Trentamila: a tanto ammontano i desaparecidos in Argentina, vittime spesso inermi di una “guerra sporca” (così la chiamano laggiù) condotta dalle forze armate nella più totale illegalità. Il meccanismo dei “combattimenti” è noto: militari di carriera incappucciati assalivano, spesso di notte, la casa del sospetto “sovversivo”, lo trasferivano a forza, su automobili civili senza contrassegno, in una caserma, e del rapito nella grande maggioranza dei casi non si sapeva più nulla. I pochi superstiti parlarono di torture efferate e di trasferimenti verso destinazione ignota: ora si sa che nella famigerata Scuola di Meccanica Navale i prigionieri venivano narcotizzati, caricati su un aereo e scaricati, vivi, in mare aperto. “Il volo” (edizioni Feltrinelli) è un titolo inquietante per un libro che riapre una ferita mai rimarginata nella coscienza argentina: il testo è imperniato sull’intervista resa all’autore, Horacio Verbitsky, da un ex ufficiale di marina “pentito”, 20 anni dopo i fatti. É il primo resoconto dettagliato della guerra sucia in cui i militari argentini, sentendosi minacciati dalla guerriglia peronista di sinistra, decisero di reagire in maniera diversa da quella adottata in Cile, per non subire le contestazioni internazionali che la repressione golpista dei militari cileni aveva suscitato. I militari argentini si proposero di fare terra bruciata intorno ai montoneros, eliminando fiancheggiatori, simpatizzanti ma soprattutto persone semplicemente sospette di un atteggiamento critico nei confronti del regime militare. In un clima delirante da caccia alle streghe, l’eliminazione dei “sovversivi” fu condotta nel modo più crudele, impedendo cioé ai congiunti di conoscere la sorte dei rapiti e di risolvere il trauma della loro morte attraverso quell’atteggiamento
mentale che gli psicologi definiscono “elaborazione del lutto”. Nessun elenco, anche parziale, degli scomparsi fu mai diffuso dal regime, e le testimonianze dei superstiti vennero liquidate come propaganda degli oppositori. Il muro di omertà è stato rotto da alcuni militari solo di recente, e per motivi oltretutto squallidi: due ufficiali di marina, non avendo ottenuto la sospirata promozione perché accusati di avere partecipato alla repressione, hanno protestato, sostenendo che altri colleghi ben più coinvolti nella “guerra sporca” erano assurti ai più alti livelli della gerarchia militare, ed hanno deciso di vuotare il sacco. In segno di solidarietà un loro collega, il capitano Scilingo, dopo avere inutilmente chiesto ai superiori di chiarire che tutti i militari avevano obbedito a ordini emanati dall’alto, decise nel 1995 di rivelare ciò che sapeva all’autore del libro. Si scopre così che tutti i militari di carriera erano chiamati, dall’ultimo sottufficiale al generale, a partecipare in qualche modo all’eliminazione dei “sovversivi”, una procedura che ricorda quella seguita dai boia delle Fosse Ardeatine, volta ad instaurare un legame di complicità da cui nessuno potesse un giorno chiamarsi fuori. Si scopre che la repressione, che colpì anche suore e sacerdoti, fu accettata dalla Chiesa locale, benedetta dal cappellano militare o semplicemente ignorata dal vescovo. Accanto ai contenuti dell’intervista e i commenti dell’autore, un secondo motivo di interesse nasce dalla dinamica del pentimento di Scilingo: dapprima si confessa semplicemente per protesta (l’idea base ricorrente è: «se i nostri superiori ci dicevano che dovevamo uccidere per il bene supremo della patria, perché non ammettono che l’abbiamo fatto?»), poi, nel corso dell’intervista si intuisce che i suoi dubbi e angosce sono nati ben prima che la giunta militare si mostrasse incapace di assumere le proprie responsabilità di fronte al Paese. Quasi una seduta psicoterapeutica, in cui sul lettino insieme all’aguzzino si trova idealmente un’intera nazione che ancora non riesce ad elaborare il lutto di una coscienza “desaparecida”.
Horacio Verbitsky
Il volo
Feltrinelli, SB, pp. 150, € 12,91
trad. Claudio Tognonato
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