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    Interzona

    Dato il mortal sospiro

    • di Massimo Citi
    • Gennaio 18, 2012 a 7:41 pm

    di Piero Fabbri

    April is the cruellest month, breeding
    Lilacs out of the dead land, mixing
    Memory and desire, stirring
    Dull roots with spring rain

    Francesco Guccini

    Come al solito, dipende molto dall’età: però è indubbio che molti arrivino ad Eliot passando per Guccini. Dipende dall’età perché Francesco Guccini è molto meno ascoltato e idolatrato in questa seconda decade del secolo ventunesimo di quanto lo fosse tra la settima e la nona del secolo precedente, quando cantava pezzi come Eskimo o La Locomotiva: al giorno d’oggi, se sussiste ancora qualche speranza che i giovani italiani conoscano il significato della parola «locomotiva», lo stesso probabilmente non vale per «eskimo». Era questo un soprabito povero, quindi ineluttabilmente di sinistra, che veniva indossato spesso con la kefiah ed era dotato di cappuccio destinato agli usi più svariati (riparare la testa dal freddo e dalla pioggia era uno di quelli meno importanti): si contrapponeva in genere ai loden, accessoriati usualmente di sciarpetta di cashmere, che erano invece indossati con capitalistico orgoglio dalla gioventù di parte avversa. Ma stiamo già divagando.
    Certo è che a quei tempi, quando si schifavano gli inni manzoniani e le odi carducciane (attività che permane immutata e immutabile nel tempo, peraltro), i giovani cantavano appassionati le canzoni dei cantautori, e non solo quelle spudoratamente di protesta: andavano per la maggiore anche le canzoni d’amore (pur sempre la stragrande maggioranza della produzione canzonettistica italiana) e persino quelle, rarissime, che non appartenevano né all’una né all’altra categoria. Una di queste era appunto la Canzone dei Dodici Mesi di Guccini, che tutti gli adolescenti conoscevano; o, quanto meno, conoscevano la strofa dedicata al loro mese di nascita. Fu così che i nati in Aprile si ritrovarono pugnalati alle spalle dal loro aedo, perché il loro compleanno sembrava contenere qualcosa a metà tra un indovinello o un insulto:

    Con giorni lunghi al sonno dedicati il dolce Aprile viene
    quali segreti scoprì in te il poeta che ti chiamò crudele

    Pur facendo esercizio di indulgenza nei confronti del verso iniziale (certo che il gran cantautore bolognese/modenese/pavanese poteva anche tirar fuori qualcosa di meno trito della perifrasi del detto «Aprile dolce dormire»), l’adolescente medio degli anni Settanta si trovava tra capo e collo il compito ingrato di estrarre qualche briciola di significato dal secondo: «Come sarebbe a dire che Aprile è crudele? E che dire di Novembre, allora? E chi cavolo è questo poeta che si permette tali apprezzamenti? Sarà mica quel deficiente di D’Annunzio?». Si poteva certo continuare a far finta di niente (in fondo, gran parte delle canzoni famose, specie quelle del XXI secolo, hanno dei testi spesso poco comprensibili quando non semplicemente raccapriccianti, e questo non sembra influire granché sul loro successo di pubblico), ma certo una nutrita schiera di seguaci avrà svolto qualche indagine.

    Thomas Stearns Eliot

    Ma senza Wikipedia, anzi senza neppure l’ombra di Internet, ritrovare un poeta e una poesia a partire solo da un accenno in quegli anni era impresa di tutto rispetto. Adesso basta digitare «Aprile+crudele» nella finestrella di Google, e la curiosità si spegne in un amen, ma questa era ovviamente – se vista con gli occhi degli anni Settanta – pura fantascienza. Bisognava invece chiedere a professori, o aggirarsi per biblioteche, o addirittura scartabellare in libreria: tutte cose davvero poco edificanti per chi ha una reputazione adolescenziale e rivoluzionaria da difendere. In genere, comunque, per una via o per un’altra, tramite la rete del tempo (leggasi brutale chiacchiericcio e relativo passaparola) si riusciva infine a svelare il mistero, piombando, come anatre stanche nella quiete dello stagno, nel bel mezzo dei versi di Thomas Stearns Eliot:

     Aprile è il più crudele dei mesi, genera
    lillà dalla morta terra, mescola
    la memoria col desiderio, entusiasma
    le spente radici con pioggia di primavera

    E che farne adesso, di questi versi? Senza neanche il Trivial Pursuit in cui appalesare la conoscenza, bisognerà aspettare che qualche radio, libera o meno, inserisca la canzone nel palinsesto, sperare di ascoltarla (per caso) insieme agli amici, e finalmente (ancor più per caso) inoculare il quesito, mostrare la risposta, e finalmente pavoneggiarsi acuto e profondo. Eliot, mica balle. Eliot, altro che Carducci. Quel che non è previsto, quel che l’adolescente non può immaginare, è che la crudeltà d’Aprile tornerà poi, con impressionante regolarità, a ogni inizio di futura primavera. E tornerà in maniera diversa da Ei fu siccome immobile dato il mortal sospiro: non tanto per la ipotetica superiorità eliotiana sulla poetica manzoniana, quanto per il semplice fatto che la poesia è arrivata per vie proprie. E, certo, anche per l’incomparabile ardimento di sposare «cruel» con «April», che non è cosa da tutti: è infatti cosa da poeti.

    L’incidente gucciniano non basta, però. La poesia resta congelata nei banchi scolastici, talvolta anzi solo nei diari liceali, e soprattutto rimane più scritta che letta. Poesie d’amore mercanteggiate tra compagni di classe, dediche sperticate in rima baciata per rimorchiare la bionda del terzo banco, acrostici da baci Perugina in onore dell’amata (e della sua nuova, prorompente scollatura): ma questo dura fin quando si scoprono infine altri mezzi, più o meno diretti ma quasi sempre assai più efficaci, e la poesia se ne torna mogia mogia negli scaffali delle librerie. In pochi scaffali, per la verità, anche nel caso delle librerie più volenterose: ed è ben comprensibile, visto il mercato perennemente catatonico del genere. Certo, può sempre capitare di incrociare un verso fulminante, sottile e affilato come lama di katana, che si legge distrattamente da qualche parte ma rimane tenacemente incollato, per ragioni del tutto misteriose, a qualche renitente neurone della memoria:

    … ma se vengo catturata dall’alba,
    o se il tramonto mi guarda,
    io, unico canguro tra la bellezza,
    signore, se permette, ne soffro…


    In questo caso la colpa è tutta del canguro. L’alba e il tramonto, la solitudine piena solo di carta e penna, la bellezza e la sofferenza sono tutte immagini che rientrano fin troppo serenamente (e quindi quasi banalmente) nell’iconografia d’ogni poeta, specie se femmina e ottocentesca: ma, perdinci, il canguro? Quale colpo di genio deve aver attraversato la mente di Emily Dickinson, canguro al tramonto  per mettere sull’altro piatto della bilancia dell’estasi universale, mentre il primo conteneva gli spettacoli più spudorati e arcaici del mondo, sé stessa e un canguro? Rimane lì, l’immagine, e anche stavolta per andarla a cercare e inchiodarla per bene nell’archivio mentale e consapevole delle cose conosciute occorre faticare un po’. La virginea americana aveva scritto, ripiegato e cucito 1775 poesie, trovate dalla sorella solo dopo la sua morte: e trovare un canguro nel cartaio blindato con mezzi d’agoraio rischia di diventare cosa assai più complessa che pescare l’ago nel pagliaio. Specialmente se il canguro, alla fin fine, nei quasi milleottocento foglietti cuciti e ripiegati, non c’è.

    Il verso del canguro non è un verso. Non è poesia (e il trucco di scrivere il testo come fosse una quartina è quindi un meschino colpo basso ingannatore perpetrato dall’autore di queste righe), è solo prosa. In realtà si tratta di un estratto della lettera (beh, di una lettera vergognosamente famosa, comunque) che la Dickinson scrisse nel 1862 a Thomas Higginson, capo redattore della rivista The Atlantic Monthly. Neanche prosa, quindi, a ben vedere: solo una comunicazione privata, una dichiarazione diretta ed epistolare. Men che mai poesia, dal punto di vista di una che non temeva di scriverne a pacchi. Però il canguro disperso nella beltà rimane, e resta lì, non a rappresentare il brutto, perché i canguri non sono brutti; non a palesare l’umano, perché i canguri non sono umani; sta lì, ortogonale alla bellezza, direbbero i matematici, e rappresenta perfettamente questa sua disperata ortogonalità. Non è poesia, allora: del resto, non si fa poesia con i canguri.  Però resta questo, il verso della Dickinson più devastante.


    Un canguro spiazzato, al pari della ruota di bicicletta di Duchamp, risplende soprattutto per l’uscita dal contesto. Non è più questione di significato, di senso della parola; anzi, il contrario: nella costruzione del significato di una parola o di un oggetto contribuisce in maniera dominante proprio il contesto naturale; ed estratti dal contesto, la parola o l’oggetto perdono d’identità, e quindi perdono di significato, e allora possono (o forse addirittura devono) diventare altro. Diventare poesia, nel caso della parola; diventare opera d’arte, nel caso dell’oggetto. È allora poesia qualsiasi parola, può essere arte qualsiasi oggetto? Beh, la ruota di bicicletta di Duchamp sta in un museo, non in una rimessa, e questo qualcosa vorrà ben dire. Non è certo più solo una ruota di bicicletta, ormai: e in fondo, nessuno ha mai  pensato sul serio che la Dickinson somigliasse davvero a un marsupiale in grado di fare lunghi salti grazie ai suoi poderosi arti posteriori.

    È curioso: l’Arte rifugge dalle generalizzazioni almeno quanto la Scienza ne è attratta, e per questo è davvero impossibile – se non semplicemente sbagliato – tentare di leggere con una sola chiave di lettura tutto l’universo dell’arte, specialmente quella contemporanea. Non sarà certo solo il gioco di vedere mettere fuori luogo una parola, a creare la poesia. Non di meno, la ricerca degli esempi artistici generati dalla «estrazione dal contesto» dà rapidamente buoni frutti. Andy Warhol estrae la zuppa Campbell dagli scaffali dei supermercati e la immobilizza su tela; estrae l’unicità di Marilyn riproducendola in serie e con colori impossibili, così come lo stesso Duchamp aveva già estratto il sorriso dalla Monna Lisa, arricchendolo con un paio di baffi di Salvador Dalì. E così di seguito, in una pletora quasi infinita di esempi: alla fin fine, estrarre qualcosa dal contesto equivale e generare sorpresa, e ecco allora le tele tagliate, i monumenti impacchettati, gli escrementi inscatolati. Fino allo spiazzamento finale e ingenuo, quello che porta il visitatore delle mostre di arte contemporanea (sempre prossimo allo stress) immortalato da centinaia di barzellette: «Potrò sedermi su questa sedia, oppure è una scultura in esposizione?».

    Il bello è che per uscire dal contesto basta pochissimo. Certo dipende dal fatto che il contesto stesso è talmente vasto, strutturato e mal definito che ci vuole pochissimo a smontarlo, se non integralmente, almeno quanto basta per mostrarne in tutta evidenza la caduta di coerenza. Tanto per dire:

    Il fotone migliore della sua generazione
    Era stanco del gruppo, voleva distinzione
    Dai fermioni canzonato
    Si fece scoraggiato
    E gli sembrò un principio d’esclusione


    Questo è un limerick: cinque versi, di canonico schema AABBA, con il terzo e quarto brevi (due piedi, per dirla tecnicamente) rispetto agli altri (che di piedi ne contengono tre). Solitamente il primo verso contiene un riferimento geografico, ma non in questo caso. Il limerick è un giocattolo anglosassone, non ha velleità accademiche ma solo ricreative, è il regno del puro nonsense britannico, e inevitabilmente una grande parte dei limerick sono sconci: forse il paragone con le nostrane «osterie» è un po’ troppo ingeneroso, ma potrebbe rendere vagamente l’idea. Già solo l’utilizzo della struttura poetica a tali fini può considerarsi un’uscita dal contesto poetico ufficiale, ma nel nostro esempio il fatto che la struttura poetica sia quella del limerick è quasi un accidente. La rivoluzione sta nel contenuto: la poesia contiene abitualmente amore, emozioni, passioni; anche guerra (si pensi all’epica), avventure, narrazioni; raramente contiene scienza. La poesiola riportata poco sopra (scritta da Marco Fulvio Barozzi, noto in rete col nome d’arte di Popinga), invece attua proprio questo stravolgimento. Avete trovato spesso troppo elaborate, fumose, tecniche – per non dire arroganti, intellettualoidi, psicomasturbatorie – le critiche ad alcuni versi immortali? Beh, qui potete rifarvi, o peggiorare le cose. Scherzando scherzando, per recuperare appieno il significato dei cinque versi riprodotti, occorre conoscere le parole «fotone», «fermione», «principio di esclusione», ovvero tutte parole proprie della Meccanica Quantistica. È naturalmente opportuno anche porre la dovuta attenzione sull’ambivalenza dei termini «scoraggiato», visto che un fotone è spesso associato ai «raggi» nel comune interloquire, «gruppo» e «distinzione», un po’ per la matematica che sottosta a molta MQ, la Teoria dei Gruppi; un po’ perché i fotoni sono per definizione indistinguibili, e niente affatto sottoposti al Principio di Esclusione di Pauli. E naturalmente è indispensabile ricordare l’incipit dell’urlo (Howl) di Allen Ginsberg, se non volete perdervi i riferimenti a tutti i «migliori qualchecosa della loro generazione»:

    I saw the best minds of my generation destroyed by
    madness, starving hysterical naked

    Un sacco di scienza, per un solo limerick: roba che per spacciarlo in un’antologia ci vorrebbero un paio di pagine di note, e tutt’altro che poetiche, per sperare di far arrivare al lettore tutte le implicazioni.

    È poesia? Beh, come minimo rispetta la metrica, le rime, la struttura del componimento: quindi, almeno formalmente, è poesia. È arte? Questo è certo più difficile da dire, a meno che non si sia disposti ad accettare proprio l’idea dell’uscita dal contesto come viatico comune a tutte le forme artistiche: in ogni caso, l’idea di veicolare la scienza per mezzo di forme poetiche è, specialmente in questa nostra terra natia, se non proprio unica (esistono dei precedenti, ma troppo poco famosi), certo assai meritoria. È humour? Ah, su questo non ci sono dubbi: chiunque sia in grado di comprendere anche solo alcuni dei riferimenti scientifici nascosti nei componimenti scherzosi di Popinga si diverte molto. Certo, è un divertimento un po’ elitario e snob, ma non più dei dotti riferimenti filosofici e letterari che abbondano in quasi ogni componimento poetico.

    In ogni caso, l’uscita dal contesto più radicale è la rinuncia al significato. Le parole sono strumenti; rappresentano qualcosa, e chi le pronuncia, scrive, pensa, solitamente come tali le tratta, non come soggetti in sé. Zanzibar è prima un’isola e una città africana, e solo dopo, in seconda battuta, o meglio ancora solo dopo una precisa rinuncia semantica, può diventare una parola in sé, e  sentirsi libera di richiamare un bar pieno di zanzare. Un po’ quello che succede ai libri, che non a caso sono i contenitori principi delle parole: Guerra e Pace è un romanzo di Tolstoj, parla di russi e di battaglie contro Napoleone. Solo dopo un salto quantico mentale ritorna a essere un buon chilogrammo di carta e cartone, dotato di rilegatura, di forma grossomodo parallelepipedale, con un bel bordo da mostrare nei piani nobili della scrivania del salotto. In questa seconda natura, alcuni libri vivono tutta la loro esistenza: le colossali Treccani che arredano studi di professionisti, ventiquattro volumi da cinque chili l’uno, mai aperti. I libri delle esposizioni Ikea, tometti svedesi dal titolo impronunciabile, che arredano gli avatar di tinelli allineati come soldatini (sia i libri che i tinelli), in un corridoio popolato da acquirenti del weekend: e comunque va reso merito alla multinazionale svedese di proporre nella finzione dell’esposizione quantomeno dei libri veri (anche se magari tutti uguali, quindici copie della Guida ai Funghi Scandinavi ben ordinati a fianco del letto a castello destinato a ospitare due gemellini quattrenni di Perosa Canavese), mentre da che mondo è mondo, i mobilifici nostrani si limitavano a spacciare per libri dei graziosi tranci di polistirolo rivestiti da una finta copertina colorata.


    Forse a causa del suo vero mestiere, Toti Scialoja tendeva a vedere le parole più come oggetti a sé stanti che come veicoli di significato: o meglio, promuoveva il loro «corpo» fatto di sillabe e lettere a qualcosa di più che un mero accidente alfabetico, e lo riteneva importante almeno quanto il senso che le parole riportavano. A patto che il risultato fosse divertente, almeno per i piccoli lettori; e di solito lo era, e non solo per i piccoli:

    Il sogno segreto
    Dei corvi di Orvieto
    È mettere a morte
    I corvi di Orte

    Questa quartina – forse la più famosa di Scialoja – funziona essenzialmente sulla titillazione dei suoni «orv/ort». La rima baciata aiuta il ritmo da filastrocca, e per quanto riguarda il significato «vero» dei versi, beh… il bello è che diversi critici ritengono che ci sia addirittura un poco velato riferimento a due scuole poetiche che, al tempo della composizione, erano in polemica fra loro. Cosa possibilissima, certo: del resto, la letteratura si porta appresso molte volte dei significati (o forse è meglio dire vaticini) che l’autore manco si sognava, e se c’è qualcosa che in questo campo possa far ancor meglio della letteratura, questa è la poesia. Quello che viene da pensare a una prima lettura, però, non riguarda certo il senso delle parole, ma tutto il contrario: sembra piuttosto che ci sia solo voglia di giocare coi suoni, per riderci un po’ su. Come spiegare sennò cotanto inizio di ode a un topo?

    Era gruvi, gruvi era – il tuo cacio con i fori
    era brughi, brughi era – il tuo bosco con i fiori,
    era frutti, frutti era – la speranza del tuo viaggio,
    era preghi, preghi era – quel che avevi nello sguardo…

    Il punto essenziale, però, è il solito, con grande scorno degli studenti che rifuggono dalle aride lezioni delle aule scolastiche: anche per giocare occorre studiare. O almeno occorre conoscere Guccini. Altrimenti, come si fa a rimanere fulminati sulla via di Damasco, quando si intercetta il seguente capolavoro?

    La lepre ha il più crudele dei musi quando morde
    i leggeri lillà sulla radura brulla,
    strappa i fiori d’aprile, li ricaccia nel nulla,
    col labbro che strafà profumato di verde

    Eliot! Eccolo, è lui! Grazie solo a «crudele», parola uscita intatta dalla parodia, si riesce a capire lo stretto legame tra Aprile, il più crudele dei mesi e la lepre, dotata del più crudele dei musi. Altrimenti, i lillà non sarebbero bastati.

    È Arte? È poesia? E se sì, è davvero lecito scherzare con la poesia?

    E chi lo sa. Certo è che la poesia deve arrivare a tradimento, e colpire quando meno te lo aspetti, sennò non funziona mai per bene. L’Infinito di Leopardi è bellissima, ma è quasi un peccato che sia così accuratamente studiata, analizzata, vagliata: uno studente finisce per conoscerne prima la struttura e il significato che il suono, e non è detto che questo sia proprio ciò che Leopardi voleva. Del resto, altre volte lo sforzo di ricostruire il contesto e l’intento del poeta è necessario, indispensabile, per cercare di afferrare almeno in parte il senso del verso. Fate la prova: se non ci si trasferisce mentalmente nei giorni di fine Ottocento, nel bel mezzo delle campagne toscane lente e arcaiche; se non si indossa virtualmente un panciotto patronale e lo sguardo emesso da occhio consapevole e pietoso al lavoro dei contadini, come diavolo si fa anche solo ad immaginare un verso come T’amo, o pio bove?

    O si fa questo sforzo, o si rinuncia. O si fa come Toti Scialoja, che rivitalizza il tutto con un distico esemplare:

    T’amo, o pio bue.
    Anzi, ne amo due.  

    Thomas Stearns Eliot,  La terra desolata, Feltrinelli, 2003.
    (The Waste Land) a cura di A. Tonelli
    Collana “Universale Economica Classici”, pagine 184, euro 7,00


    Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, 2005.
    A cura di M. Bulgheroni
    Collana “I Meridiani Collezione”, pagine 2016, euro 12,90


    Marco Fulvio Barozzi (Popinga), Giovanni Keplero aveva un gatto nero, Scienza Express, 2011.
    Collana “Narrazioni”, pagine 132, euro 9,00


    Toti Scialoja, Versi del senso perso, Einaudi, 2009.
    Collana “Einaudi Tascabili”, pagine 303, euro 14,50

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