Da questa parte di Broadway c’è una confusione di lingue cui lavorano le pronunce dell’americano in versioni da tutti i continenti, per strada si può ascoltare l’ispanico di Portorico o Cuba, il francese delle Indie Occidentali, il giapponese, il cinese, l’jiddish, il gergo dei clandestini e sempre di nuovo il tedesco come lo si poteva parlare trent’anni fa in Prussia Orientale, a Berlino, in Franconia, Sassonia. La bambina udì una matrona pettoruta […] catechizzare un ometto che le strisciava appresso sotto un cappello nero, e allora si fermò rapita […]
New York, 1967. La guerra in Vietnam è in pieno svolgimento. Siamo nella fase dell’escalation militare, ovvero del crescente coinvolgimento americano nel conflitto.
Gesine Cresspahl, rifugiata della Germania Orientale e la sua unica figlia adolescente, Marie, vivono a Broadway su Riverside Drive. Gesine, figlia di Lisbeth Papenbrock e di Heinrich Cresspahl, ha un buon lavoro ed è stimata. Marie, come molti suoi coetanei, è contraria alla guerra in Vietnam e, dopo aver passato gli anni della prima infanzia a rifiutarsi di parlare inglese, ora ha relegato la sua origine tedesca tra i ricordi di famiglia, in una dimensione esclusivamente privata.
I rapporti tra Gesine e Marie oscillano tra la competizione, l’insofferenza e la complicità. Il legame di Gesine con l’Europa e con il ricordo dei genitori non si è mai davvero interrotto. Lei fa parte della generazione intermedia, sfuggita al nazismo e alla guerra ma la cui infanzia ne è stata profondamente segnata. Gesine deve «rimettere le cose al loro posto», dare un senso alle esistenze dei genitori, al padre socialdemocratico, ritornato in Germania nel 1933 per stare accanto alla moglie, alla madre incapace di staccarsi dalla famiglia paterna, al loro amore così apparentemente tiepido e incerto.
Anche Gesine è contraria alla guerra in Vietnam, ma non partecipa a manifestazioni, non prende posizione pubblicamente.
Posso fare soltanto quello che poi sopporto di ritenere nella memoria […] È tutto quello che mi è rimasto: poter imparare. Almeno non vivere nell’ignoranza.
Gesine diffida di ciò che è pubblico e collettivo. Diffida di ideali e ideologie.
Io sono figlia di un padre che sapeva dello sterminio pianificato degli ebrei […] posso anche aver avuto dodici anni, io comunque appartengo a una nazione che ha massacrato un’altra nazione in una misura senza precedenti.
Gesine ogni giorno legge il «New York Times». Ha un rapporto di dipendenza con le notizie e la cronaca. Il quotidiano è il punto di contatto con la realtà del paese che la ospita, leggerlo, pur senza credervi ciecamente il suo precetto.
Nel rapporto che muta e si arricchisce con la figlia, Gesine è chiamata a ricostruire i percorsi perduti, i gesti e gli atti dei genitori.
Esplorare la vita del padre, Heinrich Cresspahl, che ha abbandonato un laboratorio ben avviato in Gran Bretagna per ritornare in Germania dove, giorno dopo giorno, si rafforza e cresce la dittatura nazista.
– È che non aveva più scelta, ormai. La bimba e la moglie poteva averle insieme soltanto rimanendo a Jerichow […] aveva paura di perderla […] Non voleva arrivare a vedere di cosa lei fosse capace!
Quella della madre e del padre di lei, un proprietario terriero nazionalista che ha visto con favore l’affermarsi del nazismo, salvo poi disapprovarne gli eccessi. E, infine, quella della piccola comunità di Jerichow, luogo immaginario in senso puramente geografico, ma che raccoglie in sé le caratteristiche della provincia della Germania settentrionale all’inizio degli anni trenta.
I giorni e gli anni. Dalla vita di Gesine Cresspahl, vol. 1 [Jahrestage], di Uwe Johnson1, Feltrinelli editore, trad. di Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini è il lungo racconto (quattro volumi nell’edizione originale tedesca) di vite annidate l’una dentro l’altra, le vite di Heinrich, di Lisbeth, di Gesine, di Marie e, dal secondo volume ancora inedito in Italia di Anita e di Jacob. Insieme anche la cronaca, condotta in parallelo, della vita quotidiana in uno sperduto paese della Germania e nella New York degli anni sessanta.
Le voci narranti, punto di vista e prima persona nel romanzo cambiano spesso di mano, passando dal narratore a Gesine, a Marie a Heinrich, al suocero Papenbrock e alla moglie Lisbeth. Il risultato è un romanzo corale nel senso più proprio e completo, un raccontare ampio, quasi vertiginoso nel tentativo di afferrare e riferire di vite e tempi separati nel tempo e nello spazio. A rendere più intensa, quasi fisica la prossimità, a rafforzare la sensazione di attualità, Uwe Johnson fa costantemente uso di descrizioni accurate ed evocative, focalizzando l’attenzione del lettore su particolari e oggetti che rivelano nuovi elementi della vita e del passato dei suoi personaggi.
Il solenne pennone proprio nel mezzo delle aiuole ha già avuto modo di issare le insegne del Kaiser in fuga. Più in là non ci sono edifici sulla strada. Prosegue per campi e prati su e giù verso ovest e non va da nessuna parte, più in là non c’è nessun villaggio. A questo punto si può vedere la maremma, più in direzione del Baltico. E qui, sulla sinistra, dietro le erbacce che furono un pratino, si trova una casa bassa di contadini, dominata da un tetto spiovente annerito. È questa, casa mia.
La stessa acutissima attenzione è dedicata alle parole e ai gesti anche minimi, staccandoli dallo sfondo.
E labbra sottili aveva [Brüshaver], prive di minaccia, come quelle di un bimbo. E c’era in lui qualcosa dello specialista, come muoveva le labbra mentre trascriveva il versetto scelto per il battesimo, come se degustasse qualcosa, come se ancora una volta avesse capito di più […]
Non è comune incontrare un romanzo tanto ambizioso, quasi dissennato nella sua generosità. «Uno dei più grandi libri del secolo», scrive nell’introduzione Michele Ranchetti, un giudizio impegnativo ma che credo di poter sottoscrivere. Uno dei grandi libri del secolo, ma anche un romanzo che crea nel lettore la sensazione di assolvere a una necessità profonda del suo autore.
Uwe Johnson, morto nel 1984 a soli cinquant’anni, aveva pubblicato altri tre romanzi prima di iniziare questo Jahrestage. Originario della Germania Orientale l’aveva abbandonata nel 1959, «dopo aver notificato per posta alle autorità della DDR “la restituzione di una cittadinanza”». Ma Johnson non è un autore facile da definire politicamente. Pubblicato nella Germania Occidentale viene accusato all’ovest di tentare una conciliazione tra il pensiero marxista e la democrazia occidentale e all’est di dare una rappresentazione «falsa e malevola» della Germania Orientale.
Ma Johnson è forse soltanto un osservatore, un uomo inseguito e braccato dall’ansia di ricostruire percorsi e i momenti della propria e delle altrui vite, nell’assurdo tentativo di ricostruire la Storia a partire dalle vicende individuali.
[…] nella sua biblioteca, ora trasferita in una fondazione a Francoforte, figuravano carte geografiche, atlanti, orari ferroviari, un’enorme quantità di ritagli di giornali locali, raccolte complete di periodici. […] tutto serve e tutto appartiene alla narrazione. (dall’introduzione di M. Ranchetti)
Davvero meritevole Feltrinelli per aver iniziato la pubblicazione del testo integrale di Jahrestage. Una scelta impegnativa e non facile, tanto più tenendo conto delle difficoltà insite nella traduzione dello stile personalissimo di Johnson.
Infine un’ultima nota, del tutto personale.
Ho letto Jahrestage nei primi mesi del 2003, in giorni segnati dalla possibilità imminente di una guerra che ben pochi vogliono e per motivi forse non così limpidi come vogliono apparire. Passavo dalla lettura dei giornali alla lettura delle pagine del romanzo, dove Johnson, attraverso il racconto di Gesine Cresspahl, riferisce delle piccole e grandi bugie ed omissioni del New York Times, narra di una guerra divenuta evento quotidiano, riferisce dichiarazioni imbevute di retorica bellicista, piccole e grandi menzogne, propaganda. Impossibile non rabbrividire constatando quanto gravi e feroci errori possano essere ripetuti e ripetuti e ripetuti fino alla distruzione delle coscienze.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.