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    Interzona · In primo piano

    L’anno scorso a Cartagena

    • di Franco Pezzini
    • Maggio 1, 2013 a 6:16 pm

    Cartagena
    Per chi sia nato come il sottoscritto agli inizi degli anni Sessanta, le storie di pirati hanno rappresentato un’importante dimensione dell’immaginario. Se solo più avanti in età avrei letto con delizia Salgari (a casa mia si guardava all’altra scuola, quella di Verne), pirati e corsari dilagavano su quel piccolo schermo che nutriva le nostre fantasie.
    C’era per esempio la serie di telefilm avventurosi Francis Drake, che romanzava le gesta del più famoso campione della corsa sui mari di età elisabettiana; c’era l’indimenticato sceneggiato musicale scritto da Vittorio Metz e diretto da Alda Grimaldi, Giovanna la nonna del Corsaro nero, 1961, con nuove serie 1962 e 1966, di cui purtroppo la Rai distruggerà le registrazioni; e c’era l’altro in otto puntate La filibusta, 1969, che sempre con toni da commedia musicale rivisitava la storia del mondo piratesco centroamericano. Regia di Beppe Recchia, e soggetto di Tinin Mantegazza: in una locanda della Tortuga riemergeva – letteralmente – da una bottiglia di acquavite un pirata, Giacinto Acquaragia detto Polveriera (Donatello Falchi?), confinatovi secoli prima dal sortilegio di uno stregone caraibico. I suoi ricordi spingevano l’oste Poldo (Elio Crovetto) e i clienti a rievocare con lui l’età d’oro della filibusta: e ogni puntata era dedicata a un grande capitano, di cui si ricostruiva la vita con periodiche interruzioni per buffi sketch alla locanda. A volte erano gli stessi interpreti dei clienti a offrire anche volti ai pirati – per esempio un erudito professore figurava anche come Henry Morgan; e al programma partecipavano esponenti notissimi del mondo della canzone d’epoca ma soprattutto del cabaret “di livello”, come Gianni Magni – che interpretava sia l’Olonese che Roc Brasiliano – e forse il poliedrico Giustino Durano (se era lui il nostromo che implorava: “Morgan, abbiamo fame!” e veniva impiombato).

    giovanna la nonna

    Indimenticabili le canzoni, tutte a firma di Franco Franchi (il cantante e paroliere, non il socio di Ciccio Ingrassia) per i testi, e dei fratelli Gian Franco e Gian Piero Reverberi per le musiche: sciaguratamente, a parte la celeberrima sigla cantata da Enrico Maria Papes, il resto del materiale non verrà riproposto su disco, e per trovare qualche dato di più occorre avere la fortuna di mettere le mani sul raro volume dello stesso Franchi, di Lucio Salvini e Tinin Mantegazza, Filibusta, edito da Bietti nel 1974. Su Wikipedia si possono trovare i titoli: Ballata dell’Olonese, Ballata di Legrand, Bottiglie di birra, Calci e frustate, Capitano Kidd, Caro amico, Fratelli della costa, Giacinto Giacinto, Giro del mondo, Il mestiere del pirata, Quant’è buono l’Olonese, Storia di Morgan, Teach il Barbanera, Terribile e invincibile, Un pirata sa sempre navigare e Vedete la mia spada; e scorrendoli riesco a recuperare dalla memoria qualche nota musicale e alcuni versi – all’epoca li avevo trascritti, ma chissà dov’è finito l’appunto. La canzone intonata per esempio alla fine della (mi pare) seconda puntata, con l’Olonese ficcato in una pentola e i cannibali intorno tutti goduti, doveva suonare: “Quant’è buono l’Olonese con la salsa maionese! / Zuzuzuzuzumpa Zuzuzuzuzumpa / Va a finire che ci scappa l’Olonese con la grappa! / Zuzuzuzuzumpa Zuzuzuzuzumpa…”.

    Nel frattempo però era apparso l’ottimo Pirati corsari e filibustieri di Vezio Melegari, Mondadori (I grandi libri d’oro) 1964, ricchissimo d’immagini da quadri e incisioni, dotato persino di una bella appendice su Il pirata di maniera e di un Dizionario biografico della pirateria illustre e meschina: e quelle pagine, per me che non conoscevo i romantici pirati-eroi alla Salgari, trasudavano piuttosto un fascino pulp. Ancora oggi davanti ai ritratti di filibustieri dell’edizione forse più nota del memoriale di Exquemelin, The Buccaneers of America, 1678 – vari dei quali appunto riprodotti nel libro di Melegari – riscopro quelle emozioni di giorni lontani. C’è il volto sfuggente di Bartolomeu il Portoghese; quello francamente poco tranquillizzante di Roc Brasiliano (con una specie di camicione da barbiere e una scriminatura un po’ gnarra); il notissimo ritratto dell’Olonese con l’espressione da vilain malmostoso in baffetti e pizzo, ma anche la scena splatter in cui il Nostro strappa il cuore a un prigioniero e lo ficca nella bocca di un altro; c’è il ritratto di un Morgan cicciotto, con un po’ di incisioni sulle sue gesta… Per quanto insomma allegramente rivisti dalle canzoni alla Gufi del programma per ragazzi, i miei pirati restavano personaggi loschi, spettri di un passato fascinosamente inquietante, maestri di quel macabro che intriga già i bambini.

    Immagine che mi confermerà del resto una lettura di poco successiva, della trilogia dedicata proprio all’Olonese da un maestro americano dell’Ottocento, tale F.A. Stone. Questa almeno l’attribuzione di una nota redazionale dell’editore Malipiero che la proponeva entro una collana per ragazzi: la mia edizione è datata 1969-71, ma scopro che il primo volume era stato presentato in Italia già nel ‘55. Mi è rimasta la curiosità di scoprire di più sul misterioso Stone, e mi sono domandato persino se non vi si cifrasse qualche italianissimo e più recente signor “Pietra”: nei fatti la crudeltà quasi sadiana di L’Olonese il terribile pirata e dei seguiti Tortuga, impero della filibusta e Caraibi in fiamme pareva strana persino per un esponente della vecchia pedagogia. Tra impiccagioni e crudeltà assortite che lasciano però un retrogusto di ammirazione per il criminale protagonista, l’unico ammorbidimento lì concesso alla biografia dell’Olonese consisteva nel farlo gettare ai coccodrilli (stile Capitan Uncino, il che potrebbe costituire un indizio per la datazione) invece che cucinare da “gastronomi dei tempi andati che rifiutano di piegarsi alla modernità” – come definisce i cannibali il vecchio Bierce.
    stone olonese
    Oggi però una trilogia piratesca e l’ombra di Sade non possono che richiamare al ciclo storico-avventuroso che Valerio Evangelisti ha recentemente chiuso con il grandioso Cartagena. Gli ultimi della Tortuga, Mondadori Strade blu, Milano 2012. Un fiato crepuscolare soffia nell’opera, ambientata nel 1697, quando ormai i grandi capitani della filibusta capaci di espugnare città con imprese loscamente eroiche sono morti tutti: a mirare alla città colombiana di Cartagena, roccaforte spagnola abbastanza ricca da meritare lo sforzo, sono stavolta i francesi, che intendono così rimpinguare le casse dissanguate dalla Guerra dei Nove Anni. Ma per l’impresa servono i pirati, che pure la Francia aveva ripudiato smantellandone le basi: e con la più allegra faccia di tolla, il nobile ammiraglio De Pointis li coinvolge tramite un nome di loro fiducia, quel tale Ducasse, pirata a sua volta, divenuto governatore di Saint-Domingue. Ovviamente, esaurito col loro aiuto il lavoro sporco, e dopo un’interminabile estorsione dei tesori locali nell’atmosfera lunare, oniricamente sospesa della città conquistata in preda ai morbi, il soave De Pointis se ne andrà con le navi cariche – e i filibustieri perplessi cercheranno di recuperare qualcosa con un secondo raid sulla sventurata cittadinanza. Che alla fine si vendicherà con atrocità persino peggiori…

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    Valerio Evangelisti

    In tale contesto, che non è meramente uno sfondo ma costituisce un primo livello del soggetto, muove la vicenda di un ufficiale al servizio di De Pointis, Martin Dorlhac, già attivo nel giro criminale della Corte dei Miracoli parigina. Considerati quei precedenti, il mondo dei pirati costituirà per lui una fonte di attrazione irresistibile – non tanto sul fronte dei vantaggi economici quanto per uno sghembo richiamo dell’avventura. Tanto più che Martin, impasto umanissimo di brutalità d’epoca e desolanti ingenuità, s’è preso una sbandata per Teresa Jímeno, moglie di un maturo comandante spagnolo prigioniero. Già nei precedenti romanzi della saga, Tortuga, 2008 e Veracruz, 2009, Evangelisti aveva scelto protagonisti dalle esperienze estranee alla pirateria, e indotti da vicende diverse a trovarvi qualche ruolo: una necessità narrativa per esplorare quel mondo alla rovescia evidenziandone caratteristiche e paradossi e facendo esplodere le contraddizioni. Rispetto al furbetto e nevrotico Rogério de Campos, l’ex-gesuita protagonista di Tortuga, che al seguito dell’ultimo grande capitano della filibusta, il cavaliere De Grammont, finiva però per tradire tutti – se stesso compreso – nel modo più sciagurato, Martin resta una sorta di goffo idealista; e brilla per ingenua intraprendenza anche di fronte al protagonista di Veracruz, lo stolido e coraggioso Hubert Macary, ex-militare che tenta di vivere le vecchie idee di obbedienza e fedeltà gerarchica nel contesto della filibusta (e che in Cartagena troviamo ormai assurto a un opaco status di capitano). Tutti e tre conoscono la crisi in fondo epocale, e forse solo più evidente da quel punto di osservazione, dei valori di un Vecchio Mondo; per tutti e tre l’incontro con una donna – realmente fatale – impone una svolta drammatica alla vita. Macary ne resta travolto esistenzialmente, mentre per Rogério e Martin il precipizio è persino più tragico. Del resto proprio quelle donne fatali – la schiava di colore Reina, l’avventuriera coloniale Gabriela Junot-Vergara, l’intraprendente e integrata Teresa – con i loro silenzi incompresi, le strategie di sopravvivenza fino al mascheramento e alla menzogna, le diverse forme di liberazione suggerite dalla vita, finiscono col protestare davanti a noi lettori la nostra eccessiva somiglianza ai protagonisti e al loro mondo di oppressioni incrociate.
    Se poi la società dei pirati costituisce quasi il negativo fotografico di quella marinara delle nazioni “civili”, i suoi strani caratteri “democratici” possono ricondursi solo con molta fantasia alla giulebbosa società libera di certe ingenue interpretazioni recenti. Costituendo piuttosto un protomodello per la predazione capitalistica – e proprio la decomposizione della res publica piratesca nei Caraibi vedrà i capitani trasferirsi sulle coste dei futuri USA. Quasi a riprendere i sadismi della trilogia di Stone, in quella di Evangelisti emblematico è il ruolo dell’allarmante chirurgo/pirata Ravenau de Lussan teorico di un utilitarismo sadiano e fautore di un commercio senza regole o limiti: è lui a strappare a Rogério ogni illusione sulle pulsioni umane, ad attraversare allegramente la via di Macary, e lo ritroveremo soddisfatto alla fine di Cartagena, mentre un nuovo mondo gli si spalanca innanzi.

    Dei grandi capitani – l’Olonese, Morgan… – vediamo in scena nel ciclo solo l’ultimo, De Grammont, nelle ultime gesta: restano ancora nomi famosi, che però appartengono ormai a un’altra scuola, molto più duttile e meno visionaria, e sapranno adattarsi ai nuovi scenari; e i loro epigoni li troviamo in azione oggi tra le poltrone di politica ed economia. Cartagena è il racconto, straordinario, di questa crisi di passaggio: ma negli echi di una Tortuga perduta nel passato avvistiamo in fondo anche la nostra, di ormai lontane letture e visioni TV.

     

    Valerio Evangelisti

    Cartagena. Gli ultimi della Tortuga

    Mondadori, Strade Blu, 2012

    pp. 336, € 17,50

     

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