John Ajvade Lindqvist
Lasciami entrare
Marsilio
€ 17,50
trad. G. Puleo
di Franco Pezzini
[Mentre impazza su grande schermo l’americanissimo Twilight dalla saga di Stephenie Meyer, all’inizio di questo gennaio ’09 è approdata nelle sale nostrane una ben diversa lettura del binomio adolescenza/succhiasangue, lo svedese Lasciami entrare dall’omonimo romanzo di John Ajvide Lindqvist. Diretto con mano ferma da Tomas Alfredson, Låt den rätte komma in (2008) rappresenta una trasposizione molto riuscita e fedele del testo-fonte, pur con l’ovvia autonomia di linguaggio del mezzo cinematografico.Il romanzo, uscito in Italia per i tipi Marsilio alla fine del 2006, è stato all’epoca presentato dall’Autore a Torino, agli incontri di Atrium, con l’introduzione di Luca Scarlini e un intervento di chi scrive – che qui si propone nella versione apparsa su LN LibriNuovi n. 40 (inverno 2006). F.P.]
“Non si sente parlare che di vampiri”. Questo non è il commento di un osservatore del mercato editoriale contemporaneo a fronte del successo di una delle più potenti maschere dei miti postmoderni: una potenza simbolica di cui è senz’altro prova il bel libro di John Ajvide Lindqvist appena apparso in Italia, a (ennesima) conferma di quanto una fantasia spesso frettolosamente etichettata come “di genere” possa in realtà parlare il linguaggio della buona letteratura, provocare nel senso più ricco e più onesto. E allora il parlare di vampiri, lungi dal consumarsi in facezie nere più o meno pruriginose, si svela un affrontare i meccanismi divoranti e appunto vampirici della società e di noi stessi: non l’Halloween delle facili mascherate, ma lo scavo nelle necrosi inconfessate che ci portiamo addosso, nelle fragilità e nell’inconcludenza degli esorcismi con cui presumiamo di affrontare i nostri mali interiori, nella risacca di rifrazioni e contagi in cui giochiamo il rapporto con la società.
Lindqvist è un narratore a tutto tondo e il testo, pur nell’estrema originalità, è insieme profondamente classico, per fonti e tessuto narrativo. Anzitutto, certo, nello spessore delle letture a monte: vi troviamo gli echi della grande letteratura (a partire dall’amore per Dante, spesso richiamato), e di tutta una cultura classica in raffinata filigrana. Si pensi al cenno quasi in codice alla storia d’amore di Piramo e Tisbe, peraltro opportunamente rifratta nelle scene di dialoghi attraverso i muri e appuntamenti in segreto – ma in questo caso Tisbe è una gatta. Classico, poi, nel senso di un ideale raccordo con una genuina tradizione di (proto)vampiri scandinavi, folklorica e di robusta dignità letteraria attraverso le saghe; ma anche, e in termini di non minore suggestione, nel gioco di richiami e contrapposizioni al vampiro della letteratura – sul piano della narrazione, dei rapporti in gioco – e di cinema e fumetti – quello che i personaggi conoscono e riconoscono. Se infatti la vampiretta Eli, innamorata e fragile, si rifà a tutta una stirpe di eleganti succhiasangue letterarie, è dalla vulgata dei comics che il quasi-tredicenne protagonista Oskar riesce a identificarla – in particolare attraverso la caratteristica, evocata dal titolo, di non poter entrare in una casa se non espressamente invitata. E anzi, tra la grottesca confusione delle istituzioni, a riconoscere il vampiro sono anzitutto i marginali e i prostrati dalla vita, da un ragazzino pieno di problemi che divora fumetti all’improvvisato, tragico cacciamostri alcolizzato.
“Non si sente parlare che di vampiri”: in realtà a scrivere queste parole è un testimone eccellente di qualche secolo fa, Voltaire, a fronte del successo di tali equivoci personaggi, coi lettori di gazzette che si strappavano dalle mani le notizie sui loro presunti crimini in remote Ungherie, e tipografie che a pieno ritmo sfornavano in tutta Europa eruditissime monografie. Fin dagli albori del mondo moderno il rapporto tra vampiri e comunicazione di massa appare in effetti strettissimo; eppure Voltaire e i suoi contemporanei non potevano sospettare che di lì a pochi decenni questi disinvolti borderline dell’esistenza – ma anche della cultura, a cavallo tra l’alta e la più bassa – avrebbero colonizzato in modo sempre più pervasivo l’immaginario occidentale. Basti scorrere poche date emblematiche: nel 1819, a distanza di pochi mesi, escono [I]Lamia[/I] di Keats, in cui precipita il filone delle similvampire classiche, e Il vampiro di Polidori, il primo testo in prosa moderno sull’argomento, e frutto di quella leggendaria vacanza di tre anni prima a Villa Diodati che consacra idealmente il fantastico che conosciamo; nel 1836, in La morte amoureuse, Théophile Gautier salda compiutamente le due tradizioni classicheggiante e gotica trascrivendo Lamia in chiave vampiresca; tra il dicembre 1871 e marzo 1872 compare Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu (sulla rivista «The Dark Blue», con riedizione nella raccolta In a Glass Darkly, sempre 1872), portando sulla scena la più famosa delle antenate di Eli. In effetti le vampire letterarie dall’Ottocento in avanti – ma diciamo pure del mito moderno e postmoderno – traggono tanto da uno status folklorico ben determinato (in quanto femmine della species vampiro) quanto da un mito sul femminile allarmante e seduttorio che è invece pluriforme, ambiguo, spiazzante – e non risponde alla separazione buono / cattivo delle vecchie teratomachie, evidenziando un’ambiguità che è forse la più espressiva caratteristica del fantastico moderno.
Su tale aspetto val la pena soffermarsi. Certo il vampiro è icona dell’indecidibile (tra vita e morte, fisicità corporea e facoltà fantasmatiche di apparire e sparire, umanità e ferinità, fascino e disgusto – ma anche tra poli e ruoli sessuali predefiniti), però uno dei suoi più curiosi paradossi sta proprio nel fatto di costituire oggetto di una consolidata tipizzazione. Il fantastico popolare è fortemente tipizzante, e nello specifico riconosce vari modelli (almeno tendenziali) di vampira: c’è per esempio quella che promana direttamente dal folklore e potremmo definire la vampira bestia, una macchina di morte dalle aggressioni brutali, senza spessore psicologico; c’è la vampira regina, cioè la versione sovrannaturale delle vamp e dark ladies di tutta una mitologia erotica popolare, autoritaria e fatale sciupamaschi (o qualche volta sciupafemmine); e c’è la vampira schiava, in genere senza nome, a far da tappezzeria sullo sfondo delle gesta di un vampiro maschio tenebroso e seduttore, in una versione banalizzata delle tre “spose” del Dracula stokeriano. Eppure c’è un altro modello, decisamente più interessante per complessità e originalità, ed è quella che potremmo definire la vampira amante: una figura cioè che si presenta come giovane e fragile, sola contro un destino penoso, e capace di forme di genuina passione – modulata, a seconda dei casi, dall’amore vero e proprio a un innamoramento dagli esiti mortiferi ma non meno trascinante. Nella genesi letteraria di questo sottogruppo entrano (a monte) la diavoletta innamorata di Cazotte e la Lamia keatsiana, per poi venire alla morta innamorata Clarimonde di Gautier e a Carmilla – e da questa radice si svilupperanno molte vampire dell’immaginario postmoderno, fragili e coraggiose, frustrate e tenaci, animate spesso da buoni sentimenti in una rifrazione sempre più malandrina col pubblico. E a questa radice, appunto, si richiama la vampiretta Eli di Lasciami entrare, il cui rapporto col protagonista delinea una delicata, straordinaria storia d’amicizia e (in qualche modo) d’amore – come possono esserlo quelle tra ragazzi, pudiche e tenerissime, capaci di grandi gesti e di donazioni infinite.
Ma attenzione alle tassonomie: Eli non si riconosce come “vampira”, e questo è interessante. Il cacciatore di vampire – lungo tutta una tradizione letteraria che risale almeno a Lamia e al suo terribile Apollonio – distrugge l’avversaria anzitutto derubricandola a nome comune di specie (il vampiro, la lamia), non riconoscendole cioè dignità di persona, con propria unicità e identità. Dracula è riconosciuto nel suo nome, nella sua individualità dal nemico Van Helsing che in qualche modo lo ammira; le vampire, mai. Lamia svanisce quando Apollonio le rifiuta il suo particulare, la precipita in una categoria astratta (in quel caso il serpente). In Lasciami entrare Eli non si riconosce nella categoria astratta “vampiro”, ma neanche il narratore la rinchiude in quella categoria che tutti presumiamo di conoscere – su cui ci pare nulla resti da scoprire, e attraverso la quale rendiamo impossibile la sorpresa e l’unicità di un incontro personale. Del vampiro delle tassonomie popolari Eli condivide alcune caratteristiche ma non tutte, e non necessariamente le più importanti. E anzi vedremo, procedendo nella lettura, come tale irriducibilità riguardi anche altre dimensioni d’identità, il nome stesso di Eli (quello di Dio, osserva perplesso un personaggio) e la sfera sessuale.
E con Eli il protagonista Oskar imbastisce un rapporto insieme di relazione e di rifrazione. Oskar è un ragazzino un po’ sovrappeso, ostaggio di una situazione familiare oppressiva, di fenomeni feroci di bullismo e di poca autostima, con una buona quantità di violenza repressa. Entrambi rubano (Oskar oggetti, Eli sangue) per affermare qualche sopravvivenza e identità; entrambi custodiscono un cuore aperto a sentimenti elevati. In qualche modo Eli è una proiezione del desiderio di Oskar, un suo doppio capace di aprire gli orizzonti del desiderio, di permettere al ragazzino di scandagliare le proprie profondità e di volare lontano – in sostanza, di crescere; un riconoscersi come in uno specchio – uno specchio forse oscuro (in a glass darkly, direbbe Le Fanu) ma necessario per ritrovare definizione dall’esterno e salvarsi. Ciò che in ultima istanza non tranquillizza o pacifica a buon prezzo: e la scena finale potrebbe ovviamente intendersi nella chiave metaforica di un’acquisita autonomia.
L’Autore mostra una profonda solidarietà con ciascuno dei suoi personaggi, anche i più degradati, e pare trarre da ciascuno tutto il bene possibile – ma senza tacerne il male. E avverte che il peggiore contagio, realmente vampirico, è quello di un mondo finto, con un buonismo religioso che mal nasconde la propria violenza (si pensi allo sgradevole poliziotto Staffan), una cultura che non cambia la vita (le persone più colte sono un assassino e un alcolizzato) e una comunità senza storia, e che anzi la rifiuta nel più superficiale lasciarsi vivere: “un’enorme malattia”, come intuito a un certo punto, tragicamente, dall’ubriacone Lacke. E questa terra aperta al contagio, e in cui precipita ogni possibile Transilvania del gotico, non può che sfidarci – come, ancora, da uno specchio oscuro – a verificare i connotati della nostra terra e della nostra società.
John Ajvide Lindqvist, Lasciami entrare (tit. originale: Låt den rätte komma in, 2004), trad. dallo svedese di Giorgio Puleo, Marsilio (collana: Farfalle – I gialli), Venezia 2006, pagg. 461 (più due non numerate), euro 17,50