Il Mignolo di Buddha di Viktor Pelevin, Mondadori Strade Blu, trad. di Katia Renna e Tatiana Olear. Apparentemente due storie contrapposte, delle quali soltanto una può autodefinirsi reale, mentre l’altra deve accettare il ruolo subalterno di sogno. Il poeta Pëtr Pustotà è commissario politico nell’Armata Rossa del 1919. Ma è anche, nella Russia del 1990, degente di un ospedale psichiatrico. Il Pëtr del 1919 vive emozioni intense, incontra personaggi affascinanti, vive un amore contrastato con una splendida fanciulla. Il Pëtr del 1990, il vero sognatore secondo l’esimio dottor Timùr Timùrovic suo psichiatria curante, è ben lontano dal vivere tanto intensamente. Sottoposto a una terapia improvvisata e incoerente, costretto a sedute psicoanalitiche di gruppo che aggravano i suoi sintomi, si pone inquietanti interrogativi sulla sostanza della realtà e della percezione senza riuscire ad approdare ad alcuna conclusione. Pëtr del 1990 ritiene probabile che il suo io «secondario», perfettamente installato nel 1919 (a parte qualche temporanea defaillances degli eventi) sia un frutto della sua mente perturbata, ma, tutto ben considerato, non ne è particolarmente turbato. Anzi. E comunque anche ciò che lo circonda, ciò che per convenzione definiamo «reale», non è meno privo di assurdità e incoerenze. Forse vivere contemporaneamente in due realtà, cercare di sottrarsi alla vita materiale è possibile, anche se forse non è giusto, non è corretto, come gli fa notare a più riprese il dottor Timùr Timùrovic. E comunque questo non preserva Pëtr da continue fratture, da inattese parentesi, da lunghi, ulteriori sogni di dubbia paternità, dei quali lui è semplice spettatore. Grazie agli inconsulti movimenti di Pustotà, Pelevin riesce a rivisitare, esplorare, riassumere (e devastare) il XX secolo russo, procedendo per assonanze e risonanze piuttosto che seguendo le consuete categorie della causalità. Culmine del romanzo il viaggio onirico nel mondo dei morti in compagnia del generale bianco von Jungern, dove Pëtr apprenderà finalmente che la realtà non è altro che un’illusione che, di generazione in generazione, ci educhiamo ad accettare. «L’illusione è l’unico vero lascito». Ma anche questo, in fondo, non lo illumina e non lo pacifica: sognare di sognare che la realtà è un sogno; e poi? Al risveglio immancabile Timùr Timùrovic che cerca di ricondurlo ad accettare il reale. Ovvero che sono reali i film con Arnold Schwarzenegger, la Mafia russa, il modello economico giapponese. Tra un sogno coerente e un reale balordamente assurdo, voi che cosa scegliereste?
Romanzo volubile e delirante, carico di una collezione sregolata e gratuita di riferimenti filmici, storici e letterari infilati nel testo per il puro gusto di sfruttarne gli echi, Il mignolo di Buddha è probabilmente uno dei libri più curiosi, sorprendenti e stimolanti che vi possa capitare di leggere. «Probabilmente» perché in fondo di nulla si può essere certi, al termine del libro. Un po’ come nella vicenda del mignolo di Buddha:
… Buddha, stanco dei difetti del mondo, decise di emendarlo. Con il mignolo andava toccando tutto ciò che voleva distruggere. Finì così per eliminare ogni cosa che lo circondava. Compreso se stesso. Tranne il mignolo…
E se il reale fosse un’imperfezione, una piega non perfettamente stirata nel nulla, il mignolo di Buddha?
Viktor Pelevin, Il mignolo di Buddha
Mondadori Strade blu, 2001, pp. 371, € 14,77, trad. Katia Renna, Tatiana Olear
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