasti dell’infinito e dell’infinitamente piccolo fu Etienne Tempier, il vescovo di Parigi che nel 1277 rivendicò alla volontà di Dio anche la possibilità di generare il vuoto: in definitiva Dio non era mica tenuto a seguire i precetti di Aristotele e Tommaso d’Aquino! Ma ben prima degli entusiasmi del vescovo lo zero era stato adottato da mercanti e banchieri europei: fu proprio Fibonacci, lo studioso pisano figlio di un mercante a dargli dignità matematica. Altri appassionati sostenitori dello zero furono architetti e pittori; Brunelleschi introdusse contemporaneamente lo zero e l’infinito con la prospettiva (che cos’è il punto di fuga se non uno zero che tende all’infinito?).
Amico dei contabili e dei disegnatori, lo zero – e con lui l’infinito, suo alter ego – era nemico di una visione del Cosmo a misura umana. Alla domanda implicita di quale posto occupasse la Terra in un universo infinito Nicola Cusano rispose, forse con eccessivo entusiasmo: Terra non est centrum mundi. Cacciata dal centro di un universo aristotelico che «trasformava l’Universo in un’accogliente casa di bambola», la Terra non aveva letteralmente più posto dove stare. Così, mentre il resto del mondo fraternizzava con lo zero e l’infinito, la Chiesa fece precipitosamente macchina indietro, mise all’Indice, postumo, il famoso De revolutionibus orbium celestium di Copernico, mostrò gli strumenti a Galileo e bruciò Giordano Bruno.
Ma le buone idee sono (quasi) inarrestabili. Il secolo XVII, un secolo eccellente per la matematica, vide la nascita e lo sviluppo dell’analisi infinitesimale; studiosi come Keplero, Cavalieri, Descartes, Torricelli, Fermat, Barrow le fornirono spunti e contributi, Newton e Leibnitz la svilupparono (litigando fra loro e accusandosi vicendevolmente di plagio) e, in seguito, Bernoulli e Hopital la perfezionarono. Nello stesso secolo Pascal fondò il calcolo probabilistico e Descartes mise a punto il metodo delle coordinate cartesiane. Praticamente nel 1600 venne svolto quasi tutto il programma di matematica delle superiori! Infine D’Alembert, poco prima delle Rivoluzione Francese, stabilì il concetto di limite, cosicché «la mistica abbandonò il regno della matematica e la logica regnò sovrana».
Il seguito è storia dell’altro ieri. I lavori continuarono nel secolo XIX, coinvolgendo studiosi del calibro di Gauss, Riemann e Cantor. I fisici intanto facevano spallucce. «Poteva darsi che addizionare infinità e dividere per zero rientrasse negli interessi della matematica ma certamente non tra le vie della natura». O no? Seminando paradossi nelle leggi della termodinamica e nella fisica ondulatoria, zero e infinito costrinsero i fisici a interessarsi di loro fino a che la meccanica quantistica ne fece apparente giustizia.
Ma si trattò di una vittoria di Pirro. Lo zero quantistico si riflette nel fatto che l’intero universo – spazio vuoto compreso – sia intriso di energia in quantità infinita, l’energia di «punto zero» la quale conduce a sua volta al più inaudito degli zeri: la forza fantomatica del nulla.
Mica è uno scherzo, l’effetto Casimir e i buchi neri ne sono la prova reale.
Lo zero è il peccato originale del reale perché «l’Universo è nato nello zero». Il Big Bang, «concetto repellente», venne digerito a fatica dalla comunità scientifica; questa volta lo zero implicava non l’infinito ma il suo contrario, ovvero la «finitezza dell’universo in cui viviamo», un universo nato, sia pure prima del tempo e dello spazio, dovrà probabilmente morire.
Nemmeno a Einstein andava giù l’idea di un Universo finito nello spazio e nel tempo, tanto che corresse le equazioni della relatività generale introducendo una «costante cosmogonica»; la sua iniziativa venne presto smentita dalle osservazioni di Hubble e più tardi Einstein stesso la definì il più grosso errore della sua vita. Le prove a favore del Big Bang si accumularono negli anni settanta e l’ipotesi di un universo stazionario, eterno nel tempo e nello spazio, venne accantonata.
Da allora sono stati fatti molti passi in avanti, compreso il tentativo, per ora ancora soprattutto una «operazione filosofica», di addomesticare lo zero quantistico e i buchi neri con la teoria delle corde. A quanto ne sappiamo oggi,
forse il cosmo non è che una fluttuazione quantistica in scala grandiosa […] una sorta di uovo cosmico destinato a deflagrare, inflazionare e creare così lo spazio-tempo con noi all’interno.
Probabilmente, così come la nascita di questo universo (forse uno degli infiniti universi generabili dalla schiuma quantica antecedente il Big Bang), anche la sua fine è riposta nello zero, ma – per ora – si tratta di un finale a sorpresa che potrebbe alla fin fine dar ragione al vecchio Einstein.
Comunque finisca, sia lode allo zero:
Mentre il genere umano non poté mai costringerlo a conformarsi a questa o quella filosofia, fu viceversa lui a plasmare la visione che gli uomini hanno dell’universo e quindi di Dio.
Lo zero è il numero dei mistici. Ricordatevelo la prossima volta che state per dire a qualcuno: «sei proprio uno zero!».
Questo saggio ha molti pregi: il punto di vista ampio e originale sull’argomento; lo stile, mai noioso ma caustico e divertente; il modo disinvolto, anche spregiudicato con il quale l’autore abborda temi difficili che spesso trascinano i saggisti verso l’accademismo. La prima parte, quella che racconta le avventure dello zero nell’antichità e nel Medioevo, è una lettura piacevole e perfino spassosa, che vi indurrà a prender il libro ogni sera dal comodino senza paura di chiudere irresistibilmente gli occhi alla decima riga. Ma nelle ultime cento pagine la musica cambia: gli argomenti diventano più complessi e, soprattutto, meno familiari; se non siete «del giro» vi occorrerà attenzione e concentrazione per proseguire, quindi è sconsigliabile la lettura a mezzanotte prima della nanna. Se invece avete già letto altri saggi recenti sugli ultimi progressi della fisica cosmologica e quantistica magari vi verrà voglia di saltare qualche decina di pagine. In ogni caso il libro vale la lettura e lo sforzo. La traduzione è apprezzabile, anche perché il traduttore Gabriele Castellani ha integrato il testo con numerose note a piè di pagina che facilitano la comprensione.
Il prezzo, anche a distanza di anni resta piuttosto salato anche se, lo sappiamo, gli editori per questo tipo di saggi non prevedono tirature abbastanza elevate da riuscire a limitarlo.
Ultimo avvertimento: se, giunti a pagina 119 (edizione rilegata), improvvisamente avrete l’impressione di non capire più niente, non preoccupatevi troppo; quando ho letto il libro a suo tempo, è capitato anche a me. Ho avuto il sospetto che la formula numero 7 fosse sbagliata, così come le formule della pendenza relative alla fig. 5.4 di pagina 120 (dove il valore specifico della x dovrebbe sostituire e non seguire x nell’equazione). Cercate l’errata corrige, (che forse è stata introdotta nel frattempo).
Charles Seife, Zero. La storia di un’idea pericolosa
Bollati Boringhieri, 2002, pp. 257, € 29,00
Trad. G. Castellani
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.