Lab girl è la storia di un doppio apprendistato: quello nei confronti della scienza e quello alla vita sociale. Diviso in tre parti intitolate rispettivamente Radici e foglie, Legno e nodi e Fiori e frutti, il testo racconta contemporaneamente la vita delle piante e quella dell’autrice e del suo collaboratore più stretto di sempre, Bill Hagopian.
Lab Girl è un libro che conquista e che fa compagnia e che, grazie al dono di Jahren di spiegare le cose in maniera chiara e scorrevole, consente a chi legge di scoprire, o riscoprire, cose essenziali sul mondo vegetale. Proprio per la sua struttura intrecciata e discorsiva, evidenziare gli elementi più significativi del volume è difficile, procederò quindi per brevi capitoletti.
Iniziazione alla scienza
«Sono cresciuta nel laboratorio di chimica di mio padre, dove giocavo sotto i banchi fino a quando non fui grande abbastanza per giocarci sopra»
figlia di un docente di fisica e scienze della Terra in una università del Minnesota, quasi ogni sera la piccola Hope accompagnava il padre a preparare il laboratorio per gli esperimenti del giorno successivo.
«in fondo ai miei ricordi di quelle buie sere d’inverno, io e mio padre siamo i signori dell’intero palazzo delle scienze…»
Approntare il laboratorio, controllare che i locali siano tutti chiusi e le luci tutte spente, infilarsi maglioni e scarponi per affrontare il freddo e la neve [N.d.R. quel territorio è coperto di neve per nove mesi all’anno], uscire, guardare il “cielo ghiacciato” e percorrere i tre chilometri per tornare a casa in silenzio, perché
«l’intimità silenziosa è una dimensione naturale nelle famiglie scandinave ed è forse la cosa in cui riescono meglio.»
Questioni di genere
Nata nel 1969 ad Austin, Hope osserva con attenzione l’ambiente scolastico, il comportamento delle compagne e non vi si riconosce:
«Piccolissima ma determinata, mi incamminavo lungo la strada confusa e incerta del voler essere quello che sei, sapendo che è più di quello che le persone vogliono vedere.»
«All’età di cinque anni capii di non essere un maschio. Non ero ancora certa di che cosa fossi, ma in ogni caso mi fu chiaro che valevo meno di un maschio»
Sole nel laboratorio del padre si sente davvero se stessa, qualcuno che assomiglia al padre, e che almeno dentro diventerà simile a lui,
«anche se all’esterno ero mascherata da bambina.»
L’impressione di vivere in panni troppo stretti si ripresenta nel futuro
«In quanto scienziata donna, vengo ancora vista come qualcosa di insolito, ma dentro di me non sono mai stata nient’altro. Negli anni ho costruito da zero tre laboratori, dando calore e vita a stanze vuote, ciascuna più grande e più bella della precedente […] è il ‘laboratorio Jahren’, e sempre tale sarà, ovunque si possa trovare. Porta il mio nome perché è la mia casa.»
L’ambiente accademico è tuttora pervaso da un maschilismo soft, mai ammesso ma praticato con disinvoltura, che ha dato parecchio filo da torcere all’autrice. Ne è un esempio il rapporto con i colleghi di lavoro paleontologi durante una ricerca sul campo:
«I paleontologi del nostro gruppo erano una versione più addomesticata del classico geologo montanaro, comunque grandi lavoratori, grandi bevitori e grandi appassionati del fucile che il governo canadese ci imponeva di portare per difenderci dagli orsi polari. Avevo imparato a tenere le distanze da questo tipo di colleghi, sapendo che non mi avrebbero mai accettata come avente diritto a una qualche pretesa intellettuale sul sito […] Ai loro occhi ero solo una ragazzetta…che non riusciva a sollevare venti chili […]e mi calai nel ruolo, sperando che arrivassero a sottovalutarmi a tal punto da lasciarmi in pace.»
Nel dipartimento dove lavora mentre è incinta E che dire del comportamento del capo dipartimento di Jahren durante gli ultimi mesi della sua gravidanza? Le fa sapere che non può più entrare nell’edificio “finché sei in malattia”. Parla confusamente di assicurazioni, ma, non avendo il coraggio di affrontarla di persona, lo dice al marito di lei, Clint, che in poche parole, sintetizza la situazione: “non vogliono vedere una donna incinta”.
Bill
«Arrivata a Berkely, non posso dire di aver conosciuto Bill quanto piuttosto di averlo individuato.»
È così che Hope ci presenta il suo futuro compagno di lavoro e amico. Il loro non è un incontro ma un riconoscimento, la sensazione condivisa che l’altro entrerà a far parte della tua vita e ci resterà. I due formeranno un sodalizio inscindibile, basato sulla lealtà e su un legame profondo tra persone in gamba e anticonvenzionali che mal sopportano le rigidità del mondo accademico. Infatti il loro rapporto supererà indenne il disturbo maniaco depressivo di Hope, la morte del padre di Bill, il matrimonio di Hope con Clint e la nascita del loro bambino. Bill Hagopian, armeno e figlio di un genitore impegnato a testimoniare all’estero l’eccidio del proprio popolo, è un lupo solitario eccentrico, fornito di un senso dell’umorismo mordace e di un’empatia riluttante ma intensa, anche verso gli studenti.
«Bill è il docente più sereno, attento agli altri e rispettoso che abbia mai visto lavorare. È capace di star vicino a uno studente tutto il tempo che gli serve, a volte ore se necessario, per aiutarlo a imparare a fare una cosa…»
Lavoro accademico
Dopo qualche esperienza di studi letterari, Jahren capisce presto che la sua materia è la scienza, perché
«durante le lezioni di scienze facevamo cose […] la scienza parlava di che cosa succedeva in quel momento e di un futuro ancora possibile.»
Quando ottiene un incarico al Georgia Tech, finalmente lei e Bill riescono a progettare e ristrutturare il “primo Laboratorio Jahren”. Ma nemmeno allora Hope può dormire sonni tranquilli. Il genere di scienza di cui lei e Bill si occupano, infatti, è definito “ricerca libera motivata dalla curiosità”, ovvero ricerca di base, quasi mai legata alla tecnologia, alla produzione a breve termine di un prodotto commerciale, di un farmaco, di uno strumento. Per questo genere di ricerca il budget complessivo stanziato è basso e deve bastare a biologia, geologia, chimica, paleontologia, fisica, matematica, psicologia e così via. Ogni tre anni, poi, i docenti titolari di tali fondi dovranno, giustamente, rendicontare la destinazione dei soldi: pagamento dei collaboratori (ad esempio Bill), acquisto di prodotti e strumenti per la ricerca, rimborso di trasferte per partecipare a congressi, iscrizioni a convegni e così via. I soldi sono e resteranno una preoccupazione costante.
Un diverso punto di vista
Il modo di lavorare di Jahren e Hagopian è particolarmente interessante perché il loro punto di vista sul mondo vegetale è “diverso”. Hope lo riassume così:
«forse potevo imparare a vedere il mondo dal punto di vista delle piante, mettermi al loro posto, e cercare di capire come funzionano […] Cercai di visualizzare una nuova scienza ambientale che non fosse basata sul mondo che volevamo con dentro le piante, ma piuttosto su un una visione del mondo così come lo vivevano le piante, con dentro noi.»
Nel 1995 spiegare che si vuole studiare “che effetto fa essere una pianta” è un modo certo per rovinarsi la carriera. Oggi, fortunatamente, scienziati come Stefano Mancuso o come Suzanne Simard ci raccontano proprio questo: il mondo visto dalla parte delle piante. Ma 26 anni fa, Jahren, oltre tutto donna, incontrò non poche difficoltà. Eppure lo sguardo sul mondo vegetale dei due ricercatori è davvero nuovo. Ne è un esempio proprio lo studio sul campo compiuto a fianco dei paleontologi sull’isola di Axel Heiberg, in pieno artico. La zona è particolarissima: nonostante la posizione geografica, 45 milioni di anni fa era ricoperta di fitte e rigogliose foreste decidue, come la vicina Ellesmere. Ora vi si trovano fossili preziosi, lignei invece che pietrificati e, mentre i colleghi li studiano con l’attenzione che si dedica a pezzi unici, Hope e Bill cercano di comprendere la stupefacente durata e stabilità di questo antico ecosistema durato milioni di anni. La cosa davvero stupefacente, pensano Jahren e Hagopian, è che anche 45 milioni di anni fa, nonostante il clima differente, gli alberi dell’isola vivevano per tre mesi al buio totale e per tre mesi in luce continua a causa dell’inclinazione dell’asse terrestre. Ed è da questa angolazione che studiano il problema.
Le piante, queste aliene
Ecco come Jahren parla delle radici:
«Se trova ciò di cui ha bisogno, una radice diventa un fittone, un’ancora che può dilatare e spaccare la roccia, e aspirare litri e litri d’acqua ogni giorno per anni, con efficienza di gran lunga superiore a qualsiasi pompa mai inventata dall’uomo. Dal fittone si dipartono radici laterali che si intrecciano con quelle delle piante vicine, capaci di segnalare pericoli, con lo stesso principio secondo cui le informazioni passano da un neurone all’altro attraverso le sinapsi. La superficie di questo sistema radicale può arrivare a essere cento volte maggiore di quello di tutte le foglie messe insieme.»
Questa, invece è una sintesi del nostro profondo legame biologico con il mondo vegetale:
«Le piante sono gli unici organismi dell’universo in grado di produrre zuccheri a partire dalla materia inorganica non vivente. In mancanza di un apporto costante di glucosio il cervello umano muore. Punto. Se costretto, il fegato può secernere glucosio a partire dalle proteine o dai grassi, ma quelle proteine o quei grassi erano comunque stati prodotti a partire da uno zucchero vegetale nell’organismo di qualche altro animale. Non si scappa: in questo preciso momento, nelle sinapsi del vostro cervello, sono le foglie ad alimentare i pensieri sulle foglie.»
E visto che questo processo va avanti sul nostro pianeta da 400 milioni di anni, sarebbe decente che utilizzassimo le nostre sinapsi e gli zuccheri prodotti dalle piante per pensare a sdebitarci, invece che a tagliare alberi. Ma il fusto degli alberi è fatto di legno, che è
«forte, leggero, flessibile, non tossico e resiste agli agenti atmosferici; migliaia di anni di civiltà umana non sono ancora riusciti a produrre un materiale da costruzione altrettanto versatile o migliore.»
tanto che (dati del 2015)
«Solo negli Stati Uniti, la lunghezza totale delle tavole di legno utilizzate negli ultimi vent’anni sarebbe bastata per costruire una passerella dalla Terra a Marte.»
Dal punto di vista delle piante, il mondo è pieno di nemici pronti a divorarle: foglie e semi sono cibo, e la pianta non ha modo di sottrarsi alle aggressioni. I nemici peggiori, però, non sono animali, ma funghi: un unico gruppo di funghi è in grado di far marcire il cilindro centrale dell’albero e perfino i ceppi. Ma sono funghi anche gli unici amici degli alberi: le ife fungine di cinquemila specie che hanno firmato una tregua con le piante:
«tessono la loro rete filamentosa [micelio] attorno e attraverso le radici degli alberi, contribuendo ad aspirare acqua verso il tronco. Attingono anche metalli rari dal terreno, come manganese, rame e fosforo, per poi offrirli all’albero…»
In realtà, dice Hope, quelli del fungo non sono doni, il micelio si nutre degli zuccheri prodotti dalla pianta. Potrebbe sopravvivere anche da solo, ma così ha una vita più facile. Le piante sono creature toste, lo dimostra l’epica battaglia che i salici di Sirka (Alaska) hanno combattuto contro i bruchi tessitori, che li hanno defogliati in gran numero. Poco tempo dopo l’attacco, i salici di zone lontane anche 1,5 km hanno cominciato a riempire le loro foglie di sostanze velenose per i bruchi, “avvertiti” da quelli danneggiati per mezzo di composti organici volatili. La lotta è durata più di un decennio, ma le piante hanno vinto.
Dal suo punto di vista insolito, l’autrice sparge notizie botaniche all’interno di un libro che racconta almeno due vite, scritto con la capacità di scegliere le parole degna di un vero narratore.
«Per gli alberi che vivono in mezzo alla neve, l’inverno è un viaggio. Le piante non si muovono nello spazio come facciamo noi e, di norma, non si spostano da un luogo all’altro. Viaggiano invece nel tempo, sopportando un evento dopo l’altro, e in questo senso l’inverno è un viaggio particolarmente lungo.»
Ma la cosa forse più importante che Jarhen ci insegna è che:
«Le piante non sono come noi. Sono diverse per molti aspetti cruciali e decisivi […] È solo quando cominciamo a percepire questa profonda alterità che possiamo essere sicuri di non proiettare più noi stessi sulle piante»
Abbracciare un albero è qualcosa che fa bene a noi, ma che lascia loro, le aliene, completamente indifferenti. Io ho la fortuna di trascorrere parte dell’anno molto vicina a un gruppo variegato di alberi. Ho dato un nome a ognuno di loro e, qualche volta, spero che provino per me almeno una scintilla di quanto io provo per loro. Ma so di illudermi.
Eppure posso fare qualcosa per loro. Lo dice Jahren, e io le credo. Scoprite anche voi, nell’epilogo di questo bel volume, che cosa potreste fare. E, se potete, fatelo.
Vi lascio con questa domanda:
«Tre miliardi di anni di evoluzione hanno prodotto una sola forma di vita di vita in grado […] di fermare l’avanzata verde sul nostro pianeta»
Indovinate quale? Esatto!
NOI.
Anne Hope Jahren è una scienziata pluripremiata che attualmente insegna presso l’Università di Oslo, e conduce ricerche indipendenti in geobiologia e geochimica. È nota per le sue analisi con gli isotopi stabili sulle foreste fossili dell’Eocene. Ha ricevuto tre Fulbright Awards; Nel 2001, Jahren ha vinto la medaglia Donath, assegnata dalla Geological Society of America. Nel 2005, è stata insignita della Macelwane Medal, diventando la prima donna e la quarta scienziata in assoluto a vincere sia la Macelwane Medal che la Donath Medal Nel 2016 è stata inserita da “Time Magazine” fra le cento persone più influenti al mondo.
Hope Jahren, Lab Girl, Codice Edizioni [2018], Le Scienze [2018], pp. 316, € 20,90, [e-book] € 6,99, trad. Daria Cavallini
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