
Michael Moorcock
Nota editoriale. Il saggio di Michael Moorcock che qui presentiamo per la prima volta a lettori italiani – una eloquente quanto sfrenata requisitoria contro un preteso fantasy winnie-puhesco, o tolkieniano tout court, redatta quasi quarant’anni fa, benché ripetutamente aggiornata nell’arco del decennio successivo alla stesura originaria – gode da sempre di una certa provocatoria notorietà nel mondo anglosassone. Una fama indiscussa, ancorché “negativa”,1 confermata in tempi a noi più prossimi dall’inclusione nel volume delle prestigiose “Bloom’s Modern Critical Interpretations” dedicato a The Lord of the Rings (New York 2008), oltre che autorevolmente riecheggiata di recente in termini che, comunque la si voglia giudicare, non possono non garantire della sostanziale coerenza critica osservata dallo scrittore inglese.2
Ma perché proporre oggi a lettori italiani un articolo nelle cui posizioni (diciamolo serenamente) non ci ritroviamo, o le cui premesse non ci sembra di poter condividere appieno;3 un testo, oltretutto, più comprensibile all’epoca della stesura originaria – in un particolare contesto culturale, quando su un certo tipo di riflessioni si affilavano appena le armi, e non era ancora a disposizione moltissima documentazione su Tolkien – che non al tempo degli aggiornamenti?
Un primo motivo, già accennato, sta nella notorietà del pezzo, che può senz’altro meritare una lettura diretta in quanto opera di un autore eccellente con le sue ubbie, i nervi scoperti e la sua stessa collocazione all’interno di un genere. Ricordando come Moorcock abbia scritto non solo tanto, ma con qualità tanto alta (basti citare la crudele, febbricitante, visionaria saga di Elric di Melniboné: un eroe, d’altro canto, non più whig di quanto Frodo o Bilbo Baggins possano dirsi anti-eroi di estrazione tory), e sempre avvalendosi dello stile ricco e brillante che lo caratterizza e che, fatti i dovuti distinguo, può risultare godibile anche in questo contributo. Rimandiamo dunque senz’altro agli studi su di lui che vari specialisti, a partire dall’amico saggista Davide Mana, hanno prodotto nel corso degli anni, ma davvero esortando in prima battuta i lettori italiani a riprendere in mano i romanzi moorcockiani, vera festa per l’immaginazione e lezione scintillante di scrittura a tanto esangue fantasy nostrano (peraltro spesso varato a ricalco vorrei-ma-non-posso di Tolkien).
Un secondo motivo sta però nel fatto che Moorcock apre la provocazione a un campo più vasto dell’obiettivo immediato, a una pluralità di autori,4 e virtualmente all’intero orizzonte del fantasy, oggi genere principe – anche per la possibilità di provvederne versioni “facili” – dell’offerta ai giovani lettori. E proseguire una riflessione sul fantasy, su dove oggi si diriga, anche e specialmente in Italia, sembra davvero importante. Comecchessia, ci è sembrato utile, a fronte di un’effervescenza editoriale su Tolkien (è appena stato pubblicato anche in Italia Beren e Lúthien, forse il suo più buccinato inedito) cui non corrisponde un approfondimento diffuso sull’autore e sull’uomo, fare udire anche dalle nostre parti questa “voce fuori dal coro” come stimolo a una riflessione sull’argomento. Una riflessione auspicabilmente libera da pregiudizi e da quegli accaparramenti ideologici in Italia particolarmente pesanti, anzi ancora oggi – a dispetto di autorevoli studi – forieri di equivoci e banalizzazioni tali da nuocere a una generale intelligenza anche del fenomeno letterario fantasy considerato nella complessità del suo divenire.
Ringraziamo Mike Moorcock per averci gentilmente concesso i diritti temporanei di traduzione del suo articolo. Una traduzione che vogliamo dedicare a Riccardo Valla e Sergio D. Altieri, entrambi testimoni di un’epoca che, nel nostro grato ricordo, è già leggenda.
We would like to thank Mike Moorcock for having kindly granted us the temporary translation rights of his article. A translation we want to dedicate to the late Riccardo Valla and Sergio D. Altieri (you owe us a postcard, friends: whether from Elfland or Walhalla, it will be all the same), both witnesses of an era that, in our grateful memory, is already legend.
Franco Pezzini – Massimo Scorsone
[La versione dei passi di opere citati a testo in lingua originale – per i quali i traduttori, allo scopo di serbarne la massima funzionalità possibile all’interno del discorso critico articolato nel presente saggio, hanno preferito evitare l’intarsio di volgarizzamenti altrui (ove già pubblicati in Italia) – si deve ad Aurelia e Flavia Mayuko (con la sporadica collaborazione di Massimo) Scorsone.]
Michael Moorcock, londinese, è uno degli autori contemporanei di narrativa fantastica (ma quale narrativa, in fondo, non pertiene di diritto alla sfera del fantastico?) più prolifici e popolari. In qualità di editor della rivista “New Worlds”, Moorcock fu negli anni ’60 tra i principali promotori del movimento letterario della cosiddetta “New Wave”. La sua multiforme produzione comprende testi per musica, fumetti, sceneggiature e saggi, per non parlare della sua opera narrativa, che ammonta oggi a più di settanta romanzi. A Moorcock, forse meglio noto come autore di vari e fortunati cicli di novelle di heroic fantasy vicendevolmente contaminati, si deve fra l’altro la creazione di una fitta schiera di personaggi seriali quali Elric di Melniboné, Corum, Dorian Hawkmoon, Jerry Cornelius ed Erekosë, il “Campione Eterno”. Più volte vincitore del British Fantasy Award, Michael è stato inoltre insignito del Guardian Fiction Award (per The Condition Of Muzak), del World Fantasy Award e del John W. Campbell Memorial Award (entrambi per Gloriana) oltre che del Nebula Award (per Behold The Man), figurando con il suo Mother London come finalista in lizza per il Whitbread Prize. Vive attualmente con la moglie Linda a Lost Pines, Texas.
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Michael Moorcock
Una Winnie-puheide
Nota dell’autore. Una Winnie-puheide fu divulgato originariamente per le cure della BSFA [«British Science Fiction Association»] in forma di saggio autonomo, quindi rimaneggiato allo scopo di inserirlo come capitolo nel mio Wizardry and Wild Romance: A Study of Epic Fantasy (1989),5 infine ancora una volta leggermente modificato in vista della presente edizione. L’articolo è stato scritto molto tempo prima della pubblicazione – e del meritato successo – della trilogia di Philip Pullman His Dark Materials, che a mio parere ha legittimato appieno tutto il mio antico ottimismo. Obiettivo del contributo non era certo quello di passare al vaglio la letteratura fantastica nel suo complesso (e perciò non vi sono citate né Alice nel paese delle meraviglie né altre celeberrime opere della cosiddetta letteratura per l’infanzia), bensì soltanto il genere Epic Fantasy, considerato a partire dalle sue remote origini poetiche – il romanzo cavalleresco – alla narrativa in prosa dei giorni nostri.6
Per quale motivo il SdA [Il signore degli anelli] gode oggi di un pubblico di lettori tanto vasto? In un’epoca in cui il mondo abbisognava di esperienza autentica come forse mai prima d’allora gli era accaduto, quella storia pareva provvederne un modello. Un businessman di Oxford mi ha confidato che, ogniqualvolta si sentiva stanco o semplicemente giù di corda, soleva ricorrere al SdA come a una fonte ristoratrice. Lewis, e con lui diversi altri critici, pensa non ci sia libro più pertinente rispetto alla drammatica situazione che l’uomo si trova a dover affrontare. W. H. Auden afferma che la vicenda ivi narrata “riflette nello specchio che ci porge l’unica natura che conosciamo, la nostra.” Per quel che mi riguarda, posso dire che proprio mentre si celebravano i funerali di Winston Churchill stavo rileggendo il SdA, ed ebbi all’epoca l’impressione di notare un preciso parallelismo tra le due cose. Per poche e brevi ore, l’influsso esercitato di norma dalle inezie che quotidianamente ci assorbono pareva essere stato sospeso, e la gente avvertiva all’improvviso, condividendolo come un’esperienza collettiva, il senso profondo di cose quali la Leadership, la grandezza, l’eroismo, la fragranza di un tempo senza tempo, oltre ad altri motivi meno inconsueti. La turba degli uomini ridiventava temporaneamente umana e sentiva la vita scorrere dentro di sé e intorno a sé. Durante quel fugace momento, la vita comunitaria si era rianimata un poco, facendo sì che quel segno di rinnovamento si integrasse all’interno di una intuizione quale può capitare una, due volte al massimo nell’arco di una intera esistenza.
Per almeno un secolo il mondo ha dovuto subire un processo di demitologizzazione sempre più aggressivo. Una simile condizione, tuttavia, pare essere estranea alla più autentica natura dell’uomo. E infatti abbiamo assistito recentemente alla comparsa di uno scrittore come John Ronald Reuel Tolkien che, remitologizzando il mondo, sortisce il misterioso effetto di riscaldarci il cuore.
Clyde S. Kilby, “Meaning in the Lord of the Rings”, in Shadows of Imagination, 1969
Talora mi è capitato di domandarmi quanta influenza potrebbe aver esercitato sui lirici vittoriani e sui prosatori dell’età romantica l’avvento della macchina a vapore. Leggendo Dunsany, per esempio, mi succede spesso di congetturare intorno alle circostanze che videro la composizione dei suoi primi racconti, la cui stesura originaria potrebbe forse aver avuto luogo nel corso di trasferte ferroviarie dell’autore:
Via dalla banchina, in carrozza sen van
Iraine, e Rollory, e l’eroe Welleran.
Sdegnavano il sesso, le tasse ed i fax
Già Sooranard, Mammolek, ed Akanax:
Così sognando Dunsany, il baron,
Forzava il cavetto di connession…
Il tipo di prosa che viene assai spesso identificato con lo stile classicamente connotativo del cosiddetto fantasy “di alto livello” è un idioma da nursery-room. È una ninnananna, intesa a blandire e a consolare. È pura musica verbale. Un formulario apprezzato dai più non tanto in ragione delle tensioni che sarebbe in grado di esprimere, quanto piuttosto per via della loro assenza manifesta. Ti avvolge in un morbido abbraccio, ti si mostra amico, può raccontarti bugie pur di tranquillizzarti. È carezzevole:
One day when the sun had come back over the forest, bringing with it the scent of May, and all the streams of the Forest were tinkling happily to find themselves their own pretty shape again, and the little pools lay dreaming of the life they had seen and the big things they had done, and in the warmth and quiet of the Forest the cuckoo was trying over his voice carefully and listening to see if he liked it, and wood-pigeons were complaining gently to themselves in their lazy comfortable way that it was the other fellow’s fault, but it didn’t matter very much; on such a day as this Christopher Robin whistled in a special way he had, and Owl came flying out of the Hundred Acre Wood to see what was wanted.7
Winnie-the-Pooh [tr. it. Winnie Puh], 1926
È questo il registro dominante de Il signore degli anelli e de La collina dei conigli, ed è proprio questo il principale motivo per cui libri del genere, come in passato molti altri non dissimili, continuano a riscuotere successo. È il registro che caratterizza tanti dimenticati bestseller inglesi e americani di un tempo – ma ancora oggi celebrati classici per l’infanzia – quali Il vento tra i salici, quello che sovente può capitarvi di udire in certe pagine di narrativa regionalistica indirizzate a un pubblico provinciale; ma è anche il tono, per quanto di accenti più raffinati, di James Barrie (in Caro Brutus, o in Mary Rose e, com’è ovvio, nel Peter Pan). La cadenza consueta a E. Nesbit (Cinque bambini e la Cosa, ecc.), a Richmal Crompton (i volumi della serie di ‘William’), a Terry Pratchett o alla formidabile J. K. Rowling è invece sentimentale, lievemente distaccata, spesso melanconica, vagamemte introspettiva; fa scarsa esibizione di spirito ma, in compenso, si compiace di qualche bizzarria. Sovente un certo umorismo vi fa capolino in maniera inconsapevole perché, come lo stesso Tolkien,8 questi autori prendono sul serio le parole che adoperano, ma senza dilettarsene:
One summer’s evening an astonishing piece of news reached the Ivy Bush and Green Dragon. Giants and other portents on the borders of the Shire were forgotten for more important matters; Mr. Frodo was selling Bag End, indeed he had already sold it – to the Sackville-Bagginses!
“For a nice bit, too,” said some. “At a bargain price,” said others, “and that’s more likely when Mistress Lobelia’s the buyer.” (Otho had died some years before, at the ripe but disappointed age of 102.)
Just why Mr. Frodo was selling his beautiful hole was even more debatable than the price… 9
The Fellowship of the Ring [tr. it. La compagnia dell’anello], 1954
Mi è stato detto che non sarebbe leale produrre citazioni tratte dai primi capitoli de Il signore degli anelli e che, se mi fossi dato la pena di cercare altrove, avrei probabilmente potuto rinvenire materiali di qualità molto superiore; difatti, riaperto del tutto a caso il volume, mi sono subito imbattuto in un passo sostanzialmente e formalmente migliore; il tono dell’insieme, però, non appare per nulla diverso dal precedente:
Pippin became drowsy again and paid little attention to Gandalf telling him of the customs of Gondor, and how the Lord of the City had beacons built on the tops of outlying hills along both borders of the great range, and maintained posts at these points where fresh horses were always in readiness to bear his errand-riders to Rohan in the North, or to Belfalas in the South. “It is long since the beacons of the North were lit,” he said; “and in the ancient days of Gondor they were not needed, for they had the Seven Stones.”
Pippin stirred uneasily.10
The Return of the King [tr. it. Il ritorno del re], 1955
Certo, è senz’altro vero che Tolkien alle volte, e in alcune scene di rilevanza cruciale, riesce a elevarsi ben al di sopra di questo giulebboso pantano, benché spesso l’atmosfera complessiva di tali episodi risulti comunque compromessa dall’intarsio di pessimi versi; ed è inoltre curioso notare quanto frequentemente il Nostro si ritragga dalle implicazioni della sua materia principale. Non diversamente da Chesterton e da altri scrittori cristiani di stretta ortodossia, inclini a sostituire la propria fede al vero rigore artistico, egli vede negli esponenti della piccola borghesia, nel mondo dei probi artigiani e contadini, l’unico baluardo contro le forze del Caos. In questo genere di narrativa, gli esponenti di tali classi sociali vengono sempre assoggettati a un processo di sentimentalizzazione appunto perché, per tradizione, essi sono invariabilmente gli ultimi a lamentare le carenze dello status quo. Si tratta di figure appartenenti a una tipologia familiare a chiunque sia mai stato spettatore di qualche film inglese degli anni ’30 o ’40, e parlo in particolare dei film di guerra, in cui costoro finiscono appunto per incarnare il solido buon senso in antitesi ai rappresentanti di un intellettualismo pervertito. Sotto più di un profilo, Il signore degli anelli è, se non proprio una storia anti-romantica, un anti-romance. Tolkien, e come lui i suoi confratelli “Inklings” (gli accademici che solevano riunirsi in casa di Lewis a Oxford per leggersi l’un l’altro i loro work in progress), ostentava un atteggiamento singolarmente ambiguo nei confronti del genere del romance (oltre che nei confronti di quasi ogni altra cosa), il che senza dubbio giustifica il fatto che tanto spesso nel corso della sua trilogia occorrano momenti d’impaccio e di completa caduta di tensione narrativa. Pure, quando gli accadeva di riuscire a dare il meglio di sé, egli era in grado di scrivere una prosa di gran lunga migliore di quella prodotta dai suoi colleghi oxoniensi, i quali forse non avranno nutrito il medesimo rispetto da lui manifestato verso la poesia medio-inglese. Lo stesso Tolkien asseriva che la genesi prima della sua maggiore opera narrativa risiedesse in una originaria ispirazione linguistica, e che dunque non vi si dovesse ravvisare la presenza di alcun simbolo o allegoria di sorta; pure, le sue personali credenze permeano da capo a piedi il suo libro, non diversamente da quanto è possibile riscontrare nei romanzi di Charles Williams e di C. S. Lewis, i quali – consciamente o inconsciamente – in tutto ciò che scrissero si professarono sempre fedeli alfieri dell’ortodossia tory. E, nella misura in cui la natura reazionaria delle loro opere si dimostra evidente, è altrettanto chiaro che i modelli di pensiero cui questi scrittori si rifanno sono senz’altro consentanei a un profondo conservatorismo e a un anti-urbanesimo fortemente sentito (ciò che talvolta ha pure potuto indurre qualcuno ad associarli un po’ troppo corrivamente a una sorta di milieu hitlerian-wagneriano). Personalmente, non credo che libri di questo genere siano d’ispirazione ‘fascistica’; quel che è certo, però, è che difficilmente i loro autori si troverebbero in disaccordo con la settecentesca ideologia tory che tanto sovente, di questi tempi convulsi, blandisce i sogni di serenità dell’inglese medio. Costoro non sono proclivi a farsi domande sull’operato di quegli alti papaveri in completo grigio che si suppone sappiano a menadito come provvedere a ciò che è meglio per noi.
Suppongo che la spiegazione del mio atteggiamento tanto poco simpatetico nei confronti di Lewis e di Tolkien debba rinvenirsi nel fatto che trovo il loro genere di ortodossia consolatoria, al pari di ogni altra dottrina esclusivista e misantropa, sostanzialmente sgradevole. Forse si dovrebbe provare un po’ di simpatia almeno per l’inquietudine che, all’occasione, può percepirsi anche attraverso gli spessi strati di quel tronfio autocompiacimento che siamo soliti attribuire al tipico maestrino di seconda classe, tanto allegramente beffeggiato dai Peake e dalle Rowling; però non è facile rinfocolare sentimenti di simpatia a fronte della loro subdola aggressione, accompagnata tanto spesso da una ipocrisia profondamente radicata. Il loro modo di vedere le cose conferisce dignità all’umore di una larga porzione, disincantata e del tutto screditata, di rappresentanti della repressa media borghesia britannica, sempre troppo intimoriti alla prospettiva di denunciare direttamente alcunché a chi di dovere, anche quando ne càpiti l’occasione (“ci hanno spediti a calci fuori dalla Rhodesia: lo sapete com’è andata, no?”); e men che meno all’Autorità Suprema, il loro Dio tory che, com’è evidente, avrebbe finito per deluderli.
Furono gli autori di romanzi best-seller del calibro di Warwick Deeping (Sorrell and Son) che, dopo la Grande Guerra, cominciarono a mettere a profitto tutto il repertorio mitologico dei buoni sentimenti (e in particolare il mito del Sacrificio) grazie al quale gli Inglesi erano stati in grado di sopportare stoicamente i traumi della guerra (corroborando al contempo in se stessi il convincimento che sarebbero riusciti a superare allo stesso modo qualunque altra guerra a venire), dotandoci così dell’etica miserevole del “decoro” passivo e del sacrificio personale: provvisti a questa maniera, noi cittadini britannici fummo infine capaci di consolarci della nostra apatia morale (perfino Buchan si sentì costretto a interrompere le sue diatribe antisemite per pagare le sue decime a tale voga moralizzante). La moderazione si era ormai imposta come regola principe; ed è appunto ancora una volta la moderazione a compromettere definitivamente il fantasy tolkieniano e a determinarne il fallimento come autentico romance, per non parlare di epos vero e proprio. Le dolci colline e i boschi di quel Surrey ideale che è la sua Contea sono posti “tranquilli”, mentre i selvaggi scenari che si stendono per ogni dove al di fuori dei confini della Contea sono “rischiosi”. Ma anche l’esperienza della vita in se stessa è rischiosa. Il signore degli anelli è una funesta testimonianza dei valori di una nazione in piena decadenza, rappresentata da una borghesia – protagonista di un vero e proprio fallimento morale – il cui codardo istinto di sopravvivenza deve essere considerato il principale responsabile dei problemi che l’Inghilterra ha affrontato con la spietata logica del thatcherismo. La vera umanità fu così schernita e marginalizzata. Il sentimentalismo ne divenne il più accettabile sostituto. Al punto che ben poche persone parrebbero oggi capaci di cogliere la differenza esistente tra i due concetti.

Margaret Thacher
Ma Il signore degli anelli è alquanto più radicato nel suo infantilismo di un buon numero dei libri che da esso han preso le mosse, benché indirizzati senza possibilità di dubbio a un pubblico giovanile. È un Winnie Puh atteggiatosi a Iliade. Se la Contea è un giardino pubblico del centro città, Sauron e i suoi scherani non sono che l’incarnazione del solito spauracchio della borghesia vecchio stile, la Massa – un’orda di tifosi scervellati intenti a gettare le loro bottiglie di birra vuote oltre le recinzioni: le più deprecabili manifestazioni della moderna società suburbana intese e rappresentate come una sola, univoca minaccia da una classe d’individui pavidi e misoneisti per i quali “buon gusto” fa rima con “riserbo” (delicate tinte pastello, dissensi educatamente sommessi) e un comportamento “civile” si traduce a un dipresso come “comportamento convenzionale in ogni circostanza”. Dico questo non per negare che ne Il signore degli anelli siano presenti anche figure di memorabile audacia, o che vi venga espresso un reale desiderio di contrastare il Male (per quanto esso non venga mai concretamente definito per ciò che è), ma per affermare che anche i coraggiosi eroi cantati da Tolkien paiono quasi assumervi l’atteggiamento di colonnelli in pensione che si convincano una volta per tutte della necessità di scrivere una lettera di protesta al Times. Inoltre, non riusciamo mai a sincerarci che Sauron & Co. siano davvero così malvagi come ci vengono dipinti (perché, in effetti, Tolkien si dimostra inetto a osservare abbastanza da vicino la loro progenie e i suoi satanici condottieri). Dopotutto, chiunque sia capace di odiare di tutto cuore gli hobbit non può essere davvero un così cattivo arnese…
Le attrattive della Contea rivelano peraltro qualche similitudine con le attrattive che si sogliono attribuire al “bosco frondoso”, un archetipo senz’ombra di dubbio ben radicato nella maggioranza di noi Inglesi:
In summer when the sheves be shene
And leaves be large and long,
It is full merry in fair forest
In hear the fowle’s song;
To see the deer draw to the dale,
And leave the Hilles hee,
And shadow them in levès green,
Under the greenwood tree.11
The Tale of Robin Hood, in Ancient Metrical Tales, 1829
La storia di Robin Hood, in ogni caso, non è suggellata da alcun lieto fine; però Tolkien, a bella posta controcorrente rispetto alle convenzioni stesse del suo genere d’elezione, ce lo fa comunque sorbire di prepotenza – facendone, anzi, una questione di principio:
E infine, eccoci giunti alla più antica, alla più radicata fra tutte le nostre aspirazioni: quella della Grande Evasione, l’Evasione dalla Morte. Le fiabe ce ne offrono parecchi modelli ed esempi – che potrebbero essere agevolmente compresi sotto la rubrica dell’Ingenuo Escapista, ovvero (per dir meglio) dello Spirito Fuggitivo. Ma questo è ciò che fanno anche altri tipi di storie (in particolare quelle ispirate da fantasie scientifiche), e la stessa cosa può dirsi pure di altre tipologie narrative… La “consolazione” che le fiabe ci provvedono rivela tuttavia anche un altro aspetto, che non ha nulla a che vedere con l’immaginaria soddisfazione di antiche aspirazioni. Perché la Consolazione del Lieto Fine è ancora più importante.
J. R. R. Tolkien, Sulla fiaba [“On Fairy Stories”]
Le grandi narrazioni epiche hanno sempre nobilitato la morte, ma certo non l’hanno mai ignorata, ed è questo uno dei motivi per cui esse sono senz’altro superiori all’artificioso genere di romance di cui Il Signore degli anelli non è che un campione, e dei più recenti.
L’uomo comune vagheggia da sempre (perlomeno, fin dagli esordi della rivoluzione industriale) un utopico mondo rurale che ritiene ormai scomparso – anelando (come faceva Morris) a una mitica condizione d’innocenza originaria con uno struggimento non dissimile da quello che i primi figli di Adamo avranno provato per il perduto Giardino dell’Eden. Tale rifiuto di confrontarsi con le realtà della vita urbana dell’età industriale, o di trarne un godimento qualsiasi, questo segreto anelito a riappropriarsi del panorama di un paesaggio agreste che si vorrebbe tanto contemplare ancora con occhi infantili costituisce un tema fondamentale per tutta la letteratura popolare inglese. I romanzi ambientati in campagna venderanno probabilmente sempre più dei romanzi ambientati in città (e, forse, proprio a motivo del fatto che la maggioranza della gente vive oggi in città).
Se personalmente trovo un po’ strana questa nostalgia per un paesaggio “scomparso”, lo devo con ogni probabilità al fatto che, se getto uno sguardo dalla finestra presso la quale sto scrivendo, il mio sguardo può spaziare per venti miglia su un magnifico panorama campestre, e poi giù fino al mare e a una costa sporadicamente popolata. Questa provincia, esattamente come tante altre, offre all’ammirazione di residenti e visitatori paesaggi apparentemente sconfinati di grande bellezza e varietà, tuttora non profanati dagli eccessi del turismo di massa o dalle più turpi contaminazioni industriali. Altrove, i grandi centri urbani hanno certamente distrutto la campagna circostante, ma i rapidi mezzi di trasporto consentono oggi a qualsiasi londinese la possibilità di raggiungere il Northumberland impiegando il medesimo tempo che ci sarebbe voluto quarant’anni fa per coprire la distanza tra la capitale e Box Hill. Credo che la ragione ultima per cui la gente odia il mondo moderno e la sua società in mutamento non sia che pura diffidenza nei confronti di tutto ciò che è nuovo; ed è la paura di tutto ciò che è loro estraneo a renderli incapaci di immaginare quali inedite bellezze agresti potrebbero presentarsi alla loro vista se appena si azzardassero a mettere il naso al di fuori dei confini della loro Contea personale. Ma gente simile preferirà piuttosto leggere Miss Read e L’uomo che sussurrava ai cavalli e scambiarsi in treno non più di un paio di meschine lamentele con un altro pendolare mentre programmano una vacanza a Bournemouth, come al solito, perché quest’anno non possono permettersi di trascorrere le ferie in Spagna. Comecchessia, questa gente non spasima affatto per la bellezza della campagna; vuole soltanto godersi una giornata di sole, un bel panorama.
Gli scrittori come Tolkien vi conducono per mano e, una volta giunti sul margine del Baratro, vi indicano quel vezzoso giardino apparecchiato per il tè che vi attende laggiù in fondo, accennando ai gradini intagliati nella roccia viva del dirupo e raccomandandovi di fare attenzione durante la discesa, perché i corrimano sono un po’ malfermi; voi non avete ancora manifestato alcuna intenzione in merito, ma loro sono già lì a proporvi qualcosa in più.
A. A. Milne non l’ho mai potuto digerire, ma nemmeno quando ero ancora molto piccolo. Nel suo tono di voce consueto riecheggia un accento subdolamente suasorio di cui qualunque bambino un po’ guardingo può accorgersi assai per tempo. Suvvia, sembra quasi dire, facciamoci tutti le coccole (i libri per bambini, dopotutto, sono il più delle volte scritti da adulti conservatori ansiosi di mantenere nei confronti dell’infanzia un atteggiamento remoto dalla realtà), non crucciamoci più di nulla e andiamo a fare la nanna. Un invito al quale non potrei fare a meno di rispondere, rizzandomi di colpo a sedere nel mio lettino, con una parolaccia irriferibile.
Stando alle parole di C. S. Lewis, le storie fantastiche per bambini da lui scritte – i sette libri del ciclo delle “Cronache di Narnia”, che iniziano con Il leone, la strega e l’armadio e terminano con L’ultima battaglia – erano opere deliberatamente pensate per la propaganda cristiana. Un po’ come se E. Nesbit avesse ricucinato le storie di Oz in salsa evangelica; anche se bisogna dire che di rado E. Nesbit si sarebbe concessa l’atroce sintassi di Lewis, gonfia di clausole artificiose, specificazioni inconsistenti, aggettivi deboli e inconscie ripetizioni; né si sarebbe mai data la pena di ammaestrare dei bambini con la medesima passione di questo accademico senza prole che continuò a essere per gran parte della propria vita uno scapolo impenitente. Tanto Baum quanto la Nesbit erano entrambi in grado di scrivere con un brio e una coerenza assai superiori a ciò di cui quest’altro professore di Oxford riusciva a dar prova:
Old Mombi had thought herself very wise to choose the form of a Griffin, for its legs were exceedingly fleet and its strength more enduring than that of other animals. But she had not reckoned on the untiring energy of the Saw-Horse, whose wooden limbs could run for days without slacking their speed. Therefore, after an hour’s hard running, the Griffin’s breath began to fail, and it panted and gasped painfully, and moved more slowly than before. Then it reached the edge of the desert and began racing across the deep sands. But its tired feet sank far into the sand, and in a few minutes the Griffin fell forward, completely exhausted, and lay still upon the desert waste.
Glinda came up a moment later, riding the still vigorous Saw-Horse; and having unwound a slender golden thread from her girdle the Sorceress threw it over the head of the panting and helpless Griffin, and so destroyed the magical power of Mombi’s transformation.
For the animal, with one fierce shudder, disappeared from view, while in its place was discovered the form of the old Witch, glaring savagely at the serene and beautiful face of the Sorceress.12
L. Frank Baum, The Wonderful Land of Oz [tr. it. Il meraviglioso paese di Oz], 1904
Elfrida fired away, and the next moment it was plain that Elfrida’s poetry was more potent than Edred’s; also that a little bad grammar is a trifle to a mighty Mouldiwarp.
For the walls of Edred’s room receded further and further till the children found themselves in a great white hall with avenues of tall pillars stretching in every direction as far as you could see. The hall was crowded with people dressed in costumes of all countries and all ages – Chinamen, Indians, Crusaders in armour, powdered ladies, doubleted gentlemen, Cavaliers in curls, Turks in turbans, Arabs, monks, abbesses, jesters, grandees with ruffs round their necks, and savages with kilts of thatch. Every kind of dress you can think of was there. Only all the dresses were white. It was like a redoute, which is a fancy-dress ball where the guests may wear any dress they choose, only the dresses must be of one colour.
The people round the children pushed them gently forward. And then they saw that in the middle of the hall was a throne of silver, spread with a fringed cloth of chequered silver and green, and on it, with the Mouldiwarp standing on one side and the Mouldierwarp on the other, the Mouldiestwarp was seated in state and splendour. He was much larger than either of the other moles, and his fur was as silvery as the feathers of a swan.13
E. Nesbit, Harding’s Luck, 1909
E questo è invece un classico brano di Lewis, tratto dal primo libro del ciclo di Narnia, una storia di qualità schiettamente superiore alla media dei romanzi successivi e un esempio di prosa lewisiana tra i migliori che si possano rinvenire in tutta la sua produzione narrativa, senza distinzioni tra opere intese per un pubblico di bambini o di adulti:
It was nearly midday when they found themselves looking down a steep hillside at a castle – a little toy castle it looked from where they stood which seemed to be all pointed towers. But the Lion was rushing down at such a speed that it grew larger every moment and before they had time even to ask themselves what it was they were already on a level with it. And now it no longer looked like a toy castle but rose frowning in front of them. No face looked over the battlements and the gates were fast shut. And Aslan, not at all slacking his pace, rushed straight as a bullet towards it.
“The Witch’s home!” he cried. “Now, children, hold tight.”
Next moment the whole world seemed to turn upside down and the children felt as if they had left their insides behind them; for the Lion had gathered himself together for a greater leap than any he had yet made and jumped – or you may call it flying rather than jumping – right over the castle wall. The two girls, breathless but unhurt, found themselves tumbling off his back in the middle of a wide stone courtyard full of statues.14
The Lion, the Witch and the Wardrobe [tr. it. Il leone, la strega e l’armadio], 1950
Già da bambino mi avvidi che questi libri non mi dimostravano affatto il rispetto che pure avevano manifestato nei miei riguardi Nesbit o Baum, i quali inoltre mi avevano provvisto di letture anche più ricche e di miglior qualità, grazie alle quali potevo adesso disporre di un vocabolario assai più ampio. Il Leone Codardo, poi, era un personaggio molto più simpatico di Aslan, mentre le novelle di Crompton che avevano per protagonista William mi erano sembrate perfettamente scevre di predicozzi morali. Penso che all’epoca avrei potuto apprezzare molto di più anche le opere di Alan Garner, Susan Cooper e Ursula Le Guin. Sono autori che rivelano un rispetto maggiore per il pubblico infantile, oltre a un talento stilistico e narrativo di qualità decisamente superiore. Ecco Garner:
But as his head cleared, Cohn heard another sound, so beautiful that he never found rest again; the sound of a horn, like the moon on snow, and another answered it from the limits of the sky; and through the Brollachan ran silver lightnings, and he heard hoofs, and voices calling, “We ride! We ride!” and the whole cloud was silver, so that he could not look.
The hoof-beats drew near, and the earth throbbed. Cohn opened his eyes. Now the cloud raced over the ground, breaking into separate glories that wisped and sharpened the skeins of starlight, and were horsemen, and at their head was majesty, crowned with antlers, like the sun.
But as they crossed the valley, one of the riders dropped behind, and Colin saw that it was Susan. She lost ground though her speed was no less, and the light that formed her died, and in its place was a smaller, solid figure that halted, forlorn, in the white wake of the riding.
The horsemen climbed from the hillside to the air, growing vast in the sky, and to meet them came nine women, their hair like wind. And away they rode together across the night, over the waves, and beyond the isles, and the Old Magic was free forever, and the moon was new.15
The Moon of Gomrath [tr. it. La luna di Gomrath], 1963
Com’è evidente, Garner è uno scrittore migliore di Lewis o di Tolkien. Nella sua trilogia fantasy – La pietra magica di Brisingamen(1961), La luna di Gomrath (1963) ed Elidor (1965) – il difetto, peraltro comune ad altri scrittori del genere, sta tutto nella trama della vicenda narrata. Ma in un libro successivo, meglio strutturato, The Owl Service (1970), diede prova di aver alquanto perfezionato la sua tecnica d’un tempo.16
Tali carenze strutturali sono, del resto, altrettanto lampanti nelle opere di Ursula K. Le Guin, Gillian Bradshaw o Susan Cooper. Quest’ultima ha peraltro prodotto quella che, secondo i miei gusti, è una delle migliori serie romanzesche del genere (aventi per protagonisti bambini d’oggigiorno coinvolti in mistici conflitti risalenti a un’antichità immemoriale). Si tratta di storie che hanno molto dell’incanto di Box of Delights di Masefield. Il suo ciclo, The Dark is Rising, offre diversi bei momenti narrativi. I romanzi più validi cui ha posto mano rimangono comunque il volume che dà il titolo alla saga e quello che la conclude, Silver in the Tree (1977), benché la Cooper abbia forse dato il meglio di sé come scrittrice in The Gray King (1975):
They were no longer where they had been. They stood somewhere in another time, on the roof of the world. All around them was the open night sky, like a huge black inverted bowl, and in it blazed the stars, thousand upon thousand brilliant prickles of fire. Will heard Bran draw in a quick breath. They stood, looking up. The stars blazed round them. There was no sound anywhere, in all the immensity of space. Will felt a wave of giddiness; it was as if they stood on the last edge of the universe, and if they fell, they would fall out of Time… As he gazed about him, gradually he recognised the strange inversion of reality in which they were held. He and Bran were not standing in a timeless dark night observing the stars in the heavens. It was the other way around. They themselves were observed. Every blazing point in that great depthless hemisphere of stars and suns was focussed upon them, contemplating, considering, judging. For by following the quest for the golden harp, he and Bran were challenging the boundless might of the High Magic of the Universe. They must stand unprotected before it, on their way, and they would be allowed to pass only if they had the right by birth. Under that merciless starlight of infinity any unrightful challenger would be brushed into nothingness as effortlessly as a man might brush an ant from his sleeve.17
Fra i tre autori cui ho appena accennato, Ursula K. Le Guin è l’unica ad aver ambientato integralmente le vicende della sua trilogia – Il mago di Earthsea (1968), Le tombe di Atuan (1971) e La spiaggia più lontana (1972) – in un originale mondo immaginario di sua invenzione. Le Guin scrive storie per il pubblico più giovane con il medesimo coscienzioso impegno che mette nel narrare le sue storie a lettori adulti (è un’ammiratissima autrice di punta della sf contemporanea, e le sue opere hanno ricevuto numerosi riconoscimenti). Ma eccovi un brano, abbastanza prossimo all’esordio, tratto dal primo romanzo del suddetto ciclo, ancora risuonante di echi dal Ramo d’oro di Frazer:
On the day the boy was thirteen years old, a day in the early splendour of autumn while still the bright leaves are on the trees, Ogion returned to the village from his rovings over Gont Mountain, and the ceremony of Passage was held. The witch took from the boy his name Duny, the name his mother had given him as a baby. Nameless and naked he walked into the cold springs of the Ar where it rises among the rocks under the high cliffs. As he entered the water clouds crossed the sun’s face and great shadows slid and mingled over the water of the pool about him. He crossed to the far bank, shuddering with cold but walking slow and erect as he should through that icy, living water. As he came to the bank Ogion, waiting, reached out his hand and clasping the boy’s arm whispered to him his true name: Ged.
Thus was he given his name by one very wise in the use of power.18
The Wizard of Earthsea [tr. it. Il mago di Earthsea]
Lloyd Alexander è un altro scrittore americano i cui romanzi fantasy ambientati in un mondo del tutto fittizio – quantunque decisamente celtico – hanno riscosso parecchio successo anche se, a mio parere, non sono mai riusciti a raggiungere i livelli di eccellenza dei tre che ho appena citato. Oltre a fare troppo affidamento sui cliché, lo stile di Alexander difetta un po’ di energia:
The Horned King stood motionless, his arm upraised. Lightning played about his sword. The giant flamed like a burning tree. The stag horns turned to crimson streaks, the skull mask ran like molten iron. A roar of pain and rage rose from the Antlered King’s throat.
With a cry, Taran flung an arm across his face. The ground rumbled and seemed to open beneath him. Then there was nothing.19
The Book of Three, 1964
L’ennesima apparizione del Cacciatore Selvaggio, inoltre, rischia di annoiare un po’. Ancora una volta, si tratta della solita eredità frazeriana. Talora la sua figura ricorre nei libri di questo tipo quasi a guisa d’inevitabile luogo comune, come se a richiederne la presenza non fosse che una mera necessità convenzionale: un vescovo anglicano anzianotto e un tantino svaporato tenuto a prendere parte a una cerimonia liturgica ufficiale.
Oggi vengono scritti romanzi e novelle di questo medesimo genere di fantasy per ragazzi in gran quantità e, nel complesso, possono dirsi opere di qualità considerevolmente migliore rispetto alle loro imitazioni, inequivocabilmente pensate per il mercato dei lettori adulti. Forse gli autori si sentono più a loro agio quando scelgono come propri soggetti e lettori d’elezione i bambini – quasi che, così facendo, fossero costretti a rifilare un po’ meno bugie (o almeno a rispondere a un minor numero di domande fondamentali) a se stessi o al loro pubblico.
Tra questi ultimi e più recenti autori, Gillian Bradshaw ha prodotto un’ennesima trilogia arturiana. Cè però una differenza tra questo nuovo “ciclo bretone” e altre opere dedicate in passato al medesimo soggetto, e consiste nel fatto che la pur arcinota vicenda leggendaria è qui narrata dal punto di vista di un comprimario, il principe Gwalchmai, figlio del re delle Orcadi e della regina Morgause (che potrebbe essere una strega). Il principe s’imbatte nei magici Sidhe, alcuni dei quali gli prestano il loro aiuto nel corso del viaggio che egli intraprende allo scopo di recar manforte al re dei Britanni, che sta combattendo una disperata battaglia per difendere l’isola dagli invasori sassoni. Lo stile di Bradshaw è perspicuo e nervoso, e la narrazione ha ritmo e verve.
She lifted her arms and the Darkness leapt. But she was distant again, and I stood at Camlann. I looked up and saw Lugh standing in the west, opposite Morgawse, holding his arm above the island so that the Queen could not touch it. Behind was light too brilliant, too glorious to be seen. For a moment I saw these two confronting one another, and then my field of vision narrowed. I saw the island and the figures of armies. I saw the Family and myself in it. The armies began to move, and the sounds of battle arose. I realized that I saw things that were yet to come, and was terrified. I covered my face with my arms and cried, “No more!”
And abruptly there was silence.20
Hawk of May, 1981
I successivi libri della serie si intitolano Kingdom of Summer(1982) e In Winter’s Shadow(1983).
Parecchi tra gli scrittori di genere più recenti e acclamati dal pubblico giovanile dimostrano effettivamente di possedere doti originali e talento superiori rispetto alla maggior parte di coloro che scrivono fantasy dichiaratamente destinati a un pubblico adulto. Uno dei migliori fra questi ultimi è però, a mio avviso, Robin McKinley. Il suo The Blue Sword (1982) ha vinto nel 1984 la John Newbery Medal, e a tutt’oggi l’autrice si sta guadagnando una eccellente reputazione. The Blue Sword è la prima delle sue “Cronache di Damar”. Il suo approccio nei confronti del genere è fresco e interessante, e tale da rendere la sua scrittura immediatamente personale e riconoscibile. La McKinley dà prova di uno stile vigoroso, elegante e riflessivo, qualità che ci fanno tirare un gran sospiro di sollievo dopo i tanti reboanti arcaismi e bellurie che oggigiorno riempiono la grande maggioranza delle novelle fantasy. La giovane donna protagonista dei suoi romanzi, Angharad “Harry” Crewe, è un personaggio molto più gradevole di tutta la stereotipata tribù di gambute e un po’ goffe adolescenti appassionate di ponies che troppo sovente fanno la loro apparizione negli ultimi fantasy. Anche per questo, le doti di narratrice della McKinley mi fanno rammaricare di non aver potuto leggere da ragazzino i suoi romanzi. Sarebbero stati un’ottima alternativa alla insipida dieta cui, quando ero giovane, finì generalmente per assuefarsi ogni rampollo della britannica middle class, considerata in tutte le sue miriadi di caste e sottocaste.
The power that washed over that face, that rolled down the arms and into the sword and shield, was that of demonkind, and Harry knew she was no match for this one, and in spite of the heat of Gonturan in her hand her heart was cold with fear. The two stallions reared again and reached out to tear each other; the white stallion’s neck was now ribboned with blood, like the real ribbons he wore in his mane. Harry raised her sword arm and felt the shock of the answer, the hilts of the swords ring together, and sparks flew from the crash, and it seemed that the smoke rose from them and blinded her. The other rider’s hot breath was in her face. His lips parted and she saw his tongue: it was scarlet, and looked more like fire than living flesh.21
The Blue Sword
Avendo letto un buon numero di queste storie fantasy scritte da contemporanei, fui impressionato nel constatare quanti autori di libri per adulti siano soliti descrivere i loro protagonisti come bambini e, all’inverso, quanti scrittori votati al pubblico dei più giovani abbiano creato per essi personaggi perfettamente maturi e sensibili, capaci di pensare e agire in modo ponderato e riflessivo. Mi sono così sorpreso a pensare a quanto sarebbe opportuno che artisti del calibro di McKinley si dedicassero un po’ di più a un pubblico adulto. Ma forse la ragione per cui non lo fanno sta nel fatto che, quando scrivono per lettori adolescenti, si sentono in grado di manifestare maggiore rispetto per il loro pubblico.
Ma ha fatto la sua comparsa anche un’altra varietà di novelle, un po’ della serie “Winnie Puh colpisce ancora”. Si tratta del genere cui ha dato nuovo lustro Richard Adams, costituito da racconti in cui i protagonisti umani vengono sostituiti da animali e contenente tutta una familiare gamma di sfumature tipicamente ascrivibili al ceto medioborghese tory e anglicano (sono libri che sembrano sempre serbare una pronuncia lievemente blesa): un tipo di letteratura certo già più corrotto rispetto a quello reso celebre da Tolkien. Adams è uno scrittore peggiore, ma deve esercitare un fascino enorme su tutta quella pletora di lettori che non ha mai perduto del tutto il gusto del brivido provato leggendo di quando Peter Rabbit fu scacciato dal giardino di Mr. Macgregor:
As Dandelion ended, Acorn, who was on the windward side of the little group, suddenly started and sat back, with ears up and nostrils twitching. The strange, rank smell was stronger than ever and after a few moments they all heard a heavy movement close by. Suddenly, on the other side of the path, the fern parted and there looked out a long, dog-like head, striped black and white. It was pointed downward, the jaws grinning, the muzzle close to the ground. Behind, they could just discern great, powerful paws and a shaggy black body. The eyes were peering at them, full of savage cunning. The head moved slowly, taking in the dusky lengths of the wood ride in both directions, and then fixed them once more with its fierce, terrible stare. The jaws opened wider and they could see the teeth, glimmering white as the stripes along the head. For long moments it gazed and the rabbits remained motionless, staring back without a sound. Then Bigwig, who was nearest to the path, turned and slipped back among the others.
“A lendri,” he muttered as he passed through them. “It may be dangerous and it may not, but I’m taking no chances with it. Let’s get away.” 22
Watership Down [tr. it. La collina dei conigli], 1972
Adams diede al suo primo romanzo un seguito, intitolato Shardik (1974), scritto meglio e apparentemente destinato a un pubblico di adulti, ma infantile quanto il precedente. In esso si narra la vicenda di un grosso orso che muore per i nostri peccati: Passione e morte di Puh, insomma. Più recentemente, in The Plague Dogs (1977), lo scrittore ha dato definitivamente la stura a una misantropia conservatrice quasi paranoica.
A volte mi pare che, contestualmente al fatto che una Gran Bretagna in piena decadenza cova i suoi sogni di un passato più dolce e nutre poche speranze in un futuro migliore, le sue classi medie cerchino sempre più spesso scampo in vagheggiamenti a base di vita rurale idealizzata e animali parlanti, trovando il loro unico rifugio all’ombra dei boschetti riprodotti sulla carta da parati della nursery room. Vecchi fricchettoni, massaie, impiegati statali, tutti sembrano partecipare del medesimo stato di trance, immersi in una sorta di malinconia stuporosa: e tutto questo pur senza mangiare nessun venefico o esotico loto, ma limitandosi piuttosto a ruminare una qualità di cavolo britannico dagli effetti leggermente narcotici. Se potessimo affermare che la maggior parte della produzione di sf americana ci sembra scritta da robot per altri robot (e parlare soltanto di robot), potremmo anche dire che la maggior parte del fantasy britannico pare scritto da conigli per altri conigli (e parlare solo di conigli).
Ma fino a quando si continuerà ad andare avanti di questo passo?
Tra gli scrittori per l’infanzia, soltanto Lewis e Adams sono, a mio parere, da considerare i seminatori autenticamente responsabili di tale intempestiva – e profondamente corrotta – messe tardoromantica, integralmente sostanziata di quegli inviti sentimentalizzati a moderare le proprie aspirazioni che sono alla base del loro genere di conservatorismo. Nel caso di Lewis, poi, l’atteggiamento consolatorio e calmante – “Perché affaticarsi tanto su Mozart quando è più facile eseguire Rodgers e Hammerstein?” – si estende anche alla sua produzione saggistica, e specialmente al suo tremendo, ancorché tuttora assai reputato, Experiment in Criticism. Ma queste sono, tutto sommato, figure minori. È Tolkien a essere ancora oggi più diffusamente letto e adorato. Ed è stato Tolkien a essersi reso più di chiunque altro reo di tradimento nei confronti della disciplina romantica, anche più di quanto potrebbe essere considerato colpevole lo stesso Tennyson degli Idilli del Re, che godettero di analoga celebrità nell’Inghilterra vittoriana.
Il romanticismo corrotto può essere pernicioso almeno quanto, diciamo, il realismo corrotto di Ayn Rand. È più facile cogliere l’ironia un po’ ovvia di Cabell che il meno ovvio sentimentalismo di Tolkien, soprattutto perché Cabell scrive in modo più spiritoso, ed è più originale e più disciplinato. Per quel che riguarda William Morris, lo trovo uno scrittore naïf e puerile, ma sostanzialmente di buon cuore (oltreché migliore utopista che “fantasista”); così come trovo Dunsany inconsistente ma inoffensivo. Lewis si atteggia a difensore dello status quo della media borghesia, così come fa, anche se con modi più scaltri, Charles Williams. Lewis mette a profitto la materia fantasy per imbastire sermoni nauseanti, d’una perfidia almeno pari a quella di qualunque cosa si possa trovare di analogo in tanta consimile produzione sentimentale vittoriana; inoltre, scrive malamente. Un gruppo di amici usi a scambiarsi vicendevoli complimenti per qualsiasi bazzecola è sovente una garanzia del fatto che qualunque opera letteraria venga prodotta in tale contesto non potrà che risultare un rozzo e trascurato brogliaccio.
Idealmente, la fiction dovrebbe offrirci una via di fuga e, come minimo, sollecitare in noi degli interrogativi; dovrebbe essere utile non solo ad alleviare le nostre ansie, ma anche a fornirci qualche informazione sulle cause delle medesime. Lin Carter, in Imaginary Worlds – l’unico libro che sia stato in grado di reperire sul generico tema dello epic fantasy23 – adopera un argomento familiare a quanti sono abituati a leggere apologie imbastite da certi appassionati di sf o di thriller che si sentono in dovere di giustificare in termini analoghi la propria ipocrisia: “L’accusa implicita nell’espressione ‘lettura d’evasione,’”, scrive Carter, “viene rivolta nella maggior parte dei casi al fantasy e alla fantascienza da chi dimentica o trascura di prendere in considerazione il semplice fatto che, in pratica, ogni genere di diporto basato su attività che chiamino in causa il sentimento e l’intelletto – tutta la musica e la poesia e l’arte e il teatro e la filosofia, se è per questo – costituisce una temporanea evasione da ciò che ordinariamente abbiamo intorno.” Come tanti altri suoi colleghi professionisti nel mondo della sf, Carter manifesta apertamente il suo disprezzo proprio per quel tipo di fiction che non sia soprattutto letteratura d’evasione accusandola di essere “demoralizzante” o “deludente” qualora non provveda il genere di conforto morale e psicologico di cui sembra aver bisogno. Una visione non ortodossa, come quella espressa da un contemporaneo di Tolkien, David Lindsay (in Voyage to Arcturus), è considerata una visione deludente. Questa, com’è naturale, è la reazione di quanti aderiscono così profondamente – benché spesso inconsciamente – ai loro pregiudizi culturali, da considerarne ogni critica eventuale come un attacco.
Carter liquida Spenser rinfacciandogli la sua “monotonia” e bolla Joyce definendolo “una barba colossale”, e così – a furia di banalità ed eufemismi rabberciati alla meglio mercè l’uso di una sintassi miseramente sformata – seguita imperterrito ad ammannirci le sue rivelazioni, confidandoci ad esempio che i Preraffaelliti non erano che “una conventicola di damerini dalla erre moscia” e che il giovane Ford Madox Brown (1821-93) venne guadagnato alla causa del movimento dal Morris (1834-96) grazie al fascino che il suo fervido dinamismo di gallese purosangue (Morris nacque infatti a Walthamstow, nei pressi di Londra) riuscì a esercitare su di lui; ancora, che poichè Tolkien fu insignito di un CBE24 (che però non è un cavalierato vero e proprio) dovremmo chiamarlo rispettosamente “Sir John” – ma, almeno, Carter non affetta lo snobismo di cui danno prova alcuni appassionati d’Oltreoceano (e nessun soggetto è più risibile del tipico snob letterario americano, sempre così provinciale – impersonato nella sua quintessenziale purezza da Gore Vidal). In The Fantastic Imagination, un’antologia recentemente edita da Robert H. Boyer e Kenneth J. Zahorski, leggiamo che “Al di là dell’elevato tasso di fantasia che le caratterizza, le storie qui selezionate sono anche documenti di buona letteratura”. Tra gli autori ivi rappresentati figurano C. S. Lewis, John Buchan, Frank R. Stockton e Lloyd Alexander, nessuno dei quali potrebbe ambire al talento letterario di Fritz Leiber, la cui opera narrativa ha trovato spazio principalmente su riviste commerciali e all’interno di collane di genere. Per anni i pretenziosi santoni americani del thriller continuarono a ignorare Hammett e Chandler, preferendo loro mediocri scrittori inglesi del calibro di D. L. Sayers; ebbene, ecco qui verificarsi la stessa cosa nell’ambito del fantasy americano. Gli scrittori capaci di mimare con maggiore verosimiglianza uno stile di scrittura “all’inglese” sono lodatissimi, mentre i narratori che mettono a frutto più vigorosi modelli americani sono considerati meno letterari! Il punto cruciale rimane sempre il medesimo: uno scrittore, per essere ammirato, deve ostentare “letterarietà” o essere un “letterato”, e non potrà mai essere annoverato tra gli eletti a meno di non lusingare la sensibilità di un pubblico middle-brow e rafforzare così il sentimentalismo medioborghese, evitando in questo modo di mettere in discussione tutta una serie di assunti sociali e intellettuali puntigliosamente osservati.
E tuttavia Tennyson, che pure ebbe il suo momento di gloria, riuscì a ispirare poeti migliori di lui, i quali ne seguirono l’esempio e, messisi alla ricerca delle sue fonti d’ispirazione, le riscoprirono e ne fecero un uso più nobile. Sia Swinburne sia Morris furono in grado, ad esempio, d’impiegare i vecchi metri delle ballate medievali in modo più efficace di quanto non facesse Tennyson stesso, rifiutandosi, a differenza di lui, di mitigarne l’asprezza. Senza dubbio anche Tolkien riuscirà a ispirare autori che da lui trarranno la materia prima per consacrarla a scopi artisticamente più nobili. Mi piacerebbe credere che i giorni del romance rurale siano ormai definitivamente passati.

J.R.R.Tolkien
Il genere commerciale originatosi da Tolkien rappresenta probabilmente il fenomeno più sconcertante. Sono cresciuto in un mondo in cui Joyce era pacificamente considerato il campione della letteratura anglofona del XX° secolo. Mi capita talora di credere che Faulkner sia anche migliore di lui, mentre altri potrebbero invece preferire Conrad, tanto per dire. Thomas Mann è un gigante, un esempio assoluto per la dimensione morale e mitica della sua opera narrativa. Ma versare il fantasy tolkieniano nell’ambito di una discussione siffatta la dice tristemente lunga sui nostri standard e le nostre ambizioni culturali. È forse un segno dei nostri tempi più stupidi il fatto che Il signore degli anelli potrebbe sostituire lo Ulysses quale testo esemplare del Novecento? Alcuni dei più pedestri imitatori di Tolkien sembrano adoperare l’inglese come una seconda lingua, e appresa per giunta piuttosto maldestramente. Tra questi, moltissimi scrivono in un modo incredibilmente sciatto, al punto di sfidare qualsiasi possibilità di puntuali rilievi critici, e per i medesimi motivi non paiono neppure particolarmente degni di menzione individuale. Terry Pratchett osservò una volta che tutti i suoi lettori parevano chiamarsi Kevin. Ma lui, almeno, è doppiamente fortunato, nel senso che nel regno del fantasy sembra essere l’unico Terry in grado di scrivere decentemente una frase coordinata per ipotassi. D’altra parte, che scrittori siffatti risultino inoltre avvezzi a riciclare le trame dei loro modelli letterari e vengano gratificati dal pubblico dei lettori per aver perpetrato questo genere di blande ripetizioni non deve sorprendere, in un mondo di film fatti soltanto di effetti speciali e di pop band prodotte in serie. E non ci si può neanche meravigliare che i compensi percepiti da questa gente possano assicurare loro lo stile di vita sfacciatamente sontuoso delle puttane d’alto bordo. Pretendere però che lo stufato di cavoli al quale ci si è assuefatti rappresenti qualcosa di più che la peggiore specie di pulp fiction a sfondo storico o western è, in ogni caso, un segno del nostro deprimente declino intellettuale – oltre che di una critica accademica giunta ormai al tracollo.
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1 E dunque in linea con le più precoci e severe censure già inflitte all’opera tolkieniana da parte di certa critica paludata d’impostazione marxiana: è appena il caso di rammentare in proposito Edmund Wilson, Oo, Those Awful Orcs! (recensione a J.R.R. Tolkien, The Fellowship of the Ring, apparsa su “The Nation,” 14 aprile 1956), che Moorcock rivisita e amplia.
2 Cfr. in proposito un recente articolo sul “New Statesman”: http://www.newstatesman.com/culture/2015/07/michael-moorcock-i-think-tolkien-was-crypto-fascist (URL consultato in data 26.06.2017). Non possiamo tuttavia esimerci dal rilevare come una replica interessante a Moorcock venisse già offerta da Thomas A. Shippey in un articolo pubblicato in “Lembas – Journal of the Dutch Tolkien Society – Extra”, 1993-1994 (pp. 27-44), quindi nel volume dello stesso Th. A. Shippey, Roots and Branches: Selected Papers on Tolkien, Walking Tree Publishers, Zollikofen (Switzerland) 2007, ora tradotto con il titolo Noblesse Oblige: immagini di classe in Tolkien e inserito in Appendice al fondamentale saggio di Wu Ming 4, Difendere la Terra di Mezzo, Odoya, Bologna 2013 (alla cui ultima edizione senz’altro si rinvia, anche per il rigore con cui l’autore italiano colloca storicamente Tolkien, fuori da ogni lottizzazione, sulla base di una mole di documenti).
3 È però opportuno rilevare come, almeno incidentalmente, il Nostro sfiori a più riprese il nocciolo di problemi di ben maggiore portata: in particolare alludendo agli inconvenienti che deriverebbero dal rivestire forzosamente un epos fantastico della composita livrea della tragicomoedia cristiana. Senza entrare nel merito di un tema vastissimo e limitandoci a Moorcock, la tesi “forte” – e, ancora una volta, provocatoriamente plateale nel suo fare piazza pulita di ogni distinzione tra lowbrow/puerile e highbrow/adulto – che parrebbe lecito individuare sottotraccia sarebbe dunque: Narnia e (ancor più) The Lord of the Rings come le varie “messiadi”, da Vida a Milton a Klopstock, per non risalire a testi e scritture del germanesimo arcaico certo meglio noti ai due don oxoniensi? Ce ne viene il sospetto.
4 Benché la vera e propria ricognizione diacronica sul “genere Epic Fantasy, considerato a partire dalle sue remote origini poetiche” – ravvisate (anche) da Moorcock nel milieu del romanzo cavalleresco – si riduca, in pratica, a non più di qualche suggestiva menzione di autori prenovecenteschi.
5 Cfr. M. Moorcock, Wizardry and Wild Romance: A study of epic fantasy, Victor Gollancz, London 1989, pp. 121-139 (Cap. V: Epic Pooh).
6 La versione digitale del testo riveduto e stabilito dall’Autore su cui è stata condotta la presente traduzione è tuttora disponibile online al seguente indirizzo: http://www.revolutionsf.com/article.php?id=953 .
7 [Un giorno, quando già il sole s’era levato nuovamente sul bosco recando con sé il profumo di maggio, e tutti i ruscelletti del bosco ciangottavano allegri per la gioia di riscoprirsi di nuovo in forma smagliante, e i suoi laghetti sognavano placidi la vita che avevano visto e le grandi cose che un tempo avevano fatto, e nella tiepida quiete del bosco il cuculo intonava con cautela la sua cavatina, tendendo l’orecchio per sentire se l’effetto era di suo gusto, e i colombi selvatici si rimbrottavano dolcemente fra loro, mentre con la solita soave indolenza l’uno incolpava l’altro di qualche piccolo torto sul quale comunque entrambi erano disposti a chiudere un occhio; fu in un giorno come questo che Christopher Robin si mise a fischiare in quel suo modo speciale, noto a lui solo, e Gufo svolazzò fuori dal Bosco dei Cento Acri per venire a vedere di che cosa mai ci fosse bisogno.]
8 Il Simarillion (1977) è, ovviamente, la testimonianza più schietta di tale tendenza (N.d.A.).
9 [Una certa sera d’estate, l’eco di una notizia sorprendente giunse sino alla locanda Al Cespuglio d’Edera e Drago Verde. Le voci che sussurravano di giganti e altre portentose apparizioni alle frontiere della Contea cessarono subito al cospetto di problemi di assai maggior momento, ché il Signor Frodo aveva posto in vendita la sua proprietà di Fondo Scarsella; anzi, l’aveva già alienata – nientepopodimeno che ai Sackville-Baggins!
“E per un bel gruzzolo, per di più,” disse qualcuno. “Macché: a un prezzo d’occasione,” disse qualcun altro, “e questo è molto più verosimile, se si tien conto che è stata Monna Lobelia a comprarlo.” (Otone era morto già qualche anno addietro, alla veneranda, quantunque ancor gagliarda età di centodue primavere.)
Tuttavia, più che il prezzo dell’immobile, a eccitare ulteriormente le congetture era proprio il motivo per cui il Signor Frodo aveva deciso di disfarsi del suo confortevole buco… ]
10 [Pipino stava nuovamente ciondolando il capo per il sonno e prestava poca attenzione a Gandalf, che gli parlava dei costumi di Gondor, e di come il Sire della Città disponesse di lanterne di segnalazione erette al sommo dei colli circostanti, su entrambi i confini e lungo l’intera grande catena montuosa, e vi mantenesse stazioni di posta presso le quali cavalcature fresche venivano sempre tenute a disposizione dei suoi messi, che si dirigessero a Nord alla volta di Rohan o che galoppassero a Sud verso Belfalas. “Ne è passato di tempo, da quando le lanterne del Nord furono accese l’ultima volta,” diceva lo stregone; “e nei giorni più remoti di Gondor non ve n’era neppure bisogno, perché a quel tempo essi avevano le Sette Pietre.”
Pipino si riscosse, inquieto.]
11 [D’estate, quando verdeggiano / Di folte chiome le selve, / Che gran gioia qui nella foresta / Udire le alate canzoni, / Scorgere i cervi scendere a valle / E lasciare deserte le alture, / E godere di verde penombra / In seno al bosco frondoso.]
12 [La vecchia Mombi credeva di essere stata molto furba quando aveva fatto la sua scelta e si era trasformata in un grifone, perché ora aveva membra estremamente agili ed era assai più forte degli altri animali. Tuttavia la strega non aveva tenuto conto dell’instancabile energia del Cavalletto, le cui gambe di legno gli consentivano di trottare per giorni e giorni senza mai rallentare la sua andatura. Pertanto, dopo un’ora di galoppo a rotta di collo, il grifone cominciò a sentirsi sfiatato, e ansimava e sbuffava da far pietà, e ancora sgambettava, sì, ma era assai più lento di prima. Finalmente raggiunse i margini del deserto e prese a correre tra le alte dune. Però le sue zampe ormai fiacche adesso affondavano profondamente nella sabbia, e il grifone in pochi minuti cadde lungo disteso, del tutto esausto, rimanendo così a giacere nel cuore di quell’arido deserto.
Glinda sopraggiunse poco dopo, in groppa al tuttora vigoroso Cavalletto. L’incantatrice, sfilatosi un esile nastro d’oro dalla cintura, lo lanciò sul capo del grifone ansante e indifeso, annientando così il sortilegio che aveva permesso a Mombi di assumere quella forma.
Infatti l’animale, con un violento fremito, svanì d’un subito alla vista, mentre al suo posto compariva la figura della vecchia strega, intenta a fissare lo sguardo feroce sul volto sereno della bella incantatrice.]
13 [Elfrida sparò le sue cartucce, e già un momento dopo era chiaro che i suoi versi risultavano essere più efficaci di quelli di Edred; inoltre, che qualche piccolo sproposito grammaticale non poteva fare né caldo né freddo a un nobile Talponarius.
Così i muri della cameretta di Edred si allontanarono di più in più da loro, finché i bambini si ritrovarono al centro di un immenso salone bianco, con viali di alti pilastri che si allungavano a perdita d’occhio in ogni direzione. La sala era affollata di persone agghindate in costumi di tutti i paesi e di tutte le epoche – c’erano cinesi, indiani, crociati in cotta di maglia, gentildonne incipriate, gentiluomini in farsetto, cavalieri imparruccati, turchi inturbantati, arabi, monaci, badesse, giullari, aristocratici in gorgiera merlettata e selvaggi in gonnellino di paglia. C’erano tutti i generi di abbigliamento che potreste immaginare. Solo che ogni abito era bianco. Pareva di trovarsi nel bel mezzo di una redoute, che è un ballo in maschera al quale gli invitati partecipano indossando i costumi che preferiscono, purché tutti siano del medesimo colore.
Il flusso della folla che li circondava sospinse pian piano in avanti i bambini; i quali non tardarono ad accorgersi che al centro della sala si levava un trono argenteo, ricoperto da un drappo frangiato a scacchi d’argento e di verde; ed ecco, assiso in sovrana maestà su di esso, guardato a un fianco dal Talponarius impettito e all’altro fianco dal Talponarior, l’augusto Talponarissimus. Era assai più grande delle altre talpe, e la sua pelliccia era candida quanto la livrea piumata di un cigno.]
14 [Era quasi mezzogiorno quando si trovarono a guardare giù da un ripido pendio, scorgendo in lontananza un castello – un castello che parve loro, data la distanza che ancora li separava da esso, non più grande di un giocattolo, tutto guglie e torri aguzze. Ma il Leone stava piombando giù a una velocità tale che la mole del maniero cresceva ad ogni momento dinanzi a essi e, prima ancora di avere il tempo di domandarsi che cosa fosse, erano già alle sue porte. Adesso però il castello, che ormai li sovrastava minaccioso in tutta la sua altezza, non sembrava più un giocattolo. Nessun volto guardò giù dai bastioni, ma le porte furono sbarrate in tutta fretta. Aslan, tuttavia, senza rallentare affatto la sua corsa, si precipitò dritto come un proiettile verso la rocca.
“La dimora della strega!”, ruggì. “Ora, bambine mie, tenetevi forte!”
Un attimo dopo il mondo intero parve capovolgersi a testa in giù, e le bimbe avvertirono la sensazione di aver lasciato le proprie viscere dietro di sé; perché il Leone, rannicchiatosi su se stesso per accingersi a compiere il salto più alto che avesse mai tentato, infine saltò – o meglio, potreste anche dire che spiccò il volo, più che il salto – proprio al di sopra delle mura del castello. Le due ragazzine, senza fiato ma illese, si ritrovarono a rotolargli giù dalla groppa in mezzo a un’ampia corte pavimentata di lastre di pietra e gremita di statue.]
15 [Tuttavia, non appena la testa gli si schiarì, Colin udì un altro suono, così bello da riuscirgli poi difficile prendere di nuovo sonno; il suono di un corno, come lume di luna sulla neve; e un altro simile, in risposta al primo, si fece udire dai confini del cielo; e l’intero Brollachan fu corso da folgori argentee, ed egli udì zoccoli scalpitare, e voci chiamare dicendo “Al galoppo! Al galoppo!”. Ed era una nube tutta d’argento, sicché non vi poteva fissare lo sguardo.
Gli scalpitii di zoccoli si avvicinavano sempre di più, e ne rintronava la terra. Colin aprì gli occhi. Ora la nube rotolava sul suolo, frangendosi in splendori gemelli che raccoglievano e filavano dalle stelle matasse di luce; ed eran torme di cavalieri, e alla loro testa era maestà coronata di raggi, in guisa di sole.
Ma, proprio mentre attraversavano la valle, uno dei cavalieri cadde d’arcione, e Colin vide che si trattava di Susan. La ragazza perse così terreno e, per quanto non rallentasse affatto la corsa, la luce che la formava si estinse, e al suo posto apparve una figura più piccola, ma solida, che disperata ristette sullo sfondo della bianca scia della cavalcata.
La torma deI cavalieri s’inerpicò sul fianco della collina e poi su nell’aria, diffondendosi vasta nel cielo, e nove donne vennero loro incontro, le chiome tese come vento. E insieme si allontanarono galoppando nella notte, sopra le onde e al di là delle isole, e l’Antica Magia si dileguò per sempre, e la luna si rinnovò.]
16 La prima versione del presente articolo fu abbozzata intorno al 1970, dunque prima, tanto per dirne una, dell’avvento di Philip Pullman, autore di young adult fantasy di eccezionale caratura; spero dunque che i miei lettori mi perdoneranno per avere omesso di menzionare le tante opere stampate dopo la pubblicazione di questo saggio, riveduto integralmente per l’ultima volta nell’ormai lontanissimo 1977, e quindi basato in sostanza su ricordi di libri di fantasy letti nella mia più verde età (N.d.A.).
17 [Non si trovavano più nel luogo in cui erano stati poco prima. Erano da qualche altra parte, in un altro tempo, ritti sul tetto del mondo. Il vasto cielo notturno nereggiava tutto all’intorno, simile a un’enorme ciotola oscura capovolta sulle loro teste, e al suo interno ardevano le stelle, migliaia e migliaia di brillanti puntolini infuocati. Will udì Bran tirare un rapido sospiro. Ristettero, levando lo sguardo all’insù. Le stelle brillavano intorno a loro. Non un suono, da nessuna parte, in tutta l’immensità dello spazio che li circondava. Will si sentì cogliere da un’onda di vertigine; era come se si trovassero sul bordo estremo dell’universo e, se ne fossero caduti, sarebbero di sicuro precipitati a capofitto al di fuori del tempo… Mentre fissava lo sguardo su di lui, poco per volta cominciò ad accorgersi della strana inversione della realtà in cui erano immersi. E adesso lui e Bran non erano più in piedi, in una buia notte senza tempo, intenti a osservare le stelle nell’alto dei cieli. Era vero tutto il contrario. A essere osservati erano proprio loro. Ogni puntolino ardente in quell’immenso, insondabile emisfero di astri e di soli era focalizzato su di essi, contemplandoli, considerandoli, soppesandoli. Perché, seguitando nella ricerca dell’arpa d’oro, lui e Bran stavano sfidando il Grande Incantesimo dell’Universo in tutta la sua illimitata potenza. Sentivano di fronteggiarlo inermi, nel bel mezzo del cammino, che sarebbe stato concesso loro di proseguire solo se ne avessero avuto diritto per nascita. Sotto quell’inesorabile, infinito splendore siderale, chiunque avesse osato sfidare abusivamente il proprio destino sarebbe stato spazzato via nel nulla senza il minimo sforzo, come si può spolverare via da una manica una formica.]
18 [Il giorno in cui il ragazzino compì tredici anni, un giorno nel primo splendore autunnale, quando ancora le foglie lucenti adornavano i rami degli alberi, Ogion rientrò al villaggio facendo ritorno dai suoi vagabondaggi al di là di Monte Gont, e il rito di Passaggio venne celebrato. La strega tolse al ragazzo il nome di Duny, quello che sua madre gli aveva imposto quando era ancora piccino. Così, senza nome e nudo, il fanciullo discese nelle fredde fonti dello Ar, tra le rocce da cui sgorga, sotto le alte rupi. Quando entrò nelle sue acque, nubi coprirono il volto del sole, e grandi ombre scorsero e s’intrecciarono sui flutti della polla in cui si era immerso. S’incamminò verso la riva opposta, rabbrividendo per il freddo ma continuando a incedere come doveva, lento e a testa alta, attraverso i gelidi flutti di quell’acqua viva. Quando il ragazzo giunse alla riva Ogion, che era lì ad attenderlo, allungò la destra verso di lui e, afferratolo per un braccio, gli sussurrò il suo vero nome: “Ged.”
In questo modo egli ottenne il suo nome, e da un uomo assai esperto nell’uso del potere.]
19 [Il Re Cornuto rimase immobile, la spada sospesa a mezz’aria. Un lampo guizzò scherzevole lungo la lama, e il gigante avvampò come un albero in fiamme. Le corna di cervo si mutarono in ramaglie cremisi, la maschera di teschio gli ruscellò sul volto come ferro fuso. Un ruggito di dolore e di rabbia proruppe dalla gola di re Antlered.
Con un grido, Taran levò un braccio a coprirsi il volto. Il suolo rimbombò e parve aprirsi sotto i suoi piedi. Poi tutto piombò nel nulla.]
20 [Quella levò le braccia, e la tenebra si avventò. Ma si trovava ancora distante, e io me ne stavo a Camlann. Alzai lo sguardo e vidi Lugh in piedi, rivolto a occidente, di fronte a Morgause, il braccio disteso sull’isola in modo che la regina non potesse toccarla. La luce sullo sfondo era troppo intensa, troppo radiosa per i miei occhi. Li scorsi per un attimo affrontarsi, l’uno dinanzi all’altra; poi la mia visuale si restrinse. E vidi l’isola, e immagini di schiere armate. Vidi la Famiglia, ed ero anch’io fra loro. Poi le schiere si misero in marcia, e il clamore della battaglia giunse fino a me. Mi rendevo conto di contemplare eventi che erano ancora di là da venire, e il terrore era su di me. Così mi coprii il viso con le mani e gridai: “Basta!”
E improvvisamente fu il silenzio.]
21 [La potenza che si riversò su quel volto, che rifluì lungo le braccia giù giù fino alla punta della spada e all’umbone dello scudo, era d’origine demoniaca, e Harry sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta contro di essa; così, nonostante il calore che Gonturan le infondeva mentre la brandiva, la paura le stringeva il cuore in una fredda morsa. Entrambi i destrieri arretrarono per poi slanciarsi nuovamente l’uno contro l’altro, straziandosi vicendevolmente a morsi; il collo dello stallone bianco era adesso screziato di sangue, cremisi come i nastri che gli ornavano la criniera. Harry avventò un fendente e all’istante avvertì la violenta risposta del suo avversario, mentre le lame, un’elsa contro l’altra, cantavano all’unisono facendo sprizzare scintille al contatto: un nugolo di fumo parve sprigionarsi dalle due spade, e la ragazza ne fu momentaneamente accecata. Sentì sul proprio volto l’ansito caldo dell’altro cavaliere. Le labbra gli si schiusero, e ne scorse la lingua: era scarlatta, e sembrava più simile a vampa di fuoco che a carne d’uomo vivo.]
22 [Non appena Dente di Leone ebbe terminato, ecco che Ghianda – che dell’intero gruppetto era quello che si trovava sul lato più sottovento – si rizzò a sedere di colpo, orecchie ritte e nari frementi. Quello strano, acre sentore era adesso più forte che mai e, pochi istanti dopo, tutti sentirono che qualcosa di grosso e pesante si muoveva nelle vicinanze. All’improvviso, sul lato opposto del sentiero, le cortine di felci si aprirono e ne sbucò fuori un lungo muso d’aspetto canino, a strisce bianche e nere. Era puntato al suolo, le fauci schiuse in un sogghigno, il grifo rasente al terreno. Alle sue terga potevano appena discernere zampe enormi, poderose, e una nera mole irsuta. Gli occhi li guatavano, pieni di selvaggia astuzia. La testa ondeggiò lenta, sogguardando da un lato all’altro il buio tratturo silvestre, quindi li fissò ancora una volta con quel suo sguardo feroce, terribile. Le fauci si aprirono più ampie, ed essi poterono scorgerne le zanne brillanti, candide al pari delle due bande di pelo che gli striavano il capo. Per lunghi istanti li guardò, e i conigli rimasero immobili, fissandolo a loro volta senza emettere un suono. Poi Parruccone, che era il più vicino al sentiero, si ritirò e sgusciò nuovamente in mezzo ai suoi.
“Un lendri,” sussurrò mentre passava tra i compagni. “Potrebbe essere pericoloso, o forse no, ma non è il caso di scommetterci. Svignamocela.”]
23 Mi appello ancora una volta alla tolleranza dei miei lettori. Ho scritto questo saggio negli anni ’70; da allora, com’è ovvio, sono stati pubblicati molti libri sull’argomento, tra cui parecchie monografie dedicate a singoli autori (N.d.A.).
24 [La sigla sintetica sta per “Commander of the Most Excellent Order of the British Empire”.]
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