Federico il Grande di Prussia è, nell’ambito della storia europea, un personaggio decisamente scomodo. Reputato l’«inventore» del nazionalismo tedesco – categoria politica inesistente fino a metà Settecento in un paese spezzettato in un labirinto di ducati, principati, libere municipalità e piccoli regni – è passato dall’essere considerato un benemerito padre della patria al diventare, nel dopoguerra, il colpevole del «peccato originale tedesco» dal quale fatalmente sarebbe nato il nazismo.
Benemerita quindi questa biografia scritta con passione e brio dallo storico Alessandro Barbero. Riassumere nelle poche righe di una recensione la quantità prodigiosa di aneddoti, racconti, piccoli e grandi fatti raccolti e riferiti dall’autore è un’impresa pressoché disperata. Basterà, credo, riferire alcune delle caratteristiche personali e delle abitudini di Federico di Prussia che Barbero pone al centro del suo lavoro.
Friedrich der Große o com’era in realtà noto nell’Europa del Settecento «Frédéric le Grand» è figlio primogenito di Federico Guglielmo e diviene erede al trono di Prussia all’età di tredici mesi. I rapporti con il padre, uomo autoritario e dalla cultura e sensibilità rudimentali, non sono buoni ma diventano decisamente pessimi quando il piccolo Federico abbandona l’infanzia. Il principe ereditario è un lettore appassionato, mantiene una fitta corrispondenza (in francese, reputa infatti il tedesco «una lingua da maiali») con i maggiori filosofi dell’epoca e con Voltaire più di ogni altro, è un discreto compositore e un ottimo flautista (per lui Johann Sebastian Bach comporrà i «Concerti Brandemburghesi»), scrive sonetti, non è credente e considera le smanie del padre per le divise, le parate e le rassegne altrettante idiozie. È per molti aspetti un uomo moderno, un vero anacronismo nella provinciale, tetra e bigotta corte prussiana.
L’altra faccia della sua ideologia anticonformista, tuttavia, è il sostanziale disprezzo per i suoi simili che considera altrettanti idioti, il rifiuto per le norme etiche di comportamento della nobiltà e delle case regnanti d’Europa, un rifiuto che lo condurrà spesso a scelte spietatamente amorali in politica estera. Federico, il colto lettore e appassionato musicista, una volta salito al trono non mostra alcuna remora né indecisione nell’invadere senza alcun preavviso né giustificazione i regni suoi vicini. Sua ferrea convinzione è che la Prussia debba necessariamente arrivare a giocare un ruolo di primo piano nella politica europea. E ci riuscirà.
Barbero dedica tuttavia relativamente poco spazio alle imprese militari di Federico, accordando maggiore attenzione al suo governo, mettendo in rilievo il modello del tutto personale di assolutismo da lui praticato. Federico si alza tutte le mattine alle quattro, beve quattro o cinque tazze di caffé, si veste in pochi minuti – il suo guardaroba consiste in due divise militari identiche – sbriga la corrispondenza, riceve i generali, i ministri e i funzionari dello stato, passa in rassegna le truppe, incontra i sudditi che gli hanno scritto per segnalare qualche problema o inadempienza «perché, in questa monarchia assoluta, qualunque suddito poteva scrivere al re e il re, in linea di massima, riceveva quelli che riteneva meritassero una risposta». Segue pranzo di lavoro – abbondante e sempre annaffiato da champagne (Federico detesta la birra) – e una breve passeggiata a piedi o a cavallo. La sua giornata di lavoro termina alle diciotto, e d’abitudine tra le diciotto e le venti a corte si tiene un concerto dove si eseguono le reali composizioni e il re si esibisce come flautista. Segue cena leggera e a dormire sempre entro le undici. Non diverso il suo ritmo quando si trova fuori dalla reggia a controllare il lavoro di agrimensori, funzionari dello stato o esattori delle tasse. Federico di Prussia controlla tutto, verifica tutto, punisce corrotti e inefficienti e premia i meritevoli secondo il suo personale criterio di giustizia, identificandosi completamente nello stato ma anche identificando se stesso con lo stato.
È un uomo pieno di contraddizioni, un cinico talvolta brutale ma spesso un geniale anticonformista, capace di scelte temerarie e modernissime tanto in campo militare che nel governo civile. Ma soprattutto un lusus naturae nel panorama del potere politico dell’epoca, la cui ascesa e trionfo sono stati facilitati dalla situazione economica e culturale della Prussia di quegli anni: un paese povero e arretrato che ha come unica risorsa il talento militare.
Barbero non giudica Federico il Grande da un punto di vista morale, nonostante le sue non lievi responsabilità politiche, e non prende posizione sull’interrogativo che ancora divide gli storici tedeschi: «Federico è colpevole di Hitler e di Auschwitz?», ma il suo volumetto si rivela comunque prezioso non soltanto nella puntuale ricostruzione del personaggio ma anche nella descrizione – sempre vivace e a tratti francamente divertente – del mondo delle corti settecentesche.
Alessandro Barbero, Federico il Grande, Sellerio La Memoria 1071. 2017, pp. 218, € 13,00
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