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    Interzona

    Sulle orme di Goethe 4.

    • di Mario Prisco
    • Agosto 13, 2012 a 4:36 pm

    Termina qui il viaggio nella Napoli letteraria condotto da Mario Prisco.
    Un viaggio godibile, a tratti appassionante e sempre molto lontano dalla spessa coltre di stereotipi che circondano la città, i suoi abitanti, la sua cultura.
    Da amanti di Napoli e della sua storia siamo particolarmente felici di aver ospitato nelle pagine di LN il lavoro di Prisco e, meglio dirlo subito, ci auguriamo di poter ospitare in futuro altri suoi interventi.

    Viaggio nella Napoli letteraria in compagnia di

    Mario Prisco

    Nel gruppo degli illustri viaggiatori che tra la fine dell’Ottocento e il secolo successivo sono giunti a Napoli, uno spazio assolutamente particolare occupano gli scrittori spagnoli e ispano-americani. La loro presenza nel periodo preso in esame è stata non solo foltissima, a tal punto da costringerci a omettere per motivi di spazio molte testimonianze degne di un’altrettanta attenzione, ma indicativa anche dal punto di vista qualitativo. La continuità con la quale essi hanno nel tempo frequentato la città e principalmente il costante tentativo di confrontare la loro cultura con quella napoletana, hanno fatto in modo da fornire spunti di riflessione di sicura rilevanza. Del resto la matrice «spagnoleggiante» presente a Napoli è individuabile nel lascito linguistico (sono numerose le parole di derivazione spagnola nel dialetto napoletano), nell’approccio esistenziale della popolazione ai temi della vita e della morte, oltre che nella diretta influenza culturale rilevabile nei tratti architettonici, artistici, talvolta anche letterari.

     

    Benito Pérez Galdós

    È da questa contiguità tra le due culture che parte la riflessione di Benito Pérez Galdós quando, nel 1888, si reca in visita a Napoli.

    Napoli, afferma, «ostenta in tutti i suoi monumenti, nelle sue strade, piazze e fontane le vestigia della dominazione spagnola. Quanti edifici notabili vi sono in quella grande e ridente città, sono opera dei viceré[1].»
    Nella conformazione della città, nei suoi palazzi e anche nella immensa folla che c’è per le strade, lo scrittore spagnolo nota una somiglianza marcata con Malaga, Siviglia, Madrid. Poi, come accadrà troppo spesso ai numerosi visitatori stranieri, la sua analisi sfocia nel luogo comune, allorché in una inutile generalizzazione afferma:

     

    i napoletani, come i nostri andalusi, sono i grandi filosofi dell’epoca presente; prendono la vita con calma, vivono senza preoccupazioni né pene, pensano poco al giorno dopo e mettono in pratica quella sentenza del Vangelo che dice: “Non ti preoccupare del domani, ché a ciascun giorno basta il proprio affanno”. Sono allegri, affabili, ospitali, comunicativi, chiacchieroni e sembrano soddisfatti di essere nati in quella terra amena, al centro del più bel paese dove la vita è facile e non è cara, si lavora poco[2].

     

    Il luogo comune si conclude con la contrapposizione favolistica del napoletano povero e contento con l’inglese ricco e triste e con la convinzione che a Napoli «si vive senza sforzo». L’immagine ammaliante prende poi il sopravvento e sembra allora di leggere i resoconti di viaggio dell’epoca del Grand Tour. «L’azzurro del golfo – scrive Galdós – supera in diafanità e bellezza, è giusto dirlo, le più sgargianti gradazioni che ammiriamo nelle bandiere. Le isole che decorano questo paesaggio (Ischia e Procida alla destra, Capri alla sinistra) si stagliano sull’azzurro del mare e del cielo con profili così eleganti che la natura pare voler mostrarsi e dichiararsi artista[3].»
    L’incanto della natura finisce, però, per contraddire la valutazione socio-economica dapprima accennata. Lo scrittore, infatti, vede una città dove la popolazione è attiva e dove

     

    il tanto decantato tipo di lazzarone ormai non esiste, o almeno si è corretto, poiché sebbene vivano a Napoli, come in ogni città dell’Europa meridionale, molti vagabondi, questi non ostentano la loro cinica, indolenza, né costituiscono un tipo locale che caratterizza le masse popolari[4].

     

    A suo avviso con l’Unità, Napoli aveva avviato un ampio processo di industrializzazione e di crescita economica che aveva migliorato profondamente le condizioni di vita della popolazione. Successivamente, l’immagine goethiana sembra riproporsi anche nella descrizione di Galdós, allorché lo scrittore spagnolo afferma: «Napoli è il paese dove si sentono più grida della strada, dove la via pubblica è più ostruita da venditori strilloni, dove si vedono più colori vivaci e dove la classe media vive più in contatto con il popolo[5].»

    Rubén Darío

    Anche lo scrittore nicaraguese Rubén Darío[6] nel 1900, in occasione di un suo viaggio in Italia, visitò città importanti come Torino, Genova, Pisa, Venezia, Firenze, Roma e non mancò di arrivare a Napoli che, sin dai tempi del Grand tour aveva segnato il limes meridionale per la maggioranza dei viaggiatori stranieri.

    Lo scrittore rimane folgorato dal paesaggio napoletano e si domanda:

     

    perché pensare alle delizie di una gloria il cui prezzo è la dedizione e il martirio, quando ci giungono le brezze profumate di Miseno, di Cuma, di Baia cara a Nerone, di Procida e di Ischia? Forse che il cielo che promette il Crocifisso, sarà più azzurro del cielo del Sud[7]?

     

    Nel dicembre del 1916 giunse in Italia anche lo scrittore uruguayano José Enrique Rodó con l’intento di scrivere una serie di articoli per conto della rivista argentina «Caras y caretas». Il viaggio dell’autore di Ariel, al di là della sua importanza culturale, assumerà un significato particolare giacché lo scrittore morirà nel periodo di soggiorno trascorso nella successiva tappa di Palermo.
    Rodó si fermò a Napoli raccogliendo impressioni senza dubbio ben diverse da quelle che rientrano nell’iconografia classica della città. Al di là della chiara influenza architettonica spagnola, lo scrittore rimane colpito dalla modernità della città. «Gli stimoli dell’emulazione e dell’energia – egli scrive – rompono la crosta secolare dell’oziosità, della sciatteria e della miseria[8].» Ciò che desta in particolare la sua attenzione è l’acquedotto cittadino che a suo avviso fa onore all’antica Roma. Ma non solo: laddove si aspettava di trovare ancora un vecchio e malsano quartiere ora vede una «superba Galleria» considerata «uno dei maggiori sforzi edilizi dell’Italia moderna». Inoltre, anticipando in qualche modo un’immagine che assumerà una sua sostanza nella Napoli descritta da Carlo Bernari negli anni Trenta, Rodó vede una città che si avvia a intraprendere un suo sviluppo industriale con il fumo delle fabbriche che si mescola con quello del Vesuvio. «La malia sfibrante di Partenope – annota con l’abilità del grande scrittore – sarà ancora una volta vinta dall’astuzia di Ulisse, che prolifica nel sangue greco che scorre nelle vene di Napoli. Una metropoli industriale, attiva e potente, si va delineando per un futuro ormai prossimo in questo luogo dove imperò il dolce far niente9.» Anche se subito dopo lo scrittore con estrema obiettività e tralasciando l’emozione positiva appena percepita, non può far a meno di notare quanto questa immagine attiva contrasti con l’abbandono e la sporcizia notata in molte strade della città.

    Vicente Blasco Ibañez

    A Napoli, ambienta parte delle vicende del suo Mare Nostrumanche lo scrittore spagnolo Vicente Blasco Ibañez. Tradotto, in italiano, nel 1921 il romanzo ha come protagonista il capitano Ulisse Ferragut che giunge nel porto di Napoli per consegnare della merce proveniente dall’America del Sud quando ormai in Europa è scoppiato il primo conflitto mondiale e si attende da un momento all’altro l’entrata in guerra dell’Italia. Una collisione all’ingresso del porto ha costretto il capitano a una tappa forzata di un mese. Egli aveva visto Napoli diciassette anni prima, quando ancora ventiduenne, era pilota di un veliero catalano. Ma era stata una visita lampo che non gli aveva lasciato alcun ricordo. Ora, invece, le circostanze lo costringevano ad approfondire la conoscenza della città. L’impatto non è dei più felici.

     

    Napoli non gli pareva una gran cosa, paragonata con le altre celebri città italiane. La sua vera bellezza era il golfo immenso, fra colline di aranci e di pini, con una seconda cornice di montagne, una delle quali innalzava nell’azzurro il suo eterno cimiero di vapori vulcanici[10].

     

    Poi qualcosa cambia. L’immersione nei vicoli affollati e chiassosi della città, nella quale il capitano non trova più i lazzaroni scalzi dal berretto rosso, ma un popolo simile a quello di tutti i quartieri che circondano i porti, e l’attrazione profonda che Ulisse prova per Freya sembrano riconciliarlo con la città e la sua incontaminata bellezza.

     

    Il golfo andava prendendo un colore roseo, come se crescessero nelle sue viscere, sotto i raggi obliqui del sole, immensi boschi di corallo. L’azzurro del cielo divenne pure roseo e le montagne si accesero al riflesso dell’astro agonizzante. Il pennacchio del Vesuvio era meno bianco che nelle ore del mattino. La sua colonna nebulosa, striata di rossastro dalla luce moribonda, pareva riflettere il suo fuoco interno[11].

     

    Con Freya cammina a lungo per la città. Dal centro, prendendo la funicolare del Vomero, giungono

     

    fino alle alture coronate del castello di Sant’Elmo e all’abbazia di San Martino. Entrarono in una trattoria all’aperto, su di una spianata, dalle cui balaustre si godeva lo spettacolo indimenticabile del golfo: oltre il Vesuvio si scorgeva all’orizzonte la catena delle montagne, come un’onda immobile di un forte color rosa. Napoli si estendeva a ferro di cavallo lungo il mare, espellendo dalla sua enorme massa bianca, come se fossero anelli di spuma, i suoi sobborghi[12].

     

    Napoli diviene all’improvviso per i due appassionati amanti il luogo dove voler vivere e morire insieme. Ulisse con la sua florida immaginazione intravede «le delizie di una vita in due, vita d’amore e di mistero, in uno di quei villini con giardino che si affacciano sul mare dal declivio di Posillipo[13].»
    Questo paesaggio, fa dire al suo personaggio femminile l’autore spagnolo, ricalcando in parte l’oleografia classica, «non è favorevole alla solitudine», giacché «è per l’amore», costringe coloro che si amano a invecchiare lentamente «davanti all’eterna bellezza del golfo[14]!»

    Ramón Gómez de la Serna

    La storia tragica della città, per lo scrittore spagnolo Ramón Gómez de la Serna, ha plasmato il carattere del popolo napoletano, che nonostante le pessime condizioni di vita, riesce a guardare con ottimismo e fiducia all’esistenza sia presente che futura. Forse perché, egli commenta,

     

    le pesti antiche danno più vita alla vita, essa urge. Ricordando l’antico flagello si approfitta della vita, la si esalta. Un’oscura minaccia aleggia sui giorni. Per quanto tutti fingano indifferenza, tutti sono consapevoli. Perciò acque di compassione si sentono scorrere lungo le strade. Questo popolo era tanto genuino da aspettare continuamente la catastrofe; il mare, il terremoto, la nuvola spessa, il colera, in nessun altro luogo si è tanto preparati alla dimora dei morti. Perciò ognuno accende il suo lume dinnanzi all’effige dei Santi: vogliono essere pronti[15].

     

    Quindi, in netto anticipo rispetto ai tempi, egli mette da parte tutto quanto possa ricondurre all’immagine folclorica della città, per concentrare la sua attenzione sulle problematiche reali e più inquietanti della città. Gómez de la Serna sembra trovare in Napoli motivi di identificazione profondi, con i propri sogni e anche con i propri turbamenti interiori. Non a caso, come sostiene Teresa Cirillo, i materiali preparatori su cui lo scrittore costruirà la Mujer de ámbar si ritrovano anche in alcune pagine del libro autobiografico Automoribundia[16]. Qui, infatti, l’autore sempre partendo dall’assenza di ogni atteggiamento pregiudiziale, cerca di trasmettere le sue impressioni sulla città passando attraverso il filtro della propria sensibilità.

    Pablo Neruda

    Nel 1952 anche il grande poeta cileno Pablo Neruda, nel suo giro per l’Italia costretto all’esilio dal regime dittatoriale di González Videla[17], giunge a Napoli. La sua brevissima esperienza napoletana non fu, però, particolarmente felice. Qui, infatti, egli fu fermato dalle forze di polizia che, pur con molto rispetto e cordialità, notificarono il decreto di espulsione richiesto dall’ambasciata cilena. Il poeta, pertanto, rimase pochissime ore in città, prima di essere riaccompagnato a Roma, dove fu liberato grazie a una manifestazione indetta da scrittori, intellettuali, deputati e gente comune. Racconta Neruda:

     

    Mi svegliai il giorno dopo in casa di un senatore con immunità parlamentare, dove mi aveva portato il pittore Renato Guttuso, che ancora non si fidava della parola del governo. Lì mi giunse un telegramma dall’isola di Capri. Era firmato dall’illustre storico Erwin Cerio, che io non conoscevo personalmente. Esprimeva la sua indignazione per quello che considerava un oltraggio, un insulto alla tradizione e alla cultura italiana. Concludeva offrendomi una villa, nella stessa Capri, perché io vi abitassi[18].

     

    A Capri Neruda vivrà momenti bellissimi e finirà di scrivere quello che egli stesso definisce «un libro d’amore appassionato e doloroso» intitolato Los versos del capitán.

    Gabriela Mistral

    Nel 1952, in qualità di Console onorario, giunse a Napoli Gabriela Mistral che, nel 1945, era stata insignita del prestigioso Premio Nobel per la letteratura19. Rimanendo a Napoli per circa un anno, alla poetessa ispano-americana risultò naturale annotare le sue impressioni sulla città e principalmente sul golfo[20].

    Espressione viva del mare sono per lei i marinai, osservati nella loro quotidianità.

     

    Vivo di fronte al Castello di Barbarossa, sul mare. Odo l’altra risacca rumorosa, le grida dei marinai e li guardo andare e venire, discutendo o cantando. Fanno un rumore di risacca. Hanno onde dentro, il vino del mare. […] Scuri, piccoli, epicamente sporchi, con gli occhi furbi […] felici. Mangiano quattro pesciolini profumati immersi nel loro buon olio; bevono Capri o Falerno; baciano, vanno a pesca, tornano ancora più vivaci del mare, che li eccita come sangue e tornano a baciare […] come baciarono i loro antenati, come i greci sensuali da cui discendono. Sobri per miseria, per miseria anche cinici ma pieni di simpatia, come scoiattoli tropicali. La loro classica sporcizia è tanto grande che non irrita più, diverte. Bestemmiano. Come bestemmiano questi marinai! Accolgono tra maledizioni e grida di albatros le barche che arrivano. […] Gli inglesi li guardano un istante con terrore; poi scoppiano a ridere[21].

     

    Nel suo romanzo intitolato I fuochi di Sant’Elmo, pubblicato nel 1964, anche lo scrittore uruguayano José Pedro Díaz ha l’occasione di parlare di Napoli. Nel suo viaggio, verso Marina di Camerota, luogo di nascita della madre, intrapreso alla scoperta delle radici della propria cultura, lo scrittore soggiorna nel capoluogo campano, avvicinandosi a esso in maniera inconsueta, utilizzando, cioè, i versi del poeta francese, da lui particolarmente amato, Gerard de Nerval, il quale giunto a Napoli esclamò: «Posillipo altero, di mille fuochi brillanti.» È tale l’immedesimazione con Nerval che Díaz confonde le parole del poeta con quanto sente dentro se stesso. Percependo il richiamo di Nerval, «restituiscimi Posillipo e il mare d’Italia», lo scrittore uruguayano vede apparire «immagini antiche e possenti. I sogni degli uomini depositarono su questa terra un così nutrito patrimonio di ricordi che la resero porosa, materna e penetrabile. I passi che la fendono non alzano solo la polvere delle strade e il più intenso vapore solforoso delle Solfatare, ma alzano ed agitano anche nuvole di sogni e miti che avvolgono il viaggiatore, lo proteggono e lo carpiscono[22].»

     

    Lo scrittore peruviano Manuel Scorza, invece, esprime delle severe perplessità sulla città, in un suo intervento dal titolo «Por aqui non pasó Copérnico». Egli è consapevole della difficoltà dell’argomento Napoli e del pericolo di ferire con troppo categorici giudizi la città. Napoli, afferma lo scrittore latino-americano, «è un ammalato che non si lascia curare né accetta la “diagnosi” di medici stranieri; e che, quando non ha medici suoi, preferisce chiudersi, e a ragione, nel proprio orgoglio[23].

    Certo l’evento sismico verificatosi da poco dà a Scorza la sensazione di essere in una città semidistrutta, ma poi parlando con la gente dei vecchi e centralissimi quartieri spagnoli, egli ha la dimensione che i problemi di Napoli siano cominciati molto prima del terremoto del 1980. Esso «all’improvviso, in maniera tragica e semplice, ha aperto l’armadio in cui questo morto si celava: e il cadavere è caduto bocconi sullo spavento, o sconcerto o l’indifferenza dell’Italia di oggi[24].»
    A colpire lo scrittore peruviano è la contrapposizione delle situazioni che gli si presentano di fronte: ora grandi e sofisticati alberghi, più avanti infernali tuguri situati a pochi metri da una strada importante. Le immagini questa volta reali lo portano a penetrare nelle vene aperte della città, nei vicoli ammassati di gente che condividono spazi ridottissimi in condizioni igieniche intollerabili. Ma ciò che turba fino all’inverosimile Scorza è la diffusa sensazione che per una parte della città la storia non è andata avanti; per questi uomini, egli afferma, «Copernico non è esistito» e la «terra continua a essere disperatamente piatta[25].»

    Di particolare interesse sono anche le impressione del catalano Josep Piera che, nel momento in cui giunge a Napoli ha l’impressione di trovarsi in una città «molto sgradevole, sporca, lacerata, fantasmagorica[26].»
    Piera ripercorre attraverso i monumenti e le tracce disseminate qua e là la grandiosità del passato, sente riecheggiare il racconto mitico che ne fece Goethe e confrontando tutto questo con il presente determina che «tra la Napoli del Settecento e quella di oggi ci sono abissi di oblii, di guerre, di distruzioni. La vita di un tempo è oggi un cadavere in piena decomposizione. O così pare quotidianamente, mentre si cammina per le strade. Sì, Napoli è questo: un prezioso cadavere pieno di vermi umani che si moltiplicano quanto più avanza la corruzione della morte. Un bellissimo cadavere barocco[27].»
    Piera si domanda se Napoli non sia una sorta di storia errante, che sopravvive sulla sua immagine passata senza riuscire a vivere il presente, né a impostare il futuro. Bellezza, armonia, allegria sembrano essersi persi o lasciati in un cantuccio, tra le pietre dei suoi monumenti o nell’incanto sfumato del Golfo. Afferma Piera,

    Io non so se Napoli sia bella. Quello che è certo è che mi sembra allucinata, rumorosa, forte, dura. E ha suscitato in me una relazione di amore-odio, di attrazione-repulsione, di pena-rabbia, che mi affascina e mi lega con passione. E’ quasi come se io stessi assistendo quotidianamente a questa favola risaputa, ma ogni giorno, nonostante sia sempre la stessa, vi scoprissi tratti caratteristici, escrescenze, piaceri. Non è la bellezza, è la vita[28].

    Josep Piera

    Le considerazioni di Piera sono pertinenti, attente, proprie di chi nella città ha trascorso un periodo della sua vita cercando di comprenderla fino in fondo, al di là dell’istintiva repulsione o attrazione che può inizialmente stimolare. I commenti o meglio le gravi perplessità sollevate dallo scrittore catalano sulla struttura sociale della città sono ben formulate e sembrano muoversi nel solco dei più attenti studi compiuti sulla realtà partenopea. L’assenza di una vera ed efficace borghesia è uno dei temi affrontati con estremo acume da Piera. A volte, egli scrive, ho l’impressione «che qui il potere sia passato dalla monarchia alla camorra29.» Napoli, a suo avviso, continua a essere considerata dai suoi abitanti o un luogo dal quale fuggire o dove continuare a ripetere inutilmente la recita quotidiana. Manca in pratica nella città ogni accenno di progettualità che possa gettare le basi per un futuro possibile.

    Mentre il popolino trasforma la sua miseria in teleromanzi melodrammatici o in canzoni sentimentali, e mentre la piccola borghesia si lamenta con masochismo estetizzante o frustrazione arrabbiata della sua impotenza, incapace di cambiare qualsiasi cosa, gli intellettuali e i giovani scappano verso il nord, senza fregarsene troppo di Napoli. Questo mi fa pensare che i napoletani non hanno una coscienza collettiva che vada al di là della famiglia e del sogno nostalgico di una gioia perduta. Per loro, individualisti come sono, Napoli è la grande casa, non una città o un paese, Napoli è una città vissuta come una casa propria, lo spazio dei giochi o dei ricordi infantili, un punto d’incontro per l’amore o gli affari. Per questo le strade non sono di tutti, ma di nessuno[30].

    Note:

    1B. Pérez Galdós, Le città italiane, a cura di V. Cardone, Alfredo Guida Editore, Napoli 1993, p. 111
    2Ibidem, pp. 112-113
    3Ibidem, p. 115
    4Ibidem, p. 116
    5Ibidem, p.119
    6Protagonista dell’importante movimento modernista, che avrà nelle sue fila numerosi autori ispanoamericani Rubén Darío, pseudonimo di Félix Rubén García Sarmiento, era nato a Metapa, nel Nicaragua nel 1867.
    7R. Darío, Diario d’Italia, a cura di T. Cirillo, Alfredo Guida Editore, Napoli 1994, p. 118
    8J. E. Rodó, Sulla strada di Paros, a cura di R.M. Grillo, Oèdipus, Salerno 2001, p. 87
    9Idem
    10V. Blasco Ibañez, Mare Nostrum, trad. G. Beccari, Luigi Battistelli Editore, Firenze 1921, pp. 89-90
    11Ibidem, p. 151
    12Ibidem, pp. 140-141
    13Ibidem, p. 151
    14Ibidem, pp. 152-153
    15R. Gómez de la Serna, La mujer de ambar, Madrid 1927, tradotto e riportato da F. Ramondino e A. F. Müller, Dadapolis, Einaudi, Torino 1989, p. 196
    16Cfr. T. Cirillo, «Napoli Averno celestiale», in E. Candela (a cura di), Letteratura e cultura a Napoli tra Otto e Novecento, Atti del Convegno di Napoli 28 novembre – 1°dicembre 2001, Liguori, Napoli 2003
    17Ricordiamo che il dittatore cileno è un omonimo dell’altro sanguinario dittatore Gen. Jorge Rafael Videla al potere in Argentina dal 1976 al 1983.
    18P. Neruda, Confesso che ho vissuto, Mondadori, Milano 1976, p. 266
    19Gabriela Mistral, pseudonimo di Lucila Godoy Alcayaga, nacque a Vicuña, cittadina del Cile settentrionale nel 1889 e fu il primo scrittore sudamericano a essere premiato dall’Accademia svedese.
    20Nel 2003, in occasione della ristrutturazione del Parco Virgiliano di Posillipo, su iniziativa del Governo cileno e del Comune di Napoli, è stata affissa una targa, su cui viene riportato un breve brano tratto da Italia visitata, che così recita: «Golfo di Napoli, vasta dolcezza! Non vi è acqua più viva. Un fremito irrequieto di mille palpebre d’oro. Di piccole onde circolari. Un mareggiar pacato, graziosamente gioioso.»
    21G. Mistral, Italia caminada, Edición del Istituto italiano di cultura in Cile, Im. Gutemberg, Talca, Chile 1989, p. 106 (la traduzione a nostra cura).
    22J. P. Díaz, I fuochi di Sant’Elmo, a cura di R. M. Grillo, Galzerano Editore, Salerno 1997, pp. 64-65
    23F. Ramondino e A.F. Müller, op. cit., p. 371
    24Ibidem, p. 372
    25Ibidem p. 374
    26J. Piera, Un bellissimo cadavere barocco, trad. D. Siviero, Tullio Pironti editore, Napoli 1990, p. 12
    27Ibidem, p. 47
    28Ibidem, p. 100
    29Ibidem, p. 119
    30Ibidem, p. 161

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