Alla fine è questo tutto ciò che rimane […] cantare all’amatissima una serenata. Nient’altro. Una serenata alle cose. Passato, presente, futuro. Come è stato, com’è, come sarà. Nel futuro e per sempre. La gioia del viandante nel tempo.
Così si chiude uno dei romanzi più significativi pubblicati in Italia nella prima metà del 2007. L’autore, Helmut Krausser, alla sua terza apparizione in italiano (dopo Il falsario – Einaudi e Il grande Bagarozy – Barbera) è giustamente considerato uno degli scrittori più interessanti della narrativa tedesca degli ultimi vent’anni e questo Melodien viene a confermare la sensazione nata dalla lettura dei primi due romanzi finora pubblicati.
Melodien è un libro inconsueto, grandioso nella concezione, nei riferimenti storici e nello sviluppo ma, nel contempo, capace di afferrare e trattenere emozioni, sentimenti e dolori dei molti memorabili personaggi che lo popolano. Non vi è nulla di affrettato o parziale nel lento, potente scorrere delle pagine e nessuno dei registri del romanzo viene trascurato. Si rischia il ridicolo affermando che si tratta di un libro dove appaiono «Arte, amore, passione, religione, sogno, ambizione, meschinità, ossessione, desiderio, terrore, mistero, ferocia, follia e avidità», ma è un rischio che si deve pur correre. Nel momento in cui la produzione di molti autori, soprattutto italiani, è stanca, flebile e autisticamente ripiegata sul proprio «particulare» incontrare un romanzo di tale smisurata ambizione è un’esperienza rara e preziosa.
Protagonista – e filo rosso che congiunge le narrazioni e i personaggi, in movimento dal 1498 al 1666 – è un fotografo dal dubbio talento, Alban Täubner, presentato da Krausser come «sull’orlo del suicidio e in fuga spasmodica dal passato». Spunto iniziale del romanzo una lettera che giunge alla persona sbagliata, ovvero a Täubner invece che al mitosofo Herr Professor Jan-Hendrik Krantz. Da qui l’incontro tra i due e l’occasione per il racconto del professore, alla ricerca ormai da decenni di una serie di spartiti «diabolici», nati dall’ispirazione (o forse dal «commercio con Satana») dell’alchimista fiorentino Castiglio Tropator, «musico, ciarlatano, filosofo, indagatore di misteri, iniziato ai poteri delle Melodie». Fin qui uno spunto e un tema che parrebbero non discostarsi troppo dai tanti thriller «iniziatici» basati su misteri storici più o meno verosimili venuti al seguito de Il codice Da Vinci di Dan Brown.
Sennonché Krausser non è un Dan Brown qualunque. Non soltanto scrive infinitamente meglio (e la qualità della scrittura si può cogliere agevolmente anche attraverso l’ottima traduzione) ma è in grado di dedicare centinaia di pagine drammatiche e appassionanti alle vite di coloro che, nell’Italia del Rinascimento e della Controriforma, dedicheranno la propria vita a inseguire il miraggio degli spartiti di Castiglio. Dalla vita dell’alchimista fiorentino e del suo allievo, Andrea, «grezzo diamante, raffinato cantore, l’origine del mito» si passa così a quella di Carlo Gesualdo, principe e compositore – ma anche monomaniaco sanguinario – nella Napoli del 1566 a quella di Marc’Antonio Pasqualini, «diacono della Cappella Papale, cantante castrato devoto a sinistri culti». Täubner è tuttavia scettico e incline a credere che il povero professore sia soltanto l’ennesimo idiota carico di soldi e invasato da una missione cervellotica e senza speranza. Il confronto/scontro tra Täubner e Kranz e poi tra Täubner e l’accademica Nicole Duvrés, costituisce così il contrappunto ai giorni nostri di una vicenda che si snoda e si articola lungo due secoli fondamentali per l’arte e la musica ma anche per la nascita del mondo moderno. Inutile dire che, nel confronto, le gloriose ossessioni di Castiglio, di Carlo Gesualdo e Pasqualini, rapportate alle piccole ambizioni e alle ridicole fissazioni dei nostri contemporanei, risultano tanto più nobili e grandi. Una conferma, peraltro, della visione perfidamente disincantata dei nostri tempi e delle nostre povere ansie che Krausser ha esibito anche nei romanzi precedenti. Al centro del testo, capace di emergere con luminosa evidenza in molti momenti della narrazione, è il complesso rapporto tra l’umanità e l’arte musicale – ben rappresentato dal mito di Orfeo che ritorna più volte nel corso della narrazione. La musica, inafferrabile eppure familiare, divina e quotidiana, capace di suscitare emozioni, ricordi, desideri, sogni, indurre visioni e persino comportamenti, influenzare decisioni e giudizi: l’unica forma di magia naturale quotidianamente praticabile e praticata. Il sogno dell’alchimista Castiglio di distillarne l’essenza più profonda e farne un formidabile strumento di benefico potere si rivela così una romantica illusione, la folle ebbrezza di chi non riesce a comprendere che la magia della musica è già profondamente parte alle nostra esistenza. Sono probabilmente questi due elementi di malinconico scetticismo – la disillusione verso i nostri tempi e la coscienza dell’impossibilità di piegare la musica ai nostri poteri – a distinguere il romanzo di Krausser da tanti altri apparenti consimili pseudomistico-alchemico-arcani e a farne una lettura davvero preziosa
Helmut Krausser, Melodien
Barbera ed. 2007, pp. 810, € 15,50
trad. G. Giri, L. Bortot
[N.d.R.] Questo articolo è stato pubblicato anche presso il blog Irididiluce di Fiorella Corbi dietro gentile concessione dell’autore.
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