Buenos Aires, 1828. Il giovane e impulsivo tenente Quesada viene inviato a Forte Indipendenza, nel sud del paese, oltre il deserto, per consegnare al colonnello Andrade, mitico eroe delle guerre d’indipendenza e ormai da anni in disparte, nuovi ordini a Baigorria, il miglior braccatore della provincia:
«Un buon braccatore è superiore a ogni buona guida […] Non solo sa dirle dov’è, ma la conduce dove vuole andare, le restituisce ciò che ha perduto.»
Comandante temuto e rispettato, Andrade conduce i suoi soldati migliori nel deserto, contro un nemico invisibile e crudele, che soltanto lui conosce. Inizialmente si fida di Baigorria e della «sua» pista
«Ci sono molti piste nella sabbia e ogni braccatore sceglie la sua [ma] nessun braccatore è responsabile di quel che compare alla fine della pista»
Ma Baigorria li riporta sui loro passi, li mette di fronte a sempre nuovi orrori. Reso folle dal sospetto di essere stato ingannato, Andrade lo uccide e guida personalmente i suoi uomini lungo una pista che nessun altro scorge, verso un nemico che è la proiezione di se stesso, l’unico in grado di conferire senso alla sua esistenza.
Alla fine della pista possono esserci l’orrore o la gloria e qualunque altra cosa. Ma qualcosa c’è sempre. Invece alla fine di una pista che non esiste c’è il nulla.
I soldati lo sanno, ma soltanto alla fine troveranno la forza di ribellarsi e di seguire Quesada verso la salvezza. Proprio allora conosceranno il nemico…
L’autore di questo romanzo denso, affascinante e sfuggente riesce a reggere fino in fondo il gioco dei richiami e dell’ambiguità, i suoi personaggi – insieme simboli e persone – non riusciranno a sciogliere l’enigma di un nemico contemporaneamente vero e inesistente. Il tenente Quesada, dopo aver guardato in faccia l’essenza insensata della quotidianità e aver sentito – naturalmente senza comprendere – che ciò che chiamiamo realtà, tentando di rendere razionale l’arbitrio del caso, rimanda a sempre nuovi livelli di complessità per noi indefinibili, compie l’unica scelta possibile: uscire dal gioco.
Impossibile resistere alla tentazione di un confronto tra L’esercito di cenere e Il deserto dei tartari. Si tratta, però, di un paragone fuorviante, come chiarisce Feinman nella postfazione, suggerendo invece paralleli e temi tipici di Moby Dick. L’autore, che ha scritto romanzi e molti saggi di argomento filosofico e politico, in particolare sulle mille facce del peronismo, mette giustamente in guardia da facili parallelismi tra Andrade e i militari argentini: «sarebbe una semplificazione rozzamente riduttiva». Ma il lettore italiano non può fare a meno di riflettere sul modo estremamente differente nei due testi di rendere la mancanza di senso del mondo. Come dice il colonnello Andrade: «Il trionfo è trasformare il nostro arbitrio in giustizia». Questo arbitrio lo scrittore argentino l’ha sperimentato di persona, in maniera molto più totalizzante e invasiva di Buzzati. La violenza e la follia di Andrade si prestano a renderlo certo meglio del vuoto dell’attesa, così efficace nel romanzo italiano.
José Pablo Feinmann, L’esercito di cenere, Sur, 2014, pp. 192, € 15,00, trad. F.Lazzarato
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