Abdelkader Djemaï
Camping
(nottetempo)
Ha «quasi» undici anni, il protagonista di Camping, un’età al confine tra infanzia adolescenza. Con i genitori arriva alla «Marmitta», campeggio algerino a «zero stelle»,
Eravamo lì da quindici giorni. Siamo arrivati un pomeriggio di luglio con i miei genitori, le mie due sorelle, il nostro primo sacco di patate e il nostro bidone d’olio da cinque litri. Eravamo felici di lasciare per un intero mese la nostra città bollire nel gran calderone dell’estate.
Era poco prima che la tensione salisse come latte sul fuoco e che le seccature cominciassero a riversarsi sul paese.
[…]
avrei avuto presto undici anni e i primi peli. Erano anche le prime vacanze della mia vita.
La Marmitta è come tanti altri camping sparsi per il mondo. È rumoroso, pulito per quanto è possibile e troppo affollato. Ma per il protagonista si tratta di un mondo nuovo, dove valgono nuovo regole, gli adulti sono rilassati, la morale è più elastica e l’amore può apparire da un momento all’altro, sovrapponendosi e penetrando negli ultimi sogni dell’infanzia.
Speravo di difenderla da un cane rabbioso intenzionato a morderla o da un gruppo di ragazzacci che l’avesse molestata. […] Forte e vigile, calmo e determinato, a ogni occasione, mi preparavo a proteggerla, a salvarla.
L’ultima estate di quiete, prima della guerra civile, del FIS e del militari. Prima che il fascismo algerino, che noi in Occidente amiamo chiamare fondamentalismo, creasse fratture insanabili nella società civile.
Non ci sono segni premonitori, né annunci di apocalisse. Il padre del protagonista evita di parlare di politica, la madre guarda alla televisione «OK, il prezzo è giusto» e la vita rotola sonnolenta, spesso comica, talvolta triste, sempre lontana da ogni dimensione ideologica. Sogni modesti – un marito per le figlie, una nuova lavatrice, l’estate lontano dalla città – che accomunano la piccola gente, insieme all’ammirazione mista a un po’ di invidia per l’Occidente visto quasi sempre soltanto in televisione.
Un «Islam sereno e quotidiano», recita il risvolto di copertina, un mondo sorprendentemente simile al nostro, visto attraverso lo sguardo, a volte incantato, a volte irriverente, di un ragazzino che ricorda l’ultima estate di quiete. Un piccolo grande libro, scritto dall’esilio come pare ormai divenuta regola per molti autori arabi, che merita leggere e rileggere prima che venga, anche per noi, l’autunno.
la versione completa di questa recensione apparirà sul numero 33 di LN-Librinuovi, marzo 2005