Angela Carter è un’autrice britannica notoriamente eccessiva, contorta e impossibile da sistemare definitivamente su qualche scaffale di genere. Un soggetto molto interessante, quindi. Fanucci curò la traduzione delle sue prime opere. Alla fine del 2002 è uscito La bottega dei giocattoli (ed. or. 1967) e all’inizio del 2003 questo I buoni e i cattivi (ed. or. 1969, trad. Simona Fefé). Angela Carter è un’autrice nota a un pubblico ristretto ma – bisogna sottolinearlo – affezionato. Di lei sono a suo tempo usciti due romanzi (Notti al circo e Love, Feltrinelli), una raccolta di racconti (Nell’antro dell’alchimista, Rizzoli) e una raccolta di saggi (La donna sadiana, Feltrinelli). Tra i suoi tratti distintivi un uso discrezionale e personalissimo degli stilemi del genere gotico e della sf, il gusto per ambientazioni oniriche e inquietanti e un approccio assai poco rassicurante alla sessualità. I buoni e i cattivi è ambientato in un futuro non troppo lontano, dove a popolare un mondo di sopravvissuti a un’ignota catastrofe sono i rimasti i «professori», i «barbari» e «quelli di fuori». I professori riescono, nonostante le difficili condizioni ambientali, a condurre una vita quasi civilizzata e a conservare i modi e le abitudini del mondo precedente alla catastrofe. Devono però vivere reclusi nei loro villaggi-fortezza, protetti dalla «polizia», ossia da una milizia di leva, incaricata non soltanto della difesa ma anche dello sterminio dei barbari che vivono nei dintorni delle cittadelle dei professori e che periodicamente, soprattutto nei periodi di carestia, le attaccano tentando di procurarsi cibo. Marianne, la protagonista del romanzo, è nata e cresciuta in un villaggio dei professori ma ne tollera poco i riti, l’ipocrisia e gli orizzonti angusti. I barbari, apparentemente liberi e vitali diventano così la sua personale fissazione fino a quando, rimasta sola dopo la morte del padre e del fratello, decide di unirsi a loro. Naturalmente l’esperienza si rivelerà deludente. I barbari conducono infatti una vita sul limite della sopravvivenza, minacciati da «quelli di fuori», umani mutati e regrediti alla condizione di belve antropofaghe, e dalla polizia dei professori e non vi è nulla di romantico nella loro sopravvivenza stentata e difficile. Sospesi tra una civiltà che non riescono più a comprendere e l’incapacità di costruire forme sociali adeguate alla loro situazione, i barbari vivono da parassiti, di furti e saccheggi, senza riuscire a dimenticare l’esistenza degli altri, di coloro che sterilmente mantengono viva la civiltà che ha condotto tutti alla rovina. La loro violenza è così quella di bambini abbandonati e soli. Marianne conoscerà Gioiello, un barbaro analfabeta ma che ha ricevuto una raffinata istruzione orale da un «professore» folle e crudele che vive tra i barbari. Ma Gioiello, come lei del resto, è un fallimento psicologico, un ibrido senza speranza.
Salta subito agli occhi l’uso metaforico del mondo distrutto da una catastrofe e regredito a una condizione primitiva e semibestiale, un tema già affrontato da diversi autori inglesi, primi tra tutti Wells e Golding. L’ossessione della barbarie in agguato sotto un sottile strato di normalità ha sempre accompagnato la civiltà occidentale, ma ha trovato negli autori anglosassoni interpreti particolarmente efficaci. Angela Carter a questi elementi aggiunge uno humour devastante e una precisione allucinata e impietosa. Marianne non è un personaggio «positivo», è una sprovveduta dai tratti infantili, pigra e viziata che si fa vincere da una curiosità idiota e che non riesce ad abituarsi a uno stile di vita realmente difficile. La sua natura femminile si rivela ben presto perdente in un mondo basato sulla violenza, e la sconfitta significa adattarsi a una scarsa libertà di movimento e all’impossibilità di prendere iniziative e decidere. Marianne come risposta alla sua condizione sa solo escogitare vendette puerili e ridicoli tentativi di fuga, assumendo definitivamente la condizione di «bisbetica» da domare e incarnando la visione ambiguamente peculiare che l’autrice ha del suo sesso. Il tema del potere, potere sociale – potere di genere, è al centro del romanzo di Carter, un nodo che l’autrice non rimuove ma che nemmeno tenta di sciogliere, limitandosi a esplorarne la complessità e a descriverla, lasciando intuire che lo humour nero del quale sono intrise le sue opere è in realtà una testimonianza di impotenza, di impossibilità di rimuovere e abbandonare la doppia corazza di donna e di membro rispettabile, sia pur subordinato, della società occidentale. Insomma, Carter si comporta come chi, al funerale di una persona cara, scherza per non cedere alla percezione improvvisamente nitida della povertà della propria come dell’altrui vita.
Angela Carter, I buoni e i cattivi
Fanucci immaginario, 2003, pp. 224, € 13,00, trad. S. Fefè
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