La sera che precedette l’11 settembre 2001, la RAI trasmise un documentario storico sui kamikaze. Strana coincidenza, che mi è tornata alla memoria leggendo questo bel libro di Arena, docente di Filosofie Orientali all’Università di Urbino. Già, perché viene spontaneo paragonare certi terroristi suicidi odierni ai kamikaze giapponesi. Eppure sono due figure completamente diverse, accomunate unicamente dalla scelta di compiere cosciente sacrificio della propria vita in nome di una causa più forte della stessa pulsione a sopravvivere. Il libro è la virtuale continuazione di un precedente saggio dedicato ai Samurai (Mondadori, ora riedito negli «Oscar»), di cui anche consiglio la lettura. Senza quasi mai annoiare, Arena traccia una storia di quei giovani (quasi tutti tra i 20 e i 25 anni) che scelsero di immolarsi tra l’autunno del 1944 e l’estate del 1945 per fermare l’avanzata delle truppe americane verso il Giappone. Lo fecero con gli aerei, ma anche con bombe volanti, minisommergibili, barchini carichi di esplosivo. I risultati delle loro missioni furono spesso deludenti, e certo non tali da giustificare il sacrificio di vite umane: la guerra non fu vinta, né la sconfitta fu ritardata. Sono tante le informazioni interessanti che si ricavano dalla lettura del libro. Innanzitutto i giapponesi non usarono mai il termine kamikaze per indicare le unità di attacco suicida, bensì il termine shimpu: entrambi i fonemi significano «vento divino», ma il primo deriverebbe da una lettura alternativa dei caratteri sino-giapponesi, forse introdotta dai militari nippoamericani che servirono nell’esercito degli Stati Uniti. E poi i kamikaze non furono tutti volontari: anzi, negli ultimi mesi del conflitto agli aviatori veniva semplicemente ordinato di compiere attacchi aerei senza ritorno (ci fu chi rifiutò, denunciando l’assoluta irrazionalità del gesto), e anche agli esordi la volontarietà dell’atto è da ritenersi opinabile. Per un militare nipponico educato al culto dell’onore, dell’imperatore-dio e della nazione, era spesso inconcepibile tirarsi indietro di fronte alla semplice domanda «Chi si offre volontario?». Ciò che rende così diversi i kamikaze di allora da quelli odierni è che i primi non trovavano una consolazione nella promessa di una vita ultraterrena: il loro era un atto laico (molti erano atei) che trovava una sorta di sacralizzazione nel convincimento che il loro gesto avrebbe fornito le fondamenta etiche su cui ricostruire la nazione dopo la conclusione del conflitto. Infatti molti di loro si suicidarono pur convinti che la guerra fosse ormai persa. Concetti difficili da capire per un occidentale, e l’autore non pretende di fornire una sola chiave interpretativa alla filosofia di vita (o di morte) dei kamikaze.
Dalla lettura del libro si ricava anzi che più fattori giocarono un ruolo nel condizionare la scelta estrema di quei giovani. Lo stile di vita del guerriero, il bushido, codificato in varie opere, tra cui il famoso Hagakure di Yamamoto Tsunemoto, che invita il samurai ad accettare la morte come un valore aggiunto della propria vita, poté essere fonte di ispirazione per quei giovani, ma non il motore primario. Un fattore importante fu l’educazione ricevuta, che inculcava in ogni individuo il convincimento di essere una piccola cellula del tessuto della madrepatria, un’insignificante particella che deve la sua esistenza alla benevolenza dell’imperatore. In molte lettere di kamikaze si coglie questo forte sentimento di debito verso l’imperatore-dio e la nazione, di fronte al quale passano in secondo piano anche i doveri verso la propria famiglia e verso se stessi. Un altro elemento propulsore fu il convincimento, sostenuto da una martellante propaganda, che gli americani, qualora avessero vinto, avrebbero resi schiavi i giapponesi, stuprato le loro donne e calpestato le loro tradizioni. Un convincimento, a mio avviso, reso più plausibile dal fatto che i giapponesi si erano comportati proprio in questo modo nei territori da loro conquistati, sottoponendo i prigionieri a terribili vessazioni e massacri, riempiendo i bordelli militari di donne cinesi e coreane, costringendo i civili a lavori forzati e perfino usandoli come cavie da laboratorio. Si consideravano una stirpe eletta: perché dei barbari avrebbero dovuto comportarsi meglio di loro? Al di là delle analisi, sempre inadeguate per capire atti così estremi, resta un senso non di ammirazione ma di pena per quei giovani, spesso studenti o laureati in discipline umanistiche (quelli con una cultura scientifica erano più utili da vivi alla patria) che componevano, prima di morire, brevi poesie, gli haiku, in cui paragonavano la propria vita a quella breve ma splendente dei fiori di ciliegio. Strana definizione per uomini chiamati, negli ultimi attimi della loro esistenza, a trasformarsi, come dei cyborg, in un ibrido uomo-macchina, prima di esplodere in nome di un uomo-dio algido e lontano.
Leonardo Vittorio Arena, Kamikaze. L’epopea dei guerrieri suicidi
Mondadori Oscar, pp. 324
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