di Massimo Citi
Sono buoni momenti per il giallo, il thriller, il poliziesco.
I titoli in uscita sono numerosi, tantissimi i nuovi autori, tuttora vivacissimo l’interesse per i polizieschi di ambiente scandinavo – Norvegia, Danimarca, Svezia, Finlandia e Islanda – senza comunque dimenticare i nuovi autori «classici», come Michael Connelly, Fred Vargas, John Grisham, John Patterson, Jeffrey Deaver, Mary Higgins Clark o i nuovi talenti nazionali, come Veit Heinechen, Gianni Farinetti, Marco Vichi, Gianrico Carofiglio, Donato Carrisi o il nuovissimo Roberto Costantini.
Le possibilità di scelta sono quasi infinite e gli stili, i linguaggi, le forme, le ambientazioni, le interpretazioni, i modelli sono inesauribili.
Bene, tutto ciò detto, una domanda sorge spontanea: il romanzo che pone al centro della vicenda un omicidio, ha una funzione che superi l’intrattenimento di poche ore o il suo scopo è proprio quello di sfidare intelligenza e sentimenti del lettore fino alla parola fine?
Propendo, ovviamente, per questa seconda interpretazione. Innanzi tutto perché non credo a una funzione intellettuale «sovrapposta» alla lettura che possa e debba giustificare l’atto di leggere narrativa. E in secondo luogo perché la sfida sottintesa all’enigma di un omicidio costituisce di per sè un elemento non banale di riflessione sul reale. Ovviamente abbiamo nel mondo del romanzo poliziesco sia Natsuo Kirino, capace di raccontare in prima persona l’imprevedibile legame tra vittima e colpevole, come la geometrica Agatha Christie, per la quale i legami tra vittima e colpevole sono prevalentemente di natura fattuale. Ma anche simbolicamente ridotto a luccicante gioco enigmistico il romanzo-con-delitto assolve una funzione fondamentale nella nostra visione del mondo.
Personalmente sono un lettore incostante e vago di «gialli». Ho un autore preferito – Rex Stout, inventore del lunatico e geniale Nero Wolfe – ma sono poco attento alle novità e ho una preferenza per il fantastico gotico e la fantascienza, generi ultimamente non molto di moda, ma che accendono senza difficoltà i fuochi della mia mente.
Tra i gialli non posso nascondere una curiosità piuttosto barocca e per nulla politicamente corretta che mi spinge verso i romanzi ambientati in altre epoche in paesi meno noti.
Sono perfettamente conscio che alla base del pensiero speculativo e abduttivo del poliziesco c’è la rivoluzione industriale e che il genere è il figlio prediletto del pensiero positivista, ma mi diverte ugualmente constatare come l’autore riesca a fare comparire il pensiero speculativo e razionale anche in momenti molto lontani e assai poco «razionali» della storia umana.
Lo stesso «gioco» che il vecchio Eco aveva condotto nel suo Nome della rosa, travestendo l’immortale Sherlock Holmes da Gugliemo da Baskerville, duecentesco monaco benedettino.
Un gioco che possiamo ritrovare in Tabula rasa di Danila Comastri Montanari, romanzo uscito nel corso del mese di ottobre da Mondadori. Protagonista il senatore Publio Aurelio Stazio, aristocratico agnostico ed epicureo, inviato dall’imperatore Claudio a investigare sulla misteriosa scomparsa di navi granarie sulla rotta da Alessandria d’Egitto a Roma. Il frumento d’Egitto, infatti, è divenuto essenziale per l’Impero Romano e per l’equilibrio politico e sociale dell’impero. Ma il compito di Stazio inevitabilmente si complica, con una serie di misteriosi omicidi che richiedono al senatore di entrare in contatto con i diversi popoli che vivono nella metropoli: i romani, di recente immigrazione, i greci venuti in Egitto al seguito di Alessandro, gli ebrei e gli egizi. Oltre ai delitti e alla loro complessa esegesi il senatore dovrà anche dipanare il filo del complicato rapporto con i Parti, storici nemici di Roma, e occuparsi da vicino degli antichi e misteriosi riti egizi.
Un discreto giallo, in sostanza, anche se con qualche tratto e qualche personaggio autocaricaturale e qualche caduta di stile che richiama alla mente una disordinata comica anni ’20. La sensazione che Stazio sia comunque un personaggio temporalmente sfasato assale di tanto in tanto il lettore. Ma con un po’ di buona volontà si può far finta di nulla e andare avanti a leggere.
Spostandoci avanti di un millennio e mezzo si giunge alla corte di Solimano il Magnifico e a Matteo Malafuoco, mercante genovese e segreto informatore della Superba e a Teatro d’ombre di Archange Morelli, e/o edizioni.
Il buon Matteo è un uomo pragmatico e necessariamente scettico, divenuto tale con la pratica del suo non facile lavoro. Còrso di nascita, non è guidato da un particolare amor di patria né da una vivace convinzione religiosa, tanto da apprezzare non pochi aspetti della religione maomettana. La sua missione di informatore viene però funestata da una serie di omicidi seriali che sarà necessariamente chiamato a risolvere.
Decisamente meglio condotto del giallo della Comastri Montanari ha il solo difetto – sempre che di difetto si voglia parlare – di qualche eccessivo indugio nella mente del personaggio, a tratti curiosamente simile a un Corto Maltese in abiti cinquecenteschi.
Di ambientazione ancor più recente Odore di chiuso di Marco Malvaldi, Sellerio editore. Un castello nella campagna toscana di fine ‘800, una galleria di personaggi variamente assurdi, contorti, viziati o folli e come investigatore Pellegrino Artusi, giunto al castello in veste di buongustaio e scopritore della tradizione culinaria dell’Italia di recente unificata.
A collaborare con l’Artusi, talvolta accusato di simpatie socialisteggianti dai rampolli del Barone Romualdo Buonaiuti, il delegato di polizia Artistico, un poliziotto attento, deciso e assai poco rispettoso dei titoli nobiliari e delle tradizioni curtensi.
Il giallo corre senza difficoltà e la vicenda è raccontata in prima persona dall’autore che in più occasioni interviene per commentare, spiegare o irridere, come un narratore settecentesco che tiene i personaggi sulla punta delle dita, pronto a presentarli o a nasconderli ai lettori.
Ultimo viaggio è in Cina, con Di seta e di sangue di Qiu Xiaolong, autore del quale mi capitò di presentare a suo tempo i romanzi Visto per Shangai e La misteriosa morte della compagna Guam, recensito in LN 26. Ancora una volta protagonista è l’ispettore Chen Cao, della polizia di Shangai e accanto a lui il detective Yu. Questa volta il caso riguarda una serie di omicidi rituali, con le vittime abbandonate in parchi pubblici e abbigliate con qipao, un tipo d’abito femminile d’uso abituale nella Shangai degli anni Quaranta e Cinquanta ma cancellato dalla rivoluzione cinese.
Chen Cao e Yu sono costretti ad utilizzare una metodologia d’indagine tipicamente americana – debbono infatti letteralmente inventare la figura e i metodi del profiler -, per giungere a ricostruire un frammento di storia personale della rivoluzione culturale dalla quale è sorto e si è formato il serial killer che dovranno riuscire a fermare.
Meno prolisso che in altre circostanze, un giallo che penetra con maggiore incisività nella storia cinese recente, una storia che anche i cinesi non desiderano in alcun modo risvegliare, regalando al lettore occidentale una visione non comune di ciò che si muoveva alle spalle e sotto il segno della «rivoluzione culturale». Notevole e inatteso il finale, degna conclusione di un’infinita storia di abusi, soperchierie, falsità ed esibiti alibi ideologici.
…
Quattro gialli inadatti a chi ama la violenza narrata o i continui adrenalinici colpi di scena e decisamente più indicato per i sostenitori del cosiddetto «giallo all’inglese». In ogni caso una lettura gradevole, in qualche caso davvero divertente e appassionante.
Danila Comastri Montanari
Tabula rasa
Mondadori, 2011
pp. 316, € 13,90
Archange Morelli
Teatro d’ombre
e/o, 2011
pp. 334, € 18,50
trad. Alberto Bracci Testasecca
Marco Malvaldi
Odore di chiuso
Sellerio, 2011
pp. 198, € 13,00
Qiu Xiaolong
Di seta e di sangue
Marsilio, 2011
pp. 392, € 18,50
Trad. (dall’inglese) Fabio Zucchella