In occasione del centenario della nascita di Stanisław Lem, Sellerio editore ha da poco pubblicato, il 2 settembre, una nuova opera dello scrittore polacco: Ritorno dall’universo, tradotto da Pier Francesco Poli e curato da Francesco M. Cataluccio. Questo romanzo, pubblicato nel 1961 con il titolo di Powrót z gwiazd (letteralmente “Ritorno dalle stelle”), è stato scritto nel periodo più prolifico della carriera di Lem. Nell’arco di cinque anni uscirono infatti alcune delle sue opere più iconiche, che lo consacreranno a massimo esponente della fantascienza filosofica: Eden (1959), L’indagine (1959), Memorie trovate in una vasca da bagno (1961), Ritorno dall’universo (1961), Solaris (1961), L’Invincibile (1964), e la raccolta di saggi filosofici Summa technologiae (1964).
Il protagonista della storia è Hal Bregg, pilota della spedizione su Fomalhaut, stella della costellazione del Pesce australe, a ventitré anni luce dalla Terra. «Abbiamo volato, tra l’andata e il ritorno, centoventisette anni del tempo terrestre e dieci del tempo di bordo», ricorda Hal. «Quanti anni ho? Biologicamente, quaranta, ma secondo gli orologi terrestri centocinquantasette» (p. 48).
Al suo ritorno, trascorso ormai più di un secolo, la Terra è cambiata, e per Hal è diventata talmente irriconoscibile da sembrare un pianeta alieno. Disorientato ed estraniato da questo “mondo nuovo”, che si fa espressione dell’unheimlich, Hal si sente «straniero sulla Terra» (p. 367): è infatti più alto della norma (le sue cartilagini si sono allungate conseguentemente alla prolungata ibernazione), e vive nel dissidio tra età biologica e anagrafica per via del paradosso dei gemelli e della dilatazione temporale introdotti dalla relatività ristretta di Einstein. In questa sua visione distopica del futuro, Lem descrive una società che non è in grado di assimilare Hal «perché si è rapidamente evoluta» (p. 372). La civiltà umana si è organizzata in una società egalitaria, i cui abitanti sono sottoposti fin dalla nascita a un processo chimico chiamato betrizzazione, che estirpa gli impulsi violenti. «Abbiamo eliminato l’inferno delle passioni», dice un medico a Hal, che non è betrizzato. «Ora tutto è tiepido» (p. 109).
Tra le stranezze del “mondo nuovo”, Lem preconizza fotografie tridimensionali, schermi televisivi a parete (simili a quelli di Bradbury), bottigliette-spray che creano abiti, cinema ultra-sensoriali e persino ologrammi. Una sua previsione si è già realizzata: nel 1961 Lem prefigurava la scomparsa dei libri cartacei («Trascorsi l’intero pomeriggio in libreria. Libri non ce n’erano. Da quasi più di cinquant’anni si era smesso di stamparli», p. 119) e l’avvento di vetrini di cristallo che si potevano leggere con l’aiuto di un opton: «Era qualcosa di simile a un libro, a parte il fatto che aveva un’unica pagina tra i due cartoni della legatura. Bastava toccarla, che subito apparivano, una dietro l’altra, le restanti facciate del testo. Ma gli opton si usavano poco, come mi disse il robot-venditore. Il pubblico preferiva i lekton, che leggevano ad alta voce e potevano esser regolati su qualsiasi tipo di voce, di ritmo e di modulazione» (p. 119). Oggi non chiamiamo i vetrini e-book, gli opton kindle e i lekton audiolibri.
In Ritorno dall’universo, non solo notiamo l’influenza dei padri della fantascienza britannica, come H.G. Wells e Olaf Stapledon (le prime letture fantascientifiche di Lem), ma soprattutto quella di un altro scrittore inglese, Aldous Huxley. A ben guardare, il romanzo di Lem condivide con Il Mondo Nuovo molte analogie: gli apparecchi per studiare durante il sogno ricordano l’ipnopedia di Huxley; in entrambe le società, inoltre, troviamo una popolazione «falsamente felice» (p. 373), priva di emozioni; l’atteggiamento che gli abitanti del “mondo nuovo” hanno nei confronti di Hal si può equiparare al rapporto tra i personaggi di Brave New World e il Selvaggio, e la stessa betrizzazione rimanda al condizionamento degli embrioni nella distopia di Huxley. Per tornare a Wells, le azioni del protagonista di un suo romanzo, Il risveglio del dormiente, fruttano interessi altissimi al suo risveglio dopo duecento anni di sonno, così come Hal trova al suo ritorno una «gratifica» (p. 50) in banca.
«Era come se prima fossi vissuto su un’altra Terra, tra altri uomini; quel mondo era cominciato ed era finito, una volta per sempre, questo era un mondo nuovo» (p. 133)
Nei suoi romanzi di fantascienza, Lem risponde al paradosso di Fermi (Where is everybody?), con l’incomunicabilità tra civiltà aliene, il tentativo fallito da parte dell’umanità di comprendere ed entrare in contatto con esseri di altri mondi. Questa ricerca dell’ “incontro ravvicinato” è alla base di tutta la produzione lemmiana: basti pensare a Eden, storia dell’incomprensione tra umani e una razza aliena intelligente; all’Invasione da Aldebaran e al suo ribaltamento di prospettive; a Solaris, con il suo oceano vivente di neutrini; a L’Invincibile, con la presentazione del tema delle nanotecnologie autoreplicanti (una straordinaria intuizione, che potrebbe diventare ben presto realtà). Anche in Ritorno dall’universo ritroviamo questo tema, qui declinato in maniera, se vogliamo, più sottile e ancora più inquietante. Perché in questo caso l’incomunicabilità non è tra terrestri ed extraterrestri, ma tra esseri della stessa specie, umani di generazioni differenti: tra Hal, pilota venuto dalle stelle di un tempo lontano, e gli uomini del futuro, con tutte le loro bizzarrie.
«La guardavo, in silenzio. Non era che la lingua fosse cambiata. Solo non capivo nulla. Nulla. Erano loro che erano cambiati. […] Come sei strano! Proprio come se non fossi neanche… un essere umano?» (pp. 46-61)
Nel 1920, lo scrittore ceco Karel Čapek pubblicò il suo dramma fantascientifico R.U.R., in cui compare per la prima il termine robot, dal ceco robota “lavoro forzato”, utilizzato per denominare gli automi che lavoravano al posto di operai in carne e ossa. Lo stesso accade nella società del futuro descritta da Lem, dove il lavoro manuale è stato completamente demandato alla forza-lavoro dei robot. Come fa notare il curatore nella sua postfazione, la scena del magazzino dei robot ricorda la selezione nei campi di concentramento, rievocando la tragedia dell’Olocausto, molto sentita da Lem, in quanto polacco di origini ebraiche. Ma questo episodio affonda le proprie radici ancora più in profondità, nella storia personale di Lem, al tempo dell’occupazione nazista, quando il futuro scrittore lavorava sotto falso nome come saldatore in un’officina tedesca, dove recuperava metallo dai rottami dei carri armati. Questo ricordo sembra riemergere nel romanzo, quando Hal sente un coro di supplichevoli voci umane, che appartengono in realtà a robot ammassati in una baracca. Sono considerati «rottami da rifondere, già selezionati» (p. 207), da non riparare perché «non conviene» (p. 207). «Quello non è affar nostro. A parte il fatto che sarebbe inutile, sarebbe anche impossibile, perché oggi per ogni essere vivente ci sono dodici robot; di questi circa cinque al giorno terminano il loro ciclo e vanno nei rottami […] sono i robot che si occupano di noi, non noi che ci occupiamo dei robot» (pp. 208-209), gli viene spiegato. I robot che implorano salvezza, nella loro «agonia meccanica» (p. 210), pronti per essere fusi nei forni, sono più umani degli uomini che hanno perso la propria umanità nella betrizzazione, sembra volerci dire Lem.
Il romanzo può essere diviso in tre parti: tre come le donne che Hal incontra al suo ritorno sulla Terra. I primi due terzi del libro sono la parte che ho trovato più scorrevole e apprezzabile: l’arrivo in aeroporto e le prime visioni della città futuristica saranno, dopo uno shock iniziale, i più estranianti, labirintici e claustrofobici resoconti di cui il lettore avrà memoria. Così è per Hal, e sarà anche per il lettore, che parteciperà al soffocante e angoscioso spaesamento del protagonista-io narrante e si ritroverà perso tra architetture surreali e neologismi senza senso che fiammeggiano nell’aria. Dopodiché, a partire dall’ultimo terzo, il ritmo rallenta, la storia si fa più riflessiva e meno avvincente. Nella scena finale, che ha per contorno l’aspra natura montuosa di un paesaggio innevato, sembra quasi di intravedere lo stesso Lem, intento nella scrittura in una baita di Zakopane, sui monti Tatra – località nella Polonia meridionale in cui si dedicò alla stesura del libro, nel 1960.
Stanislaw Lem, Ritorno dall’universo, Sellerio, La memoria 1206, 2021 [ed.or. 1961], pp. 392, € 15,00, a cura di Francesco M. Cataluccio, trad. dal polacco di Pier Francesco Poli.
Idem e-book, ed. in e-pub, € 9,99
Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Sellerio editore per aver gentilmente inviato una copia del libro al recensore.
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