Prego di poter vedere al più presto il giorno in cui daremo il benvenuto a un mondo in cui non dovremo uccidere nemici che non odiamo. Per raggiungere questo mi farei volentieri a pezzi innumerevoli volte.
Miyazawa Kenji, Il Corvo e l’Orsa Maggiore
Il tema principale dello studio accurato e partecipe di Emiko Ohnuki-Tierney, ricercatrice presso il dipartimento di Antropologia di un’università americana, è come possa un nazionalismo di Stato svilupparsi ed essere accettato da un popolo anche nelle sue forme più estreme, fino al punto di essere considerato normale.
È questo il caso della cosiddetta Restaurazione Meiji giapponese (1868-1912), una rivoluzione sociale inavvertita dall’Occidente ma radicale ed alle conseguenze gravissime, che – architettata e condotta con grande abilità dai leader politici dell’epoca – culminò, nella primavera del 1945, nell’operazione, per gli occidentali assolutamente incomprensibile, dei piloti tokkôtai, che noi conosciamo come kamikaze. Nel progetto disperato attuato dai governanti giapponesi, mentre il Paese era allo stremo delle forze e in alto loco già se ne conosceva l’inutilità, persero la vita oltre mille giovani, tra piloti appena usciti dalla scuola di volo e studenti giovanissimi di ogni estrazione sociale e di ogni orientamento di pensiero, che il governo fece laureare di corsa e, con pressioni psicologiche insostenibili, convinse a dare «volontariamente» la vita per l’imperatore e per la patria. Nessun ufficiale della marina e dell’aeronautica, nessuno! si offrì mai volontario per quelle missioni.
Partendo dai progressivi cambiamenti di significato del fiore di ciliegio (sakura), Ohnuki-Tierney affronta il rapporto complesso tra patriottismo individuale e nazionalismo di Stato, dimostrando che essi non furono frutto di una cultura isolazionista e xenofoba, ma plasmati dal convergere di forze culturali, sociali ed economiche locali e globali.
In Giappone, il fiore di ciliegio è da sempre il re dei fiori e ne simboleggia l’anima. La fioritura dura al massimo due settimane e può svanire in pochi minuti se piove o tira vento; in primavera avanza da sud a nord come un’ubriacatura estetica che si ripete fin da un’epoca ancestrale, simbolo e concreto legame con l’agricoltura del riso, che precede di poche settimane. In tempi antichi, la fioritura dei ciliegi simboleggiava il patto di reciproca fedeltà tra umani e divinità del riso, mediato dall’imperatore sciamano.
Legati alla fecondità femminile e all’amore tra uomo e donna, i fiori di ciliegio sono «rappresentazione da un lato del ciclo vita-morte-rinascita e dall’altro delle forze produttive e riproduttive […] la loro contemplazione dà modo ai vari ceti sociali della società giapponese di ritrovarsi e interagire», pur restando ognuno legato ai propri modi e spazi. I sakura sono però anche profondamente legati a forme di trasgressione socialmente accettabili e codificate come la pazzia, il travestimento, il travestitismo e la caricatura. La loro simbologia complessa accompagna tutta la storia giapponese, trasformandosi insieme alla cultura dell’élite, acquistando significati di impermanenza e caducità (la caduta dei bellissimi petali), attraverso l’epoca Heian e la perdita di importanza politica e militare (ma non religiosa e sociale) della figura dell’imperatore nel Giappone medievale e nel periodo dello shogunato.
Isolato per quasi duecento anni, il Giappone venne riaperto al mondo dall’arrivo del commodoro Perry (1853) e subito si convertì a un utilitarismo pragmatico e ai modelli di vita europei nel tentativo di raggiungere il livello economico e militare delle nazioni occidentali. I leader del Paese ne trasformarono radicalmente l’assetto politico con la promulgazione di una costituzione del Giappone imperiale (1889) e la «reinvenzione» della figura dell’imperatore come divinità che si fa regnante e incarna l’anima della società civile fino a scandirne il tempo (è l’imperatore che dà il nome alla propria epoca) invece di piegarsi al calendario occidentale. L’art. 1 della costituzione, scritta sul modello di quella prussiana, recita così:
L’imperatore appartiene per l’eternità a una e una sola stirpe (bansei ikkei) e governa il Giappone imperiale.
Avversato fieramente come inutile absurdum da tutti i consulenti tedeschi, l’articolo è in realtà chiarissima dichiarazione d’intenti e chiave di volta di tutto il progetto di restaurazione; fa infatti risalire la stirpe imperiale al leggendario imperatore Jinmu e alla dea del sole, accreditando in maniera definitiva la figura dell’imperatore/padre al quale tutto il popolo deve la fedeltà dovuta ai genitori, prima che ai genitori e fino al sacrificio della vita.
Ed è proprio questo novum – simboleggiato attraverso un’operazione mediatica di incredibile penetrazione ed efficacia dai fiori di ciliegio – il cambiamento epocale al quale si riferisce Ohnuki-Tierney: per tradizione patriottici e votati al proprio dovere, i giapponesi vengono «convinti» a spostare il proprio patriottismo dalla patria all’imperatore. Non più, dice l’autrice, pro patria mori, ma pro rege et patria mori.
Così il sakura, i cui petali fioriscono gloriosamente e cadono senza aver fruttificato, divenne il simbolo esteticamente ammaliante di una gioventù esaltata dal sacrificio. La trasformazione della concezione politica e religiosa dell’imperatore, favorita dall’entusiasmo patriottico per la vittoria nelle due guerre sino-giapponese (1894-95) e russo-giapponese (1904-905), preparò il terreno al peculiare «fascismo» giapponese degli anni Trenta e alla guerra a fianco della Germania nazista e dell’Italia fascista, dando i suoi ultimi frutti avvelenati con i kamikaze. Eppure la popolazione giapponese e moltissimi intellettuali non ne furono pienamente consapevoli, accecati dal patriottismo, dal senso del dovere e dalle «liaisons dangereuses tra la comunità intellettuale e artistica e l’ultranazionalismo».
Su questo sfondo si colloca il lavoro di ricostruzione del mondo culturale e affettivo degli studenti-piloti tokkôtai, crema dell’élite culturale del tempo, compiuto dall’autrice grazie agli scritti autobiografici di numerosi piloti; gli scritti quei giovani testimoniano un background di letture e riflessioni ad amplissimo spettro (l’elenco dei soli autori e pensatori occidentali letti dai cinque piloti scelti da Ohnuki-Tierney farebbe invidia a qualunque studente europeo attuale) e di un mondo interiore contraddittorio e sfaccettato, ben diverso dal semplicistico monolito di fedeltà e fanatismo che la maggior parte di noi può immaginare.
La Weltanschauung dei piloti tokkôtai era profondamente influenzata da queste diverse tradizioni intellettuali – i classici greci e romani, il cristianesimo, il marxismo, il Romanticismo, e le loro ibridazioni con la storia intellettuale cinese e giapponese.
Nata per difendere il Giappone dalla superiorità numerica e tecnologica degli Alleati, per forgiare piloti sacrificabili e in grado di portare aerei e siluri a ridosso delle unità nemiche senza essere eliminati dalla loro difesa, l’operazione tokkôtai fu quasi del tutto improduttiva: gli aerei e i siluri erano spesso difettosi a causa del crollo progressivo dell’industria bellica; i bersagli venivano mancati dagli aerei perché l’eccessivo peso delle bombe, poste anteriormente, rendevano impossibile virare una volta iniziata la picchiata; i siluri spesso si guastavano o non raggiungevano il bersaglio o affondavano con i piloti prima di raggiungerlo. La media delle navi colpite su 3300 aerei usati in totale fu dell’11,6 per cento, ma i piloti che non tornarono furono il 70,5 per cento di quelli partiti.
La morte inutile di questi ragazzi, la testimonianza delle ultime disperate ore di vita delle «aquile divine», il ricordo di un famoso storico giapponese che, giovanissimo, fu dei loro e solo grazie alla fine della guerra evitò l’ultimo volo, le dichiarazioni – strazianti – dei famigliari superstiti ancora inchiodati, dopo sessant’anni, al momento dell’annuncio della morte «gloriosa» del congiunto… Beh, certe letture non sono facili, ma sono esperienze da fare.
Leggendo ho provato un crescente coinvolgimento. Perché raccontava di giovani vittime di un’insostenibile pressione psicologica e di una ignobile e consapevole truffa culturale, ma anche dei loro sentimenti grandi, della volontà e della speranza di dar vita, con il loro sacrificio, a un mondo nuovo e migliore. Sentimenti e speranze proprie di quell’età, che tanti loro coetanei (me compresa, a suo tempo) hanno provato e poi – quasi sempre – barattato con un presente insoddisfacente e povero.
Certo, non va dimenticato che quella «militanza» giovanile, pur nelle limitate etichette usuali di destra e sinistra, libertà, imperialismo ecc., non è stata uguale per tutti. Però l’onestà, la disponibilità a riflettere, il desiderio di conoscere, attraverso la lettura e la scrittura, altri punti di vista e altre emozioni, ci rende simili e ci aiuta a comprendere. Così, ricordando le mie esperienze di un tempo e quella attuale di genitore, ho doppiamente compatito i piloti e i famigliari.
Vorrei chiudere la recensione con le parole finali del saggio di Ohnuki-Tierney, che soltanto chi vuol continuare a ballare sull’orlo di un vulcano può liquidare come retoriche e ovvie.
I diari dei piloti sono una testimonianza delle mostruose azioni commesse dall’imperialismo giapponese, che mandò a morte questi giovani pieni di sogni e di idealismo. Spero che questo libro serva non solo come requiem per i piloti e per le innumerevoli altre vittime, giapponesi e non giapponesi, di quella guerra, ma anche come memento per ricordarci che tragedie simili non devono ripetersi mai più.
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Emiko Ohnuki-Tierney, La vera storia dei kamikaze giapponesi, la militarizzazione dell’estetica nell’Impero del Sol Levante, Bruno Mondadori /Pearson 2004, 2009, pp. XII+382 , trad. C. Covito, E. Dal Pra
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