Ammetto una debolezza: ho sempre avuto stima, curiosità e interesse per il personaggio di Immanuel Kant. Non solo, complici E.T.A. Hoffmann e Re Federico il Grande, la Prussia del Settecento rappresenta per me una specie di terra del sogno, uno di quei luoghi che vorrei visitare nel caso inventassero la macchina del tempo. Strani gusti, vero? Beh, a differenza di Silvio Berlusconi io non chiedo a nessuno di condividerli.
Sicché quando mi hanno proposto la recensione di questo Critica della ragion criminale di Michael Gregorio, non ho potuto resistere e sono fuggito a casa con il romanzotto in saccoccia e l’acquolina in bocca.
Ho letto i primi tre quarti del libro in due sere, il resto in quindici giorni.
In quei quindici giorni mi è capitato di leggere un frammento di un articolo di Consolata Lanza apparso su LN 40: («È appena uscito, sempre per Einaudi Stile Libero, un giallo che ha come protagonista Immanuel Kant… nessuno protegge gli innocenti?) e ho ricevuto un e-mail da un redattore del quale taccio il nome, l’untore che ha lasciato il libro disponibile per la redazione: «Ti è piaciuto? Io l’ho trovato parecchio deludente. Per non dire di peggio. C’è un Kant che sembra un povero idiota».
Bene. Anzi, male.
E non potevano dirmelo prima?
Sarebbe servito a poco, comunque. La mia sciagurata passione prussiana mi avrebbe impedito di prendere sul serio gli avvertimenti.
Al termine della lettura mi è persino venuto il dubbio – in spregio della presenza di un traduttore – che a scrivere il romanzo sia stato uno dei tanti e indefiniti Wu Ming che pullulano dalle parti di Einaudi Schifo Libero, come lo chiama Gordiano Lupi.
Ma è proprio completamente da buttare, questo Critica della ragion criminale?
No, non completamente.
Forse.
La storia, ora, come dicono i recensori. Quelli bravi.
Il giovane Stiffeniis, procuratore del Re in una sperduta cittadina viene chiamato a Königsberg (attuale Kaliningrad) per investigare su una serie di inspiegabili delitti. Altre notizie essenziali: siamo nel 1804 e la Prussia attende da un momento all’altro l’invasione napoleonica; Stiffeniis è un ex-allievo di Kant e nasconde nel cuore un’inconfessabile colpa con accluso rimorso.
A coadiuvare le indagini del giovane procuratore, convinto assertore delle tesi dell’illuminismo francese, un pratico e laconico sergente della gendarmeria di nome Koch.
I delitti, atroci e brutali, hanno in sé qualcosa di infame, tanto che in città corrono voci allarmate sulla responsabilità del Maligno in persona. Una tesi inaccettabile per Stiffeniis che, viceversa, segue la pista del terrorismo psicologico creato da agenti francesi per fiaccare il morale della popolazione.
Nonostante l’impegno profuso Stiffeniis non riesce a impedire che i delitti continuino e che la paura cresca in città. Ben presto costretto ad abbandonare la tesi del terrorismo bonapartista, il procuratore abbraccia via via ipotesi assurde, irrazionali o disperate mentre il misterioso assassino sembra braccarlo sempre più da vicino.
A turbare ancor più intimamente il povero procuratore sono gli incontri con Immanuel Kant, un Kant anziano e forse definitivamente uscito di senno, che sembra dedicare le sue residue energie a mettere a punto un’ultima trattazione filosofica interamente dedicata al comportamento criminale e alle sue radici profonde.
Finale in diminuendo con maniaco criminale ripescato dalle nebbie del racconto e infilato a forza nei panni dell’assassino seriale e Stiffeniis che scopre di essersi fino a quel momento tormentato invano.
Sipario.
Accantonato il giallo, restano la ricostruzione storica, la divulgazione filosofica, i caratteri dei personaggi e la speculazione etica.
La ricostruzione storica è poca cosa, onestamente.
In Prussia all’alba dell’Ottocento pioveva molto e nevicava parecchio. Come oggi, si suppone. Le strade erano piene di fango (come nei romanzi di Dumas) e si usava ancora torturare gli imputati. La gente andava in carrozza. Altrimenti a cavallo. Altrimenti a piedi. C’erano le lanterne e nelle fortezze c’erano dei soldati. Gentaglia promiscua e seminalfabeta. Essendoci il mare c’era un porto ed essendoci un porto c’erano delle navi. E bettole per marinai. E stranieri e gente poco raccomandabile.
Si parlava in tedesco, ovviamente. O forse non troppo ovviamente, dal momento che l’autore si premura di infilare in un paio di occasioni alcune frasi in tedesco, come se tutti gli altri personaggi normalmente parlassero in italiano. O in swahili.
Capitolo divulgazione.
Zero o quasi. Si apprende che Kant viveva a Königsberg, che Fichte era stato suo allievo (ma infedele), che aveva scritto di un non meglio definito Imperativo Categorico e che credeva in un’etica superiore. Bòn. Quanto basta per far sentire un quasi filosofo anche un mio vecchio compagno di scuola che prendeva regolarmente quattro di filosofia.
Caratteri dei personaggi.
Inesistenti o quasi. Ma, in fondo, se si tratta di un giallo chissenefrega della caratterizzazione dei personaggi?
M questo non è un buon giallo, ho scritto. Lo so. Però ha l’ambizione di esserlo.
Speculazione etica.
Si riduce a una pomposa affermazione dell’ovvio che – detto per inciso – degrada il povero Kant a idiota in preda a una tardiva resipiscenza. Il grande filosofo, infatti, nel romanzo sembra essersi accorto soltanto da poco tempo che gli uomini provano un’ancestrale passione per il male. Per il lato oscuro della forza, si potrebbe anche dire. Quindi uccidono in modo esagerato, barocco e incomprensibile. Evidentemente il signor Gregorio non ha mai sentito parlare della «banalità del male». Curioso per uno che «insegna filosofia», com’è scritto sull’aletta dell’ultima di copertina.
Mi fermo qui perché accanirsi non è bello.
Mi è venuta voglia, comunque, di scrivere anch’io un giallo dai risvolti noir ambientato nella Prussia a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento.
Capace che mi riesce meglio.
Michael Gregorio
Critica della ragion criminale
Einaudi Stile Libero Big, 2006
€ 15,00
trad. di M. Marchetti
idem, Einaudi Super ET, 2008. € 11,80
idem, Einaudi EBOOK, 2011, € 6,99
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