Il guardiano. Marek Edelman racconta (a cura di Rudi Assuntino e Wlodek Goldkorn, editore Sellerio) è la storia di un uomo, ma anche del suo partito; l’uomo è ancora vivo, ma quel partito, il Bund, non esiste più, cancellato nelle camere a gas di Auschwitz e Treblinka. Bund è l’acronimo della dizione yiddish di Lega generale dei lavoratori ebrei: fondato a Vilnius alla fine del secolo scorso, un anno prima del Partito socialdemocratico dei lavoratori russi, e contemporaneamente al movimento sionista,
«il Bund è uno strano partito. Parla della rivoluzione e della presa del potere. […] Ma in realtà si occupa di ben altre cose. Getta le basi per costruire una patria e una famiglia: fa di tutto perché gli ebrei si conquistino il diritto di vivere là dove loro e generazioni dei loro avi sono nati: in Russia, in Polonia, in Lituania. E perché possano parlare la lingua che hanno sempre parlato, lo yiddish».
Fu malvisto perciò dai sionisti, che disprezzavano quel dialetto, «un vernacolo snaturato, simbolo dell’impotenza e della vergogna della diaspora»: per loro la risposta ai pogrom era una sola, il ritorno alla Terra Promessa. E fu disprezzato anche dai socialdemocratici russi, che gli contestavano l’aspirazione ad un’autonomia culturale e politica del popolo yiddish. Eppure, a differenza del partito russo, nato come movimento elitario di intellettuali per i quali la teoria precede la prassi, il Bund fu subito partito di massa, che si batteva per cose concrete: non solo la diffusione della cultura yiddish, ma anche l’autodifesa armata contro i pogrom dei cosacchi. Liquidato dai bolscevichi, il Bund rinacque dalle sue ceneri in Polonia alla fine della I guerra mondiale: benché auspicasse l’abolizione del capitalismo, il Bund «era ferocemente contrario all’esperienza sovietica», considerata un colpo di stato militare e non una vera rivoluzione. Fortemente presente nel tessuto sociale delle comunità ebraiche (con cooperative, scuole, colonie, sanatori, biblioteche, circoli teatrali e culturali, squadre di autodifesa), più che un partito fu una famiglia, una “mamma” per i lavoratori ebrei. Perciò quando i nazisti invasero la Polonia il Bund si impose naturalmente come punto di riferimento e di coagulo delle comunità dei ghetti e come il movimento di resistenza armata più organizzato durante la rivolta del ghetto di Varsavia; fu attraverso il Bund che gli Alleati ebbero le prime documentazioni sulla Shoah. Una lotta eroica, che non servì: né gli angloamericani, né i russi, e nemmeno i partigiani polacchi aiutarono la rivolta del ghetto. Così il Bund, coerentemente ai suoi princìpi ispiratori, sparì insieme al suo popolo, tra le case in fiamme del ghetto, nei forni crematori dei lager, durante le epurazioni staliniane. Uno dei pochi combattenti bundisti del ghetto a scampare alla morte con un’avventurosa fuga nelle fogne di Varsavia fu Marek Edelman. Dopo una bella e suggestiva presentazione del Bund da parte di Goldkorn, i restanti quattro quinti del libro consistono nel racconto di Edelman, la descrizione della propria vita di militante del Bund, ed in particolare di come visse e combattè nel ghetto. Una critica: il racconto è chiaramente in forma interlocutoria; chi l’ha intervistato? Non si sa, forse Rudi Assuntino, che a parte la copertina non è citato in nessun punto del libro? Né di lui né di Goldkorn viene fornita la minima informazione: chi sono? Boh. Solo in seguito, casualmente, ho scoperto che Goldkorn è caporedattore del L’Espresso. Nelle parole di Edelman rivivono le figure dei tanti compagni, per lo più morti nei lager o combattendo contro i nazisti: emerge la miseria e la fame di quella gente, ma anche la forte volontà, in quel mondo capovolto, di conservare viva la fiammella della propria dignità umana. Edelman dopo la guerra ha voluto restare in Polonia, per accudire le tombe dei suoi compagni ebrei, ma non si è mai iscritto al partito comunista, il che gli ha procurato vari licenziamenti (è cardiologo) ed anche la prigione; non c’è da stupirsi se un uomo così è diventato uno dei leader di Solidarnosc ed ha portato aiuti umanitari a Sarajevo.
«Si sente in dovere di intervenire, ovunque in Europa avverta l’odore del fascismo e dell’odio per altri esseri umani. Da bravo medico di forte formazione positivista non sopporta discorsi retorici su martirio, eroismo, uomini fuori dal comune. Quando vuole riassumere la sua vita dice: “Credo di essere stato un buon guardiano delle tombe. Lo considera il più grande complimento che possa fare a se stesso”».
Il guardiano. Marek Edelman racconta
a cura di Rudi Assuntino e Wlodek Goldkorn,
Sellerio 1998, pp. 128, € 10,33
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