di Piero Fabbri
Ma quando artisti grandi e geniali realizzano opere così mediocri, non è immeritatamente che espongono al ridicolo la loro cecità; giacché non v’è nulla che retto giudizio aborre più della pittura perpetrata senza la conoscenza tecnica, anche se realizzata con abbondanza di cura e di diligenza. E infatti la sola ragione per cui questi pittori non si rendono conto dei loro stessi errori è che non hanno studiato la Geometria, senza la quale nessuno può essere o diventare un artista completo; ma la colpa di questo è da imputare ai loro maestri, che sono essi stessi ignoranti in quest’Arte. L’Arte della Misura (1525)
L’ultima incisione di Albrecht Dürer (1526), |
In genere, partivano da Dover. Gli inglesi, ovviamente; ma erano appunto soprattutto inglesi quelli che l’hanno reso famoso, nell’Ottocento. Dalle bianche scogliere sulla Manica toccavano il continente a Calais, tanto è vero che l’accoppiata Dover-Calais è diventata non meno celebre dell’antica e omerica coppia Scilla e Cariddi; o delle due rive del Bosforo e dei Dardanelli, che marcano il confine acquatico tra Europa e Asia; o delle Colonne d’Ercole, che separano Africa ed Europa.
In terra di Francia, il giovane inglese benestante seguito da servi e tutore acquistava una carrozza e si dirigeva a Parigi. Nella città delle luci e dei piaceri prendeva lezioni di ballo, ma imparava anche a cavalcare e a tirar di scherma, nel caso non fosse giù sufficientemente esperto nell’etichetta da seguire in groppa ad un destriero. Parigi, già allora, dettava legge nella moda e nell’eleganza dei comportamenti. Per questo, per non perdere neppure un briciolo della verve gallica, il viaggiatore di solito acquistava i servigi di una guida e di un interprete francese. Chi intraprendeva certi viaggi, del resto, non lo faceva solo per piacere, ma anche per prepararsi al futuro. Erano i figli della nobiltà britannica, destinati ad una carriera in politica o in diplomazia, e le regole dei perfetti comportamenti di corte e dell’alta società erano appunto dettati dalla capitale francese. Il loro era, in grande misura, un vero e proprio viaggio-studio.
Dopo Parigi, quasi nient’altro della Francia: era più frequente la deviazione in Svizzera, tra Ginevra e Losanna, e da qui, magari dopo aver passato qualche giorno ad apprendere i rudimenti dello sport molto in voga a quel tempo, l’alpinismo, finalmente si poteva discendere verso il giardino d’Europa. Con intenzioni meno bellicose e qualche difficoltà in meno di quanto fece venti secoli prima Annibale, il giovane inglese si predisponeva a superare le Alpi; le valicava normalmente dal Gran San Bernardo, in genere dopo aver fatto smontare e assemblare in pacchi trasportabili a dorso di mulo la carrozza acquistata in Francia: avrebbe dovuto rimontarla una volta giunti nelle pianure italiane.
Una volta giunto nel Bel Paese, era inevitabile una visita a Torino, frequente una deviazione per Milano, ma la prima destinazione che richiedeva un soggiorno prolungato era indubbiamente Firenze. Non per caso ancora oggi la Toscana è considerato uno dei rifugi naturali degli inglesi attratti dal continente: una lunga e consolidata tradizione portò addirittura alla costituzione di una numerosa comunità britannica nel capoluogo toscano. Del resto, la culla del Rinascimento Italiano e i tesori degli Uffizi bastavano ad incantare il giovanotto londinese per intere settimane. Inoltre, Firenze era una splendida base per visitare le altre città del centro-nord: da lì ci si spostava facilmente per fare un salto a Pisa, o a Bologna, perfino a Padova e addirittura a Venezia.
La tappa successiva e definitiva era, naturalmente, Roma. Con una sosta veloce ma immancabile nell’Umbria, da Perugia ad Assisi, poi Spoleto, fino alle Cascate delle Marmore cantate da Byron (The roar of waters! From the headlong height – Velino cleaves the wave-worn precipice. The fall of the waters!…), ma inevitabilmente la destinazione ultima restava il centro del mondo antico, con le sue vestigia di mille anni governo del mondo era il punto d’arrivo del viaggio. Certo, chi aveva disponibilità di mezzi e di tempo poteva permettersi di proseguire ancora: a Napoli, che era allora la capitale europea della musica, o per visitare Ercolano e Pompei (ma questo vale solo per i viaggiatori di fine Ottocento). C’era chi arrivava in Sicilia, in Grecia addirittura, a cercare le radici più profonde della cultura occidentale. Ma, più frequentemente, da Roma la carrozza volgeva di nuovo verso nord, intenzionata a superare di nuovo le Alpi verso la Mitteleuropa. Innsbruck, Vienna, Berlino, e poi Olanda e Fiandre. E da qui, poi, di nuovo attraverso la Manica, e finalmente a casa.
Madonna con il Bambino |
È il Grand Tour, il più classico dei viaggi culturali: quello che dà il nome stesso ai turisti, in fondo; prima di essi, i viaggiatori erano solo pellegrini. Ma non erano solo inglesi, gli europei che venivano in Italia alla ricerca del passato, del paesaggio, e soprattutto dell’arte. Per ogni Turner c’era un Corot, per ogni inglese c’era un francese, un tedesco, un olandese, un fiammingo curioso dei luoghi italiani. Per quanto incapaci per lungo tempo di aggregarsi in nazione, quando già da secoli altri europei avevano consolidato la loro unità nazionale, gli italiani erano comunque visti come gli eredi di un passato maiuscolo, che occorreva conoscere. E non era solo Ottocento: la penisola più caratteristica del Mediterraneo accoglieva da sempre pellegrini e artisti. Il Rinascimento prende le mosse dall’Italia, ma insegna l’arte a tutto il mondo; cosa c’è di più naturale di un artista che voglia venire ad imparare l’arte in Italia? Arrivano da tutta Europa: Spagna, Francia, Inghilterra, Germania. Arrivano e imparano, e diventano bravi: talvolta bravi quanto i loro maestri. E tornano nelle loro terre, artisti compiuti e senza più nulla che si possa aggiungere al loro talento. Arricchiti da un prezioso viaggio in Italia.
Certo, a differenza di quanto accade oggi, quelli erano viaggi che si facevano una volta sola per la vita. Erano avventure che duravano mesi, anni: molto costose e tutt’altro che prive di rischi. Senza aerei né treni, con strade non troppo diverse né più sicure delle consolari vecchie di duemila anni, l’inglese dell’Ottocento non aveva poi molti vantaggi più del pellegrino francese medievale o del mercante tedesco del Seicento. Viaggi di studio o d’esperienza, ma ben diversi da un week-end fuori porta. Si andava alla ricerca di qualcosa di più che il semplice svago: e una volta ottenutolo, a che serviva tornare? Il futuro diplomatico conosce ormai il mondo, il futuro politico conosce ormai il continente, il giovane artista ha ormai imparato le tecnica della sua arte. Tanto forti erano le ragioni a favore del primo viaggio quanto lo erano quelle che, poi, giocavano contro la ripetizione dell’esperienza. A meno che non ci fossero ragioni ulteriori, e ancora più stringenti.
Albrecht Dürer nasce nella libera città imperiale di Norimberga il 21 maggio 1471, ed è uno dei massimi pittori del Rinascimento. Certo, soprattutto da questa parte delle Alpi si è talmente abituati a considerare il Rinascimento come un prodotto dell’italico ingegno che suona strano definire rinascimentale un artista dal nome così fortemente germanico come Albrecht; eppure bisognerebbe abituarsi a leggere la definizione Rinascimento Italiano non soltanto come indicativa del luogo geografico di origine del movimento, ma anche come limitazione geografica: il Rinascimento è un movimento che spazia per tutta l’Europa, e annovera anche artisti non italiani, soprattutto fiamminghi.
Nascendo nel 1471, Dürer si palesa come quasi coetaneo di Michelangelo, che è di soli quattro anni più giovane del tedesco; coevo di Leonardo, che ha solo diciannove anni quando Albrecht emette il primo vagito: e in quel momento è ancora ben vivo il grande Piero della Francesca, che in quel di Sansepolcro ha ormai una cinquantina d’anni.
A Norimberga, il padre di Albrecht è arrivato dall’Ungheria. Lavora come orafo e gioielliere, mette al mondo la bellezza di diciotto figli, e ha un cognome che in ungherese suona Ajtos. Non sembra esserci nessuna assonanza tra Ajtos e Dürer, e infatti la relazione non è nel suono, ma nel significato: Ajtos in ungherese significa “porta” e in tedesco porta di dice “Tür”; da Tür a Türer e poi a Dürer il passo è breve, tant’è vero che Albrecht in molti casi alternava nel firmarsi Türer a Dürer.
Dall’Apocalisse di Dürer |
Albrecht, nel conteggio dei diciotto figli di papà Albrecht (la fantasia onomastica scarseggiava, in casa Ajtos) e mamma Barbara, si piazza ad un onorevole terzo posto. Dopo appena un accenno di scuole, Albrecht comincia a fare da apprendista nel laboratorio del padre, anche perché è subito palese il suo senso artistico: il primo dei suoi celebri autoritratti Dürer lo dipinse all’età di tredici anni. Il padre, preso atto della predisposizione che il suo terzogenito mostrava per la pittura, fa esattamente la stessa cosa che facevano i genitori fiorentini di quei tempi: mette il figlio a bottega presso un pittore rinomato. A Norimberga, il meglio che si potesse trovare era Michael Wolgemut, ed è presso di lui che Albrecht comincia il suo apprendistato.
Come tutti i bravi maestri, Michael non si meraviglia troppo quando Albrecht, nel giro di pochi anni, mostra di aver imparato tutto il possibile e di aver già superato il maestro; tutt’altro che invidioso, esorta il giovane discepolo a viaggiare e ad imparare tutte le tecniche possibili. Naturalmente, gli suggerisce di andare quanto prima in Italia, dove regnano i migliori artisti del tempo, e dove si trova un florilegio di stili diversi. Con una sorta di modestia teutonica, Albrecht rinvia il suo viaggio nella penisola finché non si sente pronto e padrone di tutto quanto può imparare in patria. Comincia così a viaggiare, dirigendosi verso l’Olanda e le Fiandre, poi verso altre città tedesche come Ulm e Costanza, e infine verso le città del Reno: Colmar e Strasburgo, fino a raggiungere Basilea, in Svizzera. Solo nel 1494, ormai ventitreenne, si decide a compiere due passi significativi per la sua vita: sposa Agnes Frey, e parte per l’Italia.
Autoritratto, Dürer |
Raggiunge la nostra terra da nordest: Trento, Verona, Venezia. Qui rimane incantato dalla tecnica di Giovanni Bellini, detto il Giambellino, e le conseguenze si vedono subito nelle sue prime opere italiane. Dalla sua «veduta di Arco», presso Trento, si nota l’acquisita e completa padronanza della prospettiva e della tecnica pittorica. Non sembra servigli più nient’altro: nel 1495 torna infatti a Norimberga, dove comincerà a darsi con trionfale successo alle incisioni e ai ritratti: diventerà uno dei cittadini più ricchi della sua città. In Italia, non sembra che abbia avuto occasione di incontrare artisti del calibro di Leonardo, né di conoscere scienziati e matematici che, al pari degli artisti, popolavano a quei tempi soprattutto la nostra penisola. Eppure deve essere accaduto qualcosa, in quel primo viaggio, che marcò Albrecht Dürer profondamente. Non aveva più molto da imparare, nella tecnica della pittura: la nascente borghesia tedesca era clientela affezionata che anelava ad avere ritratti del maestro di Norimberga, e le sue xilografie dell’Apocalisse lo avevano reso celebre in tutto l’Europa del Nord. Parte del suo fascino stava anche in alcuni aspetti rivoluzionari: il suo più celebre autoritratto lo raffigura in una prepotente posizione frontale che a quel tempo era riservato esclusivamente alle rappresentazioni del Cristo; così come lo era l’attenzione particolare anche a soggetti prettamente naturali, come il suo celeberrimo Leprotto.
Cosa mancava ancora, ad un artista oramai così maturo e completo?
Mancava la matematica.
particolare della veduta di Venezia di Jacopo de’ Barbari |
Almeno, questo è ciò che lui credeva; certo è che Albrecht torna dall’Italia con il forte desiderio di studiare seriamente matematica. Probabilmente aveva incontrato Jacopo de’ Barbari, e questi era riuscito a mostrargli cosa fosse in grado di fare la matematica applicata all’arte. C’è un passaggio molto significativo in una bozza inedita del testo di Dürer sulle proporzioni umane che sembra proprio riferirsi al de’ Barbari, e che palesa l’ammirazione di Albrecht per la capacità «matematica» di riproduzione delle corrette proporzioni: «…Non ho trovato nessuno che abbia scritto qualcosa sui canoni delle proporzioni umane, eccetto un uomo chiamato Jacob, nato a Venezia e pittore affascinante. Mi mostrò le figure di un uomo e una donna, chè realizzò in base a dei canoni matematici di proporzione, così ebbi modo di vedere ciò che intendeva, anche se egli non volle mostrarmi completamente i suoi principi, come intesi chiaramente.»
Può sembrare curioso che tale «pittore affascinante» sia, ai più, probabilmente del tutto sconosciuto. In verità, è probabilmente meno sconosciuto di quanto si potrebbe pensare a prima vista, perché è a lui attribuito uno dei dipinti più noti a chi si interessa di matematica: il celebre ritratto di Luca Pacioli.
Certo è che la teoria delle proporzioni prima, poi la prospettiva, poi la geometria stessa, a prescindere dalle relazioni dirette con l’arte, cominciarono ad interessare oltremodo Albrecht Dürer. Si decide infatti per fare un secondo viaggio in Italia, tra il 1505 e il 1507 e, abbastanza curiosamente per un pittore, il suo è un viaggio dedicato assai più alla matematica che all’arte vera e propria. Del resto, era ormai veramente famoso, e n
on ci si poteva aspettare che venisse con l’abito del discepolo.
Melencolia I |
Va a Bologna, per incontrare proprio Pacioli, che era probabilmente il maggior matematico del suo tempo: si incontra nuovamente con Jacopo de’ Barbari, e alla fine del suo secondo viaggio in Italia si ritrova a casa, a Norimberga, ancora più convinto della necessità di studiare matematica, se si vuole essere grandi pittori. Decide per questo di scrivere un grande trattato di matematica destinato agli artisti, Underricht der Malerei (Guida alla Pittura), che però non riuscì mai a completare perché il suo progetto iniziale era troppo vasto, soprattutto in relazione a quanta matematica erano disposti ad assorbire il pittori del suo tempo. Ne ricava allora un’opera ridotta, la Unterweisung der Messung mit dem Zirkel und Richtscheit (Istruzioni sulle Misure con riga e compasso) che è stato il primo testo di matematica mai stampato in lingua tedesca.
La matematica lo aveva catturato per sempre: tra i cultori della scienza dei numeri, la sua opera più celebre è senza dubbio la Melencolia I:
Dove, tra gli altri molti simboli matematici, compare in alto a destra un quadrato magico 4×4. le due caselle centrali dell’ultima riga contengono i numeri 15 e 14, facendo così anche da data dell’opera, che è infatti del 1514.
Ci sono ancora moltissime persone convinte che matematica e arte siano cose diversissime e distanti. Ci piacerebbe molto sapere cosa potrebbe dir loro Albrecht Dürer.