di Massimo Citi
L’India del terzo millennio non ha logicamente più nulla della tenebrosa e avventurosa landa raccontata dagli scrittori d’avventura. D’altro canto non ha neppure la semplice e ovvia ricchezza di tradizioni, divinità, cultura che molti scrittori indiani – particolarmente quelli di origine indiana cresciuti negli States o in UK – gli attribuiscono. L’India non vive a cavallo tra realtà e fantasia e incontrare una semidivinità o una creatura intima di una delle migliaia di divinità indiane non ha nulla di ovvio o di comune. È il tipo di idea che può saltare in mente, viene il dubbio, a un autore a corto di idee e ben deciso a sfruttare l’attesa di «fantastico» del lettore. Nella realtà è decisamente più facile incontrare nugoli di poveri, tra i quali i bambini sono largamente prevalenti, con l’abituale e inevitabile corteggio di fame, sofferenza, disperazione, rabbia, dolore e cupidigia.
Aravind Adiga parte da lì. Da un giovane – Balram Halwai – che, figlio semidimenticato nato in un villaggio dell’interno dell’India, riesce a emergere, crescere e farsi largo fino a diventare uno dei più importanti uomini d’affari dell’India contemporanea. Il modo con il quale Balram è giunto a questo inatteso e stupefacente risultato è il soggetto del libro ed è, letteralmente, il senso e il significato della sua stessa vita. Balram è umile, attento, modesto, pulito. Parla poco e rifugge dal pettegolezzo. Si prende cura del suo padrone, Mr. Ashok, dei suoi dolori, dei suoi desideri e, intanto, progetta di eliminarlo. Senza dolore né inutile violenza, ma soltanto per poter finalmente «agguantare i soldi» e coronare il suo desiderio di emergere, diventando un uomo di rilievo.
È il tipo d’uomo che può giocare o immaginare di raccontare la propria vita per iscritto al primo ministro cinese, cercando di essere onesto e sincero fino in fondo… pur sapendo che «gli uomini di affari indiani sono cotti soltanto a metà»… Sette lettere intestate a Wen Jiabao, Primo Ministro della Cina, «Nazione amante della libertà», dove l’uomo d’affari indiano racconta la propria vita, spiega le proprie scelte e motiva l’omicidio compiuto. Non una confessione – nulla di più lontano dalla sua visione del mondo – ma semplicemente il racconto dell’omicidio e di come la vita l’ha condotto quasi fatalmente a quel passo. E il lettore si abitua all’idea, finisce per trovare sensato e logico quel delitto. Doloroso, certo, penoso, come no, ma in certo senso inevitabile. La vittima, un possidente la cui vita è giunta a un momento di paralisi, come un moscone continua a sbattere la testa contro il vetro della finestra. La sua vita è ormai inutile, assurda.
Quando mi tolsi il sangue dagli occhi, per Mr. Ashok era tutto finito. Il sangue sgorgava rapido dalla gola: è così che i musulmani ammazzano i polli.
Un gesto rapido e preciso, da contadino o allevatore.
Libero dal possidente, a Balram non resta che seguire il suo desiderio: diventare un vivace, brillante uomo d’affari. Simbolicamente sovvertendo lo status delle cose in India, dove una nuova generazione di self-made-man emerge e impone la propria legge al mondo. Qualcosa che, ci suggerisce Adiga, non è più il quieto e sonnolento status di una classe dirigente tanto matura da essere divenuta ormai fatiscente ma non è neppure il naturale succedersi di una nuova classe dirigente profondamente indiana. I «nuovi» sono rapaci e decisi a tutto, privi di scrupoli e profondi ammiratori della rapida (e amorale) crescita cinese. Non è difficile, a questo punto, capire perché La tigre bianca sia tanto evidentemente diverso dai libri di autore indiano più diffusi e comuni. Scopo dell’autore è giungere a tratteggiare il panorama della nuova India, delle sue infinite fratture sociali, etniche e politiche, delle ansie disperate che attraversano le classi inferiori e dei timori che afferrano le classi superiori. Il suo Balram – spassoso e paradossale Venerdì ben deciso a rimpiazzare il Robinson dispensatogli dal destino – diventa l’esploratore per conto del lettore della nuova India e dei suoi appetiti confessi e inconfessabili.
Difetto principale, ma forse più del lettore che del libro, la relativa rapidità con la quale si giunge all’omicidio e il tempo forse troppo breve dedicato al nuovo Balram. Non resta che consigliare a chi leggerà La Tigre bianca una lettura più calma e moderata di quella che ho condotto io…
Anavind Adiga
La tigre bianca
Einaudi,
ed. 2008, pp. 232, € 19,00
trad. N. Gobetti
ed. 2010
SuperET
pp. 236
€ 12,00
ed. 2010
eBook
pp. 240
€ 6,99