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    TerraNova · In primo piano

    Veronica Carlson e le Ombre Lunghe

    • di Franco Pezzini
    • Maggio 25, 2014 a 1:13 pm

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    Nella lunga storia delle Ombre Lunghe – cioè degli attori che hanno avuto parte emblematica, “specialistica” in un teatro mitico delle nostre inquietudini, a partire ovviamente dai tre mattatori che offrono occasione alla Festa di questi giorni, cioè Cushing, Lee & Price – la prima impressione, scorrendo i repertori di interpreti, è che a livello di grandi numeri la componente maschile sopravanzi nettamente quella femminile. Tra i volti noti dell’horror, la maggior parte dei nomi paradigmatici per l’uomo della strada è stata nel tempo rappresentata da interpreti maschili (i tre citati, ma anche Karloff, Lugosi eccetera – non a caso indefinitamente caricaturati), sulla base del resto di archetipi ben precisi di tutta una letteratura gotica; e così, per esempio, tra i vilain del genere avventuroso, che pure risentono di modelli plurisecolari con influenza su trame e giochi di parti. Certo, in una società androcentrica e spesso sessuofoba, come quella con cui il cinema popolare intrattiene da sempre un disinvolto gioco di provocazioni & corteggiamenti, la prevalenza maschile può rispondere a un triste dato sociale – la frequente attribuzione di parti più interessanti e complesse a uomini, a fronte di una soggezione a stereotipi dell’immagine femminile, con attrici intercambiabili in maschere di devianti e sottomesse (e spesso archiviate quando non più considerate piacenti). E certo, questa è la situazione “classica”, perché è possibile che con il ricambio generazionale qualcosa stia mutando.
    Ma è pur vero che il quadro accennato fotografa solo una parte della realtà: significherebbe infatti far torto a una lunga galleria di straordinarie interpreti femminili il dimenticarne il lascito simbolico. Pensiamo a dive del cinema mainstream come Joan Crawford e Bette Davis, che pure si sono guadagnate sicuramente un posto nell’immaginario di genere, e non solo per un film disturbante come What Ever Happened to Baby Jane?, 1962; o per contro a nomi folgoranti del cinema non mainstream ancor oggi oggetti di culto come Barbara Steele, Ingrid Pitt e Soledad Miranda. Ma l’orizzonte è assai più ampio, con una galleria mitica che corre lungo tutta la storia dello schermo d’argento, idealmente da Theda Bara – per cui fu coniato il termine vamp, distruttrice archetipica di uomini – a colleghe delle ultimissime generazioni come Asia Argento, Sarah Michelle Gellar, Danielle Harris o l’incredibile Eva Green. Una galleria che a ben vedere non si esaurisce neppure nelle due “professionalizzazioni” e poli simbolici classici della donna pericolosa (dark lady, femme fatale eccetera) e della donna in pericolo (in particolar modo la scream queen, “regina dell’urlo”, declinazione moderna e orrifica della classica damsel in distress a partire dall’ormai leggendaria Fay Wray). E prescinde persino dal dato di un’effettiva ricchezza di sceneggiatura: interpreti intense hanno saputo integrare ruoli stereotipati o sovrascrivervi con densità di toni tale da poter impattare durevolmente sull’immaginario del pubblico. C’è insomma tutta una storia al femminile di Ombre Lunghe (torno a usare questo termine, evocativo dei nostri crepuscoli interiori, dell’allungarsi di ombre che intrigano e inquietano) che merita di essere considerata – e va ben oltre il fiorire in chiave di fandom di foto con dedica o richiami di gossip.

    DraculahasrisenTra le molte storie possibili, ne scelgo una che mi pare di grande suggestione e coinvolge tra l’altro produzioni riproposte da poco in dvd – permettendo a chi lo desideri di recuperare non solo i film nel loro generale contenuto, ma la relativa ricchezza di colori e di audio, la grana dell’immagine, la qualità artistica di prove che per quanto popolari vantano le virtù dell’ottimo artigianato. Ed è la storia di un’attrice dalla filmografia breve, ma in pellicole molto note a fianco di colleghi del calibro di Cushing e Lee, nell’ambito di una stagione oggettivamente speciale del cinema horror; un’attrice destinata di norma a ruoli un po’ schematici di scream queen ma appunto capace di arricchirli con la sua presenza, e oggi assurta a sua volta a figura di un culto discreto come icona dell’Hammer glamour. Una professionista apprezzata per serietà nel lavoro, riservata nella vita privata, e pronta anzi a un certo punto a ritirarsi senza drammi dalle scene – per tornarvi eccezionalmente come guest star in anni recenti, nell’ambito di un’età neogotica che ha rivalutato questo tipo di carriere artistiche traghettandole dal limbo di fanzine per amatori a un sistema di condivisione planetario tramite internet.
    La fama di Veronica Carlson è, come detto, principalmente legata alla casa britannica Hammer. Normalmente non si dice l’età di una signora, ma in casi come il presente si può azzardare un’eccezione: sia perché il dato costituisce un elemento importante per collocare storicamente un certo percorso professionale, sia perché l’attrice nata nel ’44 nello Yorkshire è a tutt’oggi affascinante. Vissuta a lungo nell’infanzia in Germania dove il padre è in servizio, Veronica Mary Glazer (così per l’anagrafe) studia poi arte distinguendosi in rassegne amatoriali: un’abilità che non dimentica, anche se per un certo periodo la conserva nel cassetto dedicandosi ad attività diverse.
    È un momento particolarissimo quello in cui per la sconosciuta Veronica si aprono le porte del cinema: la Swinging London ormai all’apogeo è stata appena consacrata dalla celebre definizione del Time (15 aprile 1966) quando la ragazza esordisce in una commedia minore, The Magnificent Two, 1967. Immaginiamo cosa debba significare per una neo-attrice, venuta giù dalla provincia con tanti sogni e speranze, trovarsi nell’esplosione di vita della capitale culturale del mondo, tra musica, moda, arti varie: un momento incantato di ripresa non solo nazionale dalle asperità del dopoguerra, ma di apertura ad altre realtà in una sintesi originalissima e molto britannica.
    A quella prima, piccola parte seguono così prestissimo ruoli in un’altra commedia, una serie TV, un thriller – e a questo punto una foto di Veronica in un giornale finisce sotto gli occhi del produttore James Carreras, e lo colpisce.

    foto nel cimitero 1
    Colorito chiaro, biondissima, tratti classici e forme ben modellate da icona sexy, ma anche dotata di un’espressione dolce e gentile, Veronica viene subito contattata dalla Hammer che sta sfornando con successo i grandi cicli sui mostri classici: e il suo arruolamento per Dracula Has Risen from the Grave (Le amanti di Dracula), 1968, segna in qualche modo una svolta nel tipo di bellezza celebrato dalla casa. Certo, c’era già stata l’irruzione di Raquel Welch e Ursula Andress, ma non nel sistema “seriale” delle vittime del mostro, che propone per definizione figure più vicine alla quotidianità degli spettatori. In quel momento magico, proprio attraverso il ritratto di Veronica la fucina dell’horror inglese passa così dal modello discreto dominante nella prima fase dei suoi film gotici (si pensi alle eleganti e molto british Melissa Stribling e Barbara Shelley, vittime del Conte nei primi due film, o alla graziosa austriaca Susan Denberg di Frankenstein Created Woman) a un altro più entusiasticamente apprezzabile a livello internazionale, con occhio particolare agli USA. Un modello d’altronde che, rispetto ai precedenti della casa, appare forse anche più vicino alle ragazze della nuova generazione, in un’ideale saldatura tra l’età vittoriana e Carnaby Street. Indicativo del resto del mutare dei tempi è il manifesto del film, che con taglio innovativo rispetto alla grafica degli altri draculeschi mostra birichino il taglio fotografico tra bocca (ansimante) e scollatura di una giovane bionda che sembra Veronica – in realtà non lo è, ma il richiamo è a lei – in un bianco e nero spezzato solo da due improbabili cerotti rosa sul collo. Il titolo-annuncio che Dracula è riemerso dalla tomba campeggia al di sotto tutto maiuscolo e virgolettato, e segue in chiaro più piccolo e sornione un “(OBVIOUSLY)”.

    Dracula Has Risen From The GraveNel film, Veronica è Maria Müller, nipote di monsignor Ernest, un vescovo della Mitteleuropa – beninteso la Mitteleuropa Hammer, ricostruita nella verde campagna britannica, in questo caso presso gli studi di Pinewood nel Buckinghamshire dopo l’abbandono degli storici set di Bray presso Windsor. Ma il sangue di un prete risveglia accidentalmente Dracula – Lee, è chiaro – che per vendicarsi del vescovo che gli ha interdetto con una croce il ritorno al castello, piomba goloso su sua nipote. Uscito nel novembre ’68, il film tradisce in qualche modo conflitti d’epoca nell’ottica dello spregiudicato taglio Hammer: il prete è un pauroso che finisce succube di Dracula; la spedizione del vescovo (il simpatico Rupert Davies, volto notissimo all’epoca) per rassicurare gli abitanti esorcizzando il castello ottiene in pratica l’effetto opposto; il fidanzato di Maria è un libero pensatore che, dopo l’ovvio scontro di vedute con i pii congiunti della ragazza, ritroverà però la fede riuscendo appena in tempo a sconfiggere il vampiro – e questi finisce impalato sulla croce. Dove il mix di provocatori sincretismi tra sacro e blasfemo e la patina di devozionismo forzato (e non troppo convinto, ma il tutto serve a blandire i critici) appare al nostro sguardo davvero incredibile.
    D’altra parte rispetto ai prequel è cambiato il regista: non più il vecchio leone vittoriano Terence Fisher – che si è ammalato e non può girare – ma Freddie Francis. Grande direttore di fotografia, questi offre in Dracula Has Risen from the Grave un film oggettivamente minore ma con vivaci trovate visionarie e intriganti sperimentazioni visive. D’altra parte Francis dichiarerà in seguito che la storia d’amore gli interessava più del personaggio di Dracula, e in effetti concede ai due giovani una scioltezza negli scambi affettivi assai maggiore rispetto a quelli un po’ rigidi (e rigorosamente tra coniugi) dei due film precedenti della saga. Le donne qui sono più intraprendenti: e se alla dolcissima e soave borghese Maria si contrappone la sensuale e disinibita popolana Zena (Barbara Ewing), l’una bionda e virginalmente vestita, l’altra bruna e procace, la prima è comunque in grado di avventurarsi lungo i cornicioni per andare a raggiungere l’innamorato, contro ogni desiderio della madre.
    Quando però, più avanti, è Dracula a passare dai tetti, Maria è in camicia da notte, e di un taglio ben più provocante che nei prequel. La vediamo dunque retrocedere dalla finestra e coricarsi sotto il potere magnetico dello sguardo di lui; poi il Conte si avvicina, accosta il viso e pare dispensare lenti baci, che suscitano nella ragazza un’evidenza di piacere. Finora Dracula/Lee non aveva mai offerto un’immagine seduttiva tanto esplicita, anche se la Hammer (va detto) non gli aveva mai concesso una vittima così seducente. E dopo aver enfatizzato l’erotizzazione della procace Zena, che passa dagli amorazzi da bettola a un rapporto totale e quasi masochistico verso il Dominatore, lui provvede ora a erotizzare anche la candida Maria, sorta di Barbie cinguettante quando è col fidanzato, ma pronta a svelare nelle scene con Dracula una ben diversa (ancorché implicita, castigatissima) carica sessuale.

    veronica carlson 10
    La scena più spiazzante del film è comunque più avanti, sul carro che sta per ricondurre la bara di Dracula verso il castello. Vi appare Maria che, sempre in camicia e in stato di soggezione psichica, carezza e sembra baciare la cassa: una scena ai confini del surrealismo, realizzata in termini astratti che la censura del tempo non può sanzionare, ma che nella deriva onirica della situazione trattiene un evidente, clamoroso contenuto erotico dagli echi di necrofilia. È Maria/Veronica la fanciulla sacrificalmente offerta dal rito Hammer al mostro, in un’epifania tra le più forti finora offerte dalla casa: e la sua aria innocente e genuinamente priva di ambiguità, in incredibile collisione con le pulsioni evocate, completa il quadro. I servizi di foto d’epoca dell’attrice, ripresa con vertiginose scollature tra le lapidi di un cimitero, riescono a mantenere il paradosso.
    Ovviamente le dinamiche sul set sono ben più morbide: per quanto la situazione non sia più quella dei primi film a Bray, la Hammer è ancora la grande famiglia dove i rapporti possono conservare una dimensione umana. Così Lee si dimostra disponibilissimo verso la giovane attrice, ricordandole come in fase di gavetta fosse stato a sua volta aiutato da colleghi – Gregory Peck, per esempio – e non l’abbia dimenticato. Senza nulla togliere alla cortesia di Lee e pur considerando la sua notoria fedeltà alla moglie, è però lecito immaginare che di fronte alla splendida collega la sua disponibilità non rappresenti un eccessivo sforzo. E d’altronde, per la giovane attrice che amava i film horror ben prima di poter sperare di avervi parte, quell’avventura nell’abbraccio di un gotico gentile ha il sapore della fiaba.

    Veronica e Christopher dietro le quinte
    Con Dracula Has Risen from the Grave, Carlson si conquista un ruolo nell’immaginario del pubblico attraverso la semplice presenza e gestualità, e ben oltre i limiti delle battute concesse o la schematicità di un ruolo di vittima designata. Se nella dinamica tradizionale romantica regna da sempre l’assunto che alla bruna vampiresca, donna fatale, si oppone la candida bionda, donna angelo, questa ragazza prosperosa venuta dal nord col suo sguardo dolcissimo e la natura gentile è del secondo polo l’espressione più eclatante mai giunta alla Hammer.

    Nessuna sorpresa dunque che la casa la arruoli presto per un’altra avventura gotica, nel film Frankenstein Must Be Destroyed (Distruggete Frankenstein!), 1969, diretto stavolta da Fisher: un film che del ciclo del Barone-scienziato rappresenta senz’altro una delle puntate migliori, più incalzanti e compatte. Partner di Veronica è ora Peter Cushing, mai tanto urticante nella parte di Frankenstein, che qui uccide e ricatta con una spietatezza direttamente inversa alla (celebre) bontà d’animo dell’attore – anche se questi terrà a sottolineare che il personaggio non è qui tanto un uomo cattivo quanto “un uomo triste”.
    Nella sua continua fuga per continuare gli esperimenti tra una persecuzione e l’altra, il Barone sotto falsa identità trova qui alloggio nella pensione della scintillante Anna Spengler interpretata da Carlson. Lei e il fidanzato dottor Karl Holst custodiscono però un segreto: infatti quest’ultimo vende di soppiatto stupefacenti sottratti al proprio istituto (un modo per farcire la trama con una delle nuove paure d’epoca, la droga) onde permettere ad Anna di mantenere la madre inferma in una clinica. Frankenstein scopre dunque l’inghippo e i giovani cadono sotto il suo assoluto potere: Anna è costretta a buttar fuori gli altri ospiti, Karl a collaborare ai delitti del barone per procurarsi materiale e tentare nuovi esperimenti…

    Frankenstein Must Be Destroyed
    Ma come in un’inattesa ripercussione nella realtà delle brutture in scena, gli sgomenti Veronica e Peter vedono all’improvviso inserita per volontà di James Carreras – a sua volta sotto pressione dei distributori americani – una scena inizialmente non prevista in cui il Barone stupra Anna. Il cinema odierno ci ha abituato a un alto livello di violenza, e può colpirci la resistenza che i due interpreti oppongono alla presenza di quella scena. L’attrice, ricordando come da bambina amasse i film con Cushing – in particolare dove questi nascondeva sotto una maschera di gentiluomo un aspetto sinistro – sottolineerà il fiuto del collega nel cogliere le attese degli spettatori: genuinamente disgustato, Cushing giudica probabilmente la scena anche un passo falso verso il pubblico. Se in realtà tutti sul set sono contrari, però alla fine non possono che obbedire: Peter porta allora Veronica a cena per discuterne (“Ricordo che venne con dei guanti bianchi”) e passano una bella serata “ma l’incontro non rese il nostro lavoro più facile”. E sarà Fisher a venire incontro alla loro difficoltà sottolineando la brutalità della sequenza ma senza insistenze pruriginose. Si è detto che l’episodio resta decontestualizzato perché in seguito i personaggi non ne parleranno mai, ma c’è un momento, al primo incontro successivo con il Barone in laboratorio, in cui vediamo Anna defilarsi con imbarazzo (senza che il fidanzato capisca): probabilmente un’allusiva soluzione-cerniera scelta da Fisher per agganciare la nuova scena al prosieguo. A parte comunque la spiacevolezza dell’episodio per gli interpreti, è pur vero che quell’inserimento coatto recupera uno spunto tematico del primo film, cioè la sensualità di Frankenstein, che nei sequel non aveva trovato ripercussioni (e non ne ritroverà nel prosieguo del ciclo con Cushing).
    Frankenstein Must Be Destroyed 2La parte di Veronica potrebbe apparire in questo caso poco significativa: eppure il misto di dignità, coraggio, dolente rassegnazione che lei riesce a infondervi, rifiutando di abbandonare il compagno e comprendendo tuttavia lucidamente il precipizio cui stanno andando incontro (finirà in effetti pugnalata dal Barone), permette una felice dialettica con un Cushing al suo meglio. È anzi da antologia la bellissima scena in cui l’esplosione accidentale di un tubo disseppellisce in parte un cadavere sepolto in giardino – il cui braccio prende a danzare nell’aria all’urto del getto d’acqua – e costringe Anna ad accorrere per strappare il corpo di lì e nasconderlo un attimo prima che giungano gli operai, concedendosi solo alla fine una (comprensibile) crisi isterica: l’attrice mostra nella sequenza una capacità drammatica che ancora una volta non permette di considerarla la semplice scream queen da film popolare – e fa rimpiangere che non abbia tentato anche generi più impegnativi. D’altra parte Fisher stesso, rendendosi conto che la giovane attrice ha ormai maturato una buona pratica professionale, la interpella volentieri su come lei senta una scena o l’altra e le lascia una certa libertà – come testimonierà lei stessa ancora in recenti interviste.
    In quel periodo, Carlson lavora parecchio: apparizioni in serie TV (la più importante in Simon Templar con Roger Moore, 1969), parti non disprezzabili in film come il thriller Crossplot (Circolo vizioso), 1969 o la commedia Pussycat, Pussycat, I Love You (Pussycat, Pussycat… ti amo), 1970. Ma è evidente che queste produzioni non le offrono lo spazio concesso dall’horror: e dunque è ovvio vederla ricomparire in un nuovo film Hammer. Quasi in controcanto a Frankenstein Must Be Destroyed, ora si tratta dell’unica pellicola della casa sul Barone senza la carismatica presenza di Cushing – cioè il satirico The Horror of Frankenstein (Gli orrori di Frankenstein), 1970, diretto da Jimmy Sangster.
    Questi aveva firmato da sceneggiatore già il vecchio The Curse of Frankenstein (La maschera di Frankenstein), 1957, primo successo gotico della casa, iniettandovi quelle provocatorie dosi di ironia nera che avevano contribuito a farne un capolavoro; e ora in The Horror of Frankenstein ne propone un remake in chiave di parodia. Al titanismo gelido dell’interpretazione di Cushing nel ’57, che anche grazie alla regia di Fisher reggeva la complessità di tutto un teatro simbolico – il rapporto ambiguo tra Bene e Male, la fascinazione fatale per la scienza – Sangster qui contrappone in termini divertiti e leggeri un clima da commedia cinica, ben supportato dall’interprete Ralph Bates (un altro dei veterani Hammer) ora nella parte del barone. Dominato dall’ossessione di creare la vita, Frankenstein si fa strada eliminando soavemente tutti coloro che si oppongano: e quando la polizia fa irruzione al castello cercando il mostro (David Prowse, di lì a non molto richiuso sotto il casco nero di Dart Fener nella saga Star Wars) l’incidentale intervento di una bambina fa sparire ogni traccia nell’acido. Se in The Curse of Frankenstein il barone saliva alla fine il patibolo (sia pure salvandosi per i sequel), qui la polizia abbandona il castello con un pugno di mosche in mano, mentre il mad doctor impunito si consola pensando che costruirà una creatura meglio riuscita. La formula della parodia non è però premiata dal pubblico, che vede nel film la crisi di uno stile, e Sangster dovrà in seguito rendersi conto del passo falso.

    Horror of Frankenstein
    Accanto a Bates, Carlson interpreta la candida Elizabeth Heiss, già compagna di studi del giovane Frankenstein e rimastane fatalmente innamorata. Per amor suo ha rifiutato ogni offerta nuziale – nonostante lei rappresenti il miglior partito della zona, come a un certo punto osa ricordare al Barone rivolgendo una timida proposta che lui però ignora. Quando Frankenstein le ammazza il padre, lei però si scopre al verde e sfrattata dai debitori: del tutto inconsapevole della dinamica dei fatti cerca aiuto al castello, e l’ex-compagno incurante dei suoi sentimenti la accoglie per soldi come semplice governante. Elizabeth, afferrata a un tratto dalla Creatura, sverrà senza patire altri danni: ma il ruolo di vittima trova sviluppo più nei suoi compostissimi e addolorati scambi con Bates/Frankenstein, vero mostro della situazione, che nella classica scena di panico tra le braccia del nerboruto Assemblaggio – e la violenza peggiore è quella che le vediamo subire attraverso l’algida, protratta, educata noncuranza dell’uomo che ama. Dove è interessante paragonare questa ennesima figura di vittima, candida fino alla stupidità ma toccante per innocenza, alla Elizabeth del film di Fisher (Hazel Court) altrettanto stupida ma opportunista, e parte di un mondo meschino sul quale Frankenstein, pur con i suoi delitti, almeno svettava per statura.

    Kate O'MaraUna digressione s’impone però su un’altra figura del film, la governante Alys amante del barone – un personaggio parallelo alla Justine che Valerie Gaunt interpretava in The Curse of Frankenstein. A reggere la parte è ora Kate O’Mara, ed è bello ricordare qui quest’altro volto del glamour Hammer, attrice versatile (teatro, cinema, TV) dalla lunga carriera ma anche scrittrice e attivista dei diritti animali, morta il 30 marzo 2014: se i più la conoscono per le parti nella soap opera Dynasty o in Doctor Who (dov’è la cattiva Rani), le sue uniche due interpretazioni per la casa madre dell’horror britannico, consumate nel tempo breve di pochi mesi, bastano a meritarle un posto nella storia che andiamo tracciando. O’Mara era apparsa poco prima per la Hammer in un film notissimo e riuscito, The Vampire Lovers (Vampiri amanti), 1970, tratto da Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu, interpretando l’ambigua governante: un ruolo erotizzato e caricato di ben altri chiaroscuri rispetto al personaggio corrispondente del romanzo-fonte, e che la vedeva cadere preda sessuale di Ingrid Pitt/Carmilla. La torrida scena presentò qualche problema per l’invincibile ilarità delle attrici alla continua caduta delle zanne finte della vampira nella scollatura della vittima. Bruna, sottile ma con forme generose e sguardo un po’ sfuggente, anche in The Horror of Frankenstein O’Mara è una governante destinata a finire malissimo: temendo che Elizabeth prenda il suo posto – come accadrà, anche se non nel letto del barone – inizia a minacciare l’amante che la consegnerà al mostro. La Hammer avrebbe continuato volentieri il rapporto con quest’attrice dai toni intensi, che però temendo di finire stritolata dagli stereotipi di genere rifiuta ulteriori contratti.

    Ma The Vampire Lovers e The Horror of Frankenstein annunciano in realtà una situazione nuova: nella Gran Bretagna del ’70 il panorama è cambiata, la crisi economica si fa conclamata mentre nuove provocazioni sociali e sessuali impattano sull’immaginario. Anche l’horror deve far fronte dunque a una robusta ridefinizione: assume nuovi connotati, promette concessioni al sesso più esplicite, azzarda ibridazioni tra generi. E se di questi esperimenti la Hammer stessa si fa promotrice, altre case la seguono.

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    Tra il 1971 e il 1975 Carlson figura in tre serie TV di un certo successo; ma per quattro anni non compare sul grande schermo, e vi rientra solo nel ’74 con la parodia britannica Vampira di Clive Donner, 1974, in chiave di omaggio al cinema che l’ha resa famosa. Un film simpatico per la compassata e ironica presenza di David Niven come Vladimir Dracula, che qui sopravvive alla propria leggenda affittando il castello per weekend gotici di comitive turistiche: l’attrice vi ha comunque un ruolo marginale, quello di Ritva, una delle frizzanti modelle da cui il Conte preleva una dose di sangue cercando il rarissimo gruppo utile a rianimare la propria antica sposa Vampira. Era rimasta avvelenata cinquant’anni prima da liquido ematico avariato: il problema è che, quando Dracula finalmente riesce nell’impresa, lei si risveglia con la pelle color cioccolato… La presenza di Carlson e – in un’altra piccola parte – della collega Linda Hayden, pure apparsa nella saga Hammer di Dracula/Lee, garantisce non solo piacenti bionde al cast ma richiami quasi stenografici ai fasti di un horror ben noto.
    Il congedo di Veronica dal genere che l’ha resa celebre e dal cinema stesso è però con una pellicola dell’anno dopo, The Ghoul, 1975: una produzione della piccola e promettente Tyburn Film, dove l’attrice ritrova vecchi amici, Cushing come partner e il regista Freddie Francis. Per una volta le tocca un ruolo un po’ diverso: una sofisticata, capricciosa giovane signora della buona società inglese degli anni Venti, Daphne Wells Hunter, che nell’euforia di una festa ha la pessima idea di inventarsi una gara automobilistica fai-da-te col partner e una coppia di amici. Ovviamente la macchina si bloccherà tra la nebbia nel punto meno indicato, nei pressi della villa dove il tormentato ex-prete dottor Lawrence (ovviamente Cushing, magrissimo) abita succube del figlio cannibale che tiene recluso, il ghoul della vicenda, e di una losca governante indiana. Il clima claustrofobico della villa – cui contribuisce John Hurt nei panni del disturbato giardiniere Tom – vede i fatti precipitare fatalmente, con un senso di impotente attesa dello spettatore: e Daphne, condotta a riposare nel chiuso delle zanzariere di un letto a baldacchino, finirà massacrata a pugnalate dal mostruoso recluso e poi preparata in cucina dalla governante per il pasto del medesimo. Intendiamoci, la scena di violenza è resa quasi allusivamente dalle immagini della donna che urla dimenandosi, alternate a foto della mano del ghoul col coltello: qui il sangue è appena evocato, e per il prosieguo del film troveremo una sola scena in qualche modo splatter. Per quanto resti un film minore, The Ghoul può vantare una suggestione nel segno del classico, grazie soprattutto alla professionalità degli interpreti.
    Carlson, che per Cushing avrà sempre una tenerezza speciale, rammenterà anche come l’attore utilizzi nel film quale foto della moglie del proprio personaggio – in particolare nella scena drammatica in cui ne narra il suicidio – quella della propria amatissima moglie defunta, Helen. Il corto circuito tra la vicenda fittizia e la vera imprime alla scena una tale carica di sofferenza che l’attore poi si ritira subito in camerino, per pudore, lasciando tutti commossi sul set. Quella scena, si dice, verrà anzi tagliata per rispetto a lui.

    Veronica-Carlson-in-The-Ghoul-1975
    Si noti che la storia del film è presentata come una sorta di dittico, con le parti affidate rispettivamente alle due giovani protagoniste della festa iniziale: massacrata Daphne/Carlson a metà del film, tocca all’amica Angela scendere in campo. A interpretarla è un’altra attrice che piace qui ricordare, Alexandra Bastedo, lei pure scomparsa recentemente (12 gennaio 2014). Britannica ma di sangue misto (francese, tedesco e italiano per parte materna, spagnolo, olandese, scozzese e pellerossa dal lato del padre – nato in Canada), esordiente con 13 Frightened Girls (L’incredibile spia), 1963, e nota per la partecipazione alla serie spy-fi The Champions, a lungo considerata come sex symbol e a sua volta attivissima animalista militante, l’attrice percorrerà una lunga carriera in televisione e al cinema – quest’ultima chiusa nel 2005 con una parte in Batman Begins. Ma tra i molti titoli di genere della sua filmografia, “la Bastedo” – come viene chiamata – può vantare soprattutto il ruolo chiave in un’opera importante e discussa, La novia ensangrentada (Un abito da sposa macchiato di sangue) di Vicente Aranda, 1972 – un altro dei fondamentali ancorché liberi adattamenti del Carmilla di Le Fanu, denuncia sferzante di un sessismo patriarcale ancora forte in Spagna. La vicenda della sposina Susan (Maribel Martín) malmaritata a un macho brutale (Simón Andreu), e che a un tratto trova solidarietà ed eros in una donna misteriosa – forse reincarnazione di un’antenata assassina del marito la prima notte di nozze – non può che finire tragicamente: e “la Bastedo” offre della vampira un ritratto sfuggente che insieme seduce e inquieta, nel quadro di una vicenda dove esplosione di rapporti e deriva psichica sono innescati proprio da una relazione greve, malsana e violenta con il sesso.

    Alexandra Bastedo

    Alexandra Bastedo

    Durante le riprese di The Ghoul, Veronica e Peter vengono invitati con altri ospiti importanti – Vincent Price, Oliver Reed, Trevor Howard – a una puntata del famoso programma This Is Your Life: una versione affettuosa del nostrano Ieri e oggi in cui si festeggia la carriera di un attore. In quel caso il destinatario dell’omaggio è Lee, e il programma – che andrà in onda il 3 aprile 1974 – vede idealmente chiudersi una stagione. Almeno per l’attrice, che dopo The Ghoul si ritira dalle scene: seguono il trasferimento in America col marito, i figli, il recupero di matite e pennelli dei vecchi studi d’arte, per cui si reinventa professionalmente come pittrice di successo. Negli anni Novanta ha due brevi rientri sotto i riflettori, per gli horror Black Easter di Bruce G. Hallenbeck, 1994 (“co starring Debbie Rochon still remains unreleased to this day. But hopefully will be released in the not to distant future”, si legge sulla pagina FB della Nostra), e l’omnibus in quattro episodi Freakshow di William Cooke e Paul Talbot, 1995; e comunque partecipa volentieri a convention sul fantastico, spesso portando ritratti di propria mano dei colleghi di un tempo – ma la sua vita quotidiana è ormai un’altra.

    Veronica e Peter dietro le quinte
    Il web brulica di foto di Veronica Carlson degli anni d’oro, a volte ripresa come modella forte del suo scintillante aspetto fisico, a volte fermata in scene chiave delle singole pellicole – o nei fuoriscena, o in quelle inquadrature assenti nelle versioni finali che trattengono il sapore di episodi non raccontati o di veri e propri film paralleli. Certo, altre biografie d’attrici – anche di colleghe attive nel suo stesso periodo, e sullo stesso genere – presentano vicende assai più avventurose o drammatiche; eppure la breve carriera di Carlson resta in qualche modo emblematica. A livello generale, l’avventura di una ragazza che accede al cinema in un momento fatato come gli anni della Swinging London, può conoscere le icone dei suoi sogni, assapora una stagione di successo e poi sceglie liberamente un’altra vita, ha i connotati di una fiaba fatta realtà. In termini più specifici di storia del cinema fantastico, quest’attrice perbene ha vissuto la Hammer di un’epoca straordinaria, i rapporti umanissimi coi colleghi, l’amicizia con personaggi unici per carisma ed eclettismo: una testimone insomma che rappresenta un prezioso trait d’union con quel mondo, e piace sentir raccontare. Anche più direttamente, c’è l’incanto del suo aver umanizzato parti un po’ schematiche, incarnando un vero e proprio archetipo – la ragazza bella & pulita minacciata dal Male – ma in un gioco di ruoli drammatizzato che sa toccarci ancora: Veronica Carlson può insomma vantare meritatamente una parte in quella storia delle Ombre Lunghe che andiamo a celebrare. E in ultimo, a ideale suggello di tutti questi aspetti, c’è il suo apparire e sparire dalle scene in un volgere d’anni che resta speciale per chi scrive e almeno per una percentuale di quanti hanno avuto voglia di leggermi: un’età che ci sembra tanto lontana, dalla cronaca a tratti drammatica ma anche vivida di fermenti, e addolcita comunque dalla nostalgia per una stagione del nostro passato. Il linguaggio del fantastico, in fondo, è anche questo.
    A Veronica e a voi tutti, buona Festa delle Ombre Lunghe.

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    Per chi abbia voglia di approfondire:

    Luigi Cozzi (a cura di), Peter Cushing. Dalla Hammer a “Guerre Stellari”, con la collaborazione di Barbara Tolfa, Mondo Ignoto/Profondo Rosso, Roma 2003;

    Peter Cushing, An Autobiography, Weidenfeld and Nicolson, London 1986;

    Peter Cushing, ‘Past Forgetting’. Memoirs of the Hammer Years, Weidenfeld and Nicolson, London 1988;

    Lord of Misrule. The Autobiography of Christopher Lee, Orion Books Ltd, London 2004;

    David Miller, The Peter Cushing Companion, Reynolds & Hearn Ltd, London 2000;

    Fabio Giovannini, Terence Fisher – L’artista dell’orrore, Profondo Rosso, Roma 2009;

    Jack Hunter (a cura di), House of Horror. The Complete Hammer Films Story, Creation Books, Londra-San Francisco, 1996;

    Howard Maxford, Hammer, House of Horror – Behind the Screams, B.T. Batsford Ltd, Londra 1996;

    Mark A. Miller, Christopher Lee and Peter Cushing and Horror Cinema. A Filmography of Their 22 Collaborations, McFarland & Company, Inc., Publishers, Jefferson, North Carolina, and London 1995;

    Teo Mora, Storia del cinema dell’orrore, 2 – Dal 1957 al 1966, Fanucci, Roma 2002;

    Teo Mora, Storia del cinema dell’orrore, 3 – Dal 1967 al 1978, Fanucci, Roma 2002;

    Franco Pezzini e Angelica Tintori, The Dark Screen. Il mito di Dracula sul grande e piccolo schermo, Gargoyle Books, Roma 2008;

    Franco Pezzini e Angelica Tintori, Peter & Chris. I Dioscuri della notte, Gargoyle Books, 2010;

    Siegbert Salomon Prawer, Caligari’s Children, Oxford University Press, Oxford 1980; tr. it.: I figli del dottor Caligari. Il film come racconto del terrore, Editori Riuniti, Roma 1981;

    Rudy Salvagnini, Dizionario dei film horror. Dall’Abbraccio del ragno a Zora la vampira, Corte del Fontego, Venezia 2011;

    Fabio Zanello (a cura di), Christopher Lee – Il principe delle tenebre, Profondo Rosso, Roma 2008.
    ______________________

     

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