Come previsto e del resto prevedibile, la fiction criptoecclesiale e in genere l’esothriller, dopo il successo al traino dei due principali romanzi di Dan Brown, stanno da tempo conoscendo una flessione ma senza affatto sparire. In modo parzialmente analogo a quanto avvenuto con un altro boom editoriale, quello dei vampiri dell’era-Twilight, l’inevitabile recessione comporta ancora un ottimo fatturato persino in Italia – dove pure perviene solo una quota ristretta di titoli – e una certa solidità di target. Non stupisce che alcuni editori, per esempio Newton Compton, stiano battendo con entusiasmo questo terreno, con romanzi di qualità magari diseguale ma in genere di buona efficacia.
E proprio su uno di questi titoli del catalogo Newton Compton vorrei soffermarmi, perché rappresenta idealmente l’esito ultimo (almeno per ora) proprio del percorso avviato da Il Codice da Vinci. Anzi Il segreto della sesta chiave di Adriana Koulias, 2011, e apparso in Italia nel 2012, sembra il tentativo di liquidare l’eredità Dan Brown riprendendone da capo ambientazioni e umori. Infatti il terreno è sempre quello implacabilmente dissodato della Francia dei misteri, e in particolare del paesotto di Rennes-le-Château col suo curato mannaro, l’enigmatica perpetua, le ricerche di chissà cosa; ma esaurito per sfinimento – e per l’oggettiva emersione di un tessuto di mistificazioni – l’itinerario dei presunti eredi di Gesù in salsa merovingia, il tutto viene ora virato sull’occulto. Intendiamoci, una simile interpretazione non è nuova: esiste tutta una lettura dei «fatti» di Rennes-le-Château precedente il best seller di Brown, che individuerebbe in loco oscuri misteri controiniziatici e la ricerca di qualche losca immortalità esoterica (penso alle tesi di Mariano Bizzarri apparse in un paio di saggi per i tipi Mediterranee). Ma lasciamo perdere per ora le vicende come storicamente dipanate tra la ridda di voci, le speculazioni più o meno fondate e l’ovvio marketing, e fermiamoci al romanzo di Koulias. Che segnala orgogliosamente nel colophon: «Tutti i gruppi e le organizzazioni descritti ne Il segreto della sesta chiave sono reali, così come le opere d’arte, i monumenti architettonici, gli enigmi e i grimori di cui si parla» – a partire anzi dal personaggio arruolato come protagonista, quel dotto e sventurato Otto Rahn coinvolto dal nazismo in oscure ricerche graaliche, e che infine gli eventi travolgeranno fino a un suicidio un po’ misterioso. Koulias lo immagina spedito da Himmler in Francia sulle tracce di un grimorio – cioè un testo di magia, dal francese antico gramaire come manuale di istruzioni elementari – particolarmente raro e malfamato: ma le cose si riveleranno assai più complicate…
Sarebbe un peccato raccontare di più della trama di un testo del genere, che intriga e diverte proprio per i colpi di scena continuamente estratti dal cappello dell’Autrice: e in effetti Koulias – che, apprendiamo dalla nota biografica, ha «studiato antropologia, filosofia, storia e scienze esoteriche» – non ci risparmia nulla. Messaggi criptati, discese in lugubri sotterranei, epifanie di simboli arcani, equivoci monsignori, riti occulti a gogò: anzi un limite della storia riguarda proprio questo eccesso di tasselli. Tanto più che gli indizi che muovono i personaggi sono a volte tirati per i capelli: a fronte di molteplici interpretazioni possibili (perché l’esoterismo ha spesso questa caratteristica) ecco i Nostri intuire invariabilmente quella giusta e correre come cavallette da un elemento all’altro del puzzle, con un continuo rilancio di complicazioni che lasciano il lettore sempre più sperso. Un ulteriore limite riguarda poi la terribilità dell’evento che i protagonisti dovrebbero impedire nella scena cruciale alla fine: se il lettore non è stato adeguatamente preparato a considerare credibile la minaccia, il tutto tende a sgonfiarsi – come qui accade – in una gran confusione. Ma simili difetti appaiono assai meno drammatici laddove si affronti una simile lettura per quel che è, o dovrebbe essere: un moderno, simpatico e improbabile feuilleton che si immette in un filone di successo, titilla la voglia di mistero presente in tutti noi, e magari contribuisce a incrementare il turismo nel Midi francese.
L’elemento del romanzo che però personalmente mi ha intrigato di più riguarda il testo maledetto che l’Autrice fa inseguire a Rahn – e che noi possiamo invece procurarci con molta minor fatica. Si tratta infatti del Grimorio di papa Onorio, che per l’Autrice «si presume sia stato effettivamente scritto da un pontefice»: e se le cose non stanno proprio così, il tema merita qualche parola.
L’edizione italiana del Grimorio di papa Onorio, almeno la più diffusa, è quella curata da Jorg Sabellicus – cioè Sebastiano Fusco – per i tipi Hermes (copyright Mediterranee, 1984): e pur dotata di un interessante e articolato commento, non costituisce putroppo un’edizione critica in senso proprio. Se dunque è fondamentale sapere che propone la traduzione di un’edizione francese edita – pare – a Roma nel 1670 (Gremoire du Pape Honorius. Avec un recueil des plus rares secrets), sarebbe interessante disporre di qualche dato in più – per esempio quali altre edizioni sono state utilizzate, come si afferma, per integrare formule e passi lacunosi o alterati, e lo stesso tenore di questi ultimi.
Tra tutti i grimori, quello di papa Onorio spicca per cattiva fama. Anzitutto perché è del tipo cosiddetto goetico, cioè si riferisce alla Goezia, arte occulta che tratta i rapporti con entità tenebrose. Diversamente dunque dai testi di Teurgia che porrebbero in contatto con intelligenze celesti e positive, prospettando all’operatore doni di sapienza e crescita interiore, i vilain ultraterreni che un grimorio goetico mira a gestire ed evocare in forma sensibile garantirebbero vantaggi biecamente materiali e concreti. Di più: questo grimorio non solo prevede la celebrazione di sacrifici di sangue, ma volge in nero con coloriture blasfeme elementi del linguaggio sacro, ecclesiastico e liturgico. La forma in cui si presenta incastonato è infatti quella della bolla pontificia: in apparenza un atto ufficiale attribuito a papa Onorio III, per delegare ai ministri sottoposti non solo i tradizionali poteri esorcistici ma l’utilizzo di pratiche magiche per utilizzare i demoni.
A partire dall’incipit, con tanto di arenga – la motivazione di ampio respiro che «giustifica 175 il testo – come in genere nei documenti del Medioevo, compresi quelli pontifici: dove richiamandosi (con qualche libertà testuale) al primato pietrino e alla superiorità divina a ogni creatura, il testo spiega che in virtù delle chiavi del Regno dei Cieli «il Capo della Chiesa è divenuto anche Capo dell’Inferno» (ed. cit., pag. 27). Fino però «al momento di questa Costituzione, i Pontefici Romani erano gli unici mortali a possedere la virtù e il potere di comandare gli Spiriti e di evocarli» (ibidem), un’espressione che sembra rimandare alla mitopoiesi sul papa-mago Silvestro II. E continua: «Oggi, Sua Santità Onorio III, spinto da pastorale sollecitudine, ha generosamente stabilito di trasmettere la facoltà di evocare, comandare e controllare gli Spiriti ai Suoi Reverendi Fratelli in Gesù Cristo; ed ha aggiunto le formule, gli scongiuri, i sigilli, i rituali a questo scopo necessari: e tutto ciò si troverà nella Bolla che segue» (ivi, pagg. 27-28), con tanto di Servus servorum Dei e una certa patina di linguaggio canonico. Sua Santità insomma desidererebbe «comunicare il potere da noi [cioè dal papa] posseduto sugli Spiriti» (ivi, pag. 29): a motivare la scelta sarebbe il timore che gli esorcisti non riescano altrimenti a gestire il contatto con i demoni, e la considerazione come «giusto e conveniente» (ivi, pag. 30) che in generale i sacerdoti possano esercitare autorità anche sugli angeli dell’abisso.
Al testo della presunta bolla segue il testo del grimorio vero e proprio, che alterna a prescrizioni canoniche dal sapore più tradizionale – come il digiuno, e una serie di preghiere – altre quali il sacrificio di un gallo nero o di un agnello, in una generale ibridazione dei linguaggi religioso e magico «nero» con un risultato complessivo piuttosto disturbante. Senza però entrare in questa sede nell’esame del testo, non privo di qualche oscurità interpretativa, l’aspetto più intrigante in senso «laico» riguarda l’origine di tale materiale – visto che in realtà, nonostante il parere di Koulias, è impensabile considerare autentica la bolla. Anche a prescindere dalla sua inaccettabilità teologica e pastorale (contraria tra l’altro alla normativa canonica di ogni tempo), una bolla pontificia era già nel Medioevo un atto pubblico con precise caratteristiche formali e procedurali, non una lettera privata, e comportava un’adeguata diffusione. Anche immaginando di collocare la vicenda dell’emanazione in tempi assai più oscuri di quelli degli Onorii (per esempio negli anni dell’ambiziosa Marozia e del suo giovane, manipolato e dissoluto figlio pontefice Giovanni XI), una simile bolla avrebbe scatenato conseguenze tali da meritare citazioni su tutti i libri di storia, mentre il testo appare solo in epoca tarda. E d’altra parte – anche ammettendo l’ipotesi di copiature parziali, imprecise o semplificate – non risponde ai requisiti formali che uno storico si attende.
Partiamo dunque dall’attribuzione a «Onorio». In alcune edizioni gli è attribuito il soprannome «il grande» e in genere il nome viene associato a un’identità pontificia ben precisa, quella appunto di Onorio III, al secolo Cencio Savelli, sul soglio del 1216 al 1227: la ricchezza della sua produzione (in particolare giuridica e liturgica, ma non solo) potrebbe aver indotto a collocarvi fantasiosamente anche un riordino dei rapporti con la magia, ma nei fatti nessun appiglio permette di collegarlo neppure lontanamente al contenuto del Grimorio. Alcuni esemplari più antichi riportano però il numerale «II» invece di «III», quindi in teoria potrebbe trattarsi del predecessore Onorio II, Lamberto Scannabecchi, regnante tra il 1124 e il 1130 – che tuttavia riuscirebbe ancora più incomprensibile collegare al Grimorio. Scartate tali candidature per implausibilità storica, alcuni interpreti – come il grande occultista Eliphas Lévi – ravviserebbero un candidato più plausibile in un antipapa pure noto come Onorio II, tal Pietro Cadalo vescovo di Parma, dalla nomea di simoniaco e concubinario, eletto nel 1061 dal sinodo di Basilea con l’appoggio dell’imperatrice Agnese contro il legittimo pontefice Alessandro II (salito al soglio appena un mese prima). Deposto dal sinodo di Mantova del 1064, scomunicato e tornatosene a Parma, Cadalo continuò fino alla morte (1072) a considerarsi il legittimo detentore della tiara: ed è in quel periodo, secondo l’ipotesi-Lévi, che avrebbe potuto scegliere di diventare il pontefice degli stregoni. Che Cadalo ormai deposto e disperato potesse compilare il testo in solitudine, in un delirio da potere perduto è ovviamente possibile sul piano romanzesco, ma resta indimostrabile: tanto più che il Grimorio, almeno nella forma giuntaci, non pare medievale.
Più interessante risulta un’altra ipotesi: che l’attribuzione a un «Onorio», nome noto di pontefici, giochi insieme sull’omonimia con l’autore di un diverso grimorio, quello sì medioevale, il Libro Giurato di Onorio(o Liber Juratus oppure Sacer, Sacratus o Consecratus, o Grimorio di Onorio), in quanto attribuito a tale Onorio di Tebe. Il quale sarebbe stato un mago incaricato da una conferenza di colleghi di raccogliere la comune conoscenza in una summa, un’enciclopedia occulta in novantatrè capitoli. Menzionato come Liber Sacer già in un’opera del XIII secolo – che lo daterebbe all’Alto Medioevo – il Libro Giurato fu in effetti uno dei più antichi e influenti grimori della tradizione occidentale: il manoscritto del testo più antico pervenutoci è del XIV secolo (Sloane MS 3854, fol 117-144), e un’edizione successiva a cavallo tra XIV e XV secolo (Sloane MS 313) appartenne all’erudito/mago/agente segreto elisabettiano John Dee. Per chi sia interessato, esiste anzi un’edizione critica del testo, a firma di Gösta Hedegård, Liber Iuratus Honorii: A Critical Edition of the Latin Version of the Sworn Book of Honorius, Studia Latina Stockholmiensia 48, Almqvist & Wiksell 2002. Ora, una sezione del Libro Giurato tratta in effetti riti di scongiuro o dominio sui demoni grazie al potere divino: e potrebbe aver ispirato il nostro testo, nonché la problematica attribuzione a un pontefice omonimo.
Certo, è difficile sapere se Onorio di Tebe corrisponda a un personaggio reale di occultista del Medioevo, e non rappresenti la semplice e fantasiosa rilettura di qualche dotto enciclopedico, in un’epoca che trasfigurava Virgilio e lo stesso Dante in presunti maghi (sarebbe suggestivo pensare a Onorio di Ratisbona, o di Autun, 1080-1154, erudito peraltro dalla vita misteriosa, e autore tra le molte opere anche di una Clavis physicaedi contenuto non sospetto, il cui titolo può tuttavia lontanamente richiamare quelli di alcuni grimori, le Claviculae attribuite a Salomone). Resta il fatto che «Onorio» resterà nel tempo un nome emblematico da mago – con un destino peraltro analogo a quello di un altro nome tardoantico, Cipriano, attribuito a una sfuggente figura di stregone sparigliabile tra diversi possibili referenti storici, uno dei quali presunto autore di un Grimorio di san Cipriano (sul personaggio dovremo tornare in un prossimo articolo).
Nei fatti il Grimorio di papa Onorio – o Gremorium Honorii Magni, come titolato in una delle prime versioni – appare in stampa per la prima volta in latino, in un volume datato Roma 1629. Secondo il curatore dell’edizione italiana citata il grimorio risalirebbe «alla seconda metà del secolo precedente, e il suo compilatore si è di certo basato su tradizioni più antiche» (ed. cit., pag. 14): dunque sarebbe coevo – almeno per la base del testo, soggetto più tardi a qualche modifica – al quarto apocrifo libro a La Filosofia Occulta di Cornelio Agrippa, a stampa nel 1559. L’opera di Agrippa mancava infatti dei protocolli «pratici» per l’evocazione dei vari tipi di spiriti, donde il fiorire nei decenni successivi di testi come il «Quarto libro» o in apparenza questo Gremorium. Certo, per raggiungere risposte più certe occorrerebbe un esame puntuale delle varie edizioni circolanti, cosa che ignoro se sia stata mai effettuata: un esame anzitutto di carattere filologico, per esempio del linguaggio usato nel testo latino collazionato con quello di atti ufficiali canonici – non necessariamente bolle – di epoche diverse, per ravvisare eventuali affinità; ma anche di carattere materiale – inchiostro, carta eccetera – a fronte per esempio dell’abilità dei falsari ottocenteschi nel confezionare libri maliziosi in chiave anticlericale.
Ermete Trismegisto, Mosaico Cattedrale di Siena
La presenza però della bolla apocrifa apre un problema affascinante. È un fatto che infiniti testi sacri o magici vengano attribuiti a personaggi emblematici, il cui rapporto con l’opera resta di ispirazione ideale e non vincolato all’aspetto documentale: poco importa che sia il personaggio X (se pure esistito, si pensi a Ermete Trismegisto) ad aver fisicamente scritto quel testo, anzi più spesso sarà stato un redattore-discepolo, in rapporto più o meno diretto e tramite eventualmente la traditio/elaborazione di una comunità. Anche se l’ispirazione/paternità si consumasse in termini puramente virtuali, ben difficilmente potremmo parlare di falso a proposito di simili testi, persino quando il racconto venga condito di particolari indimostrati e talora romanzeschi sugli eventi legati alla scrittura: si tratta di miti accolti per il loro contenuto simbolico e «sapienziale», a prescindere dalla questione di un’effettiva (e pur possibile) storicità. Se il Grimorio di papa Onorio si limitasse alla raccolta dei testi e a un’attribuzione al pontefice ricadremmo dunque nella situazione descritta: un’attribuzione ideale, a «giustificare» emblematicamente l’utilizzo di elementi rituali cristiani in un contesto magico. Ma qui il caso è diverso: a coronare il tutto c’è infatti un preteso atto ufficiale, una bolla in linguaggio pseudocanonico, quindi un documento che pretende di rimandare anche materialmente, «storicamente», a un ben determinato ufficio. Chi riporti una storia o un’attribuzione può essere convinto in buona fede della sua fondatezza almeno simbolica; ma qui qualcuno ha coscientemente steso un atto fasullo. La situazione è insomma quella del falso storico vero e proprio, come la Donazione di Costantino o i Protocolli degli Anziani di Sion – e la questione intrigante riguarda la sua genesi: come e perché attribuire a un papa un centone di magia confezionando addirittura una falsa bolla. Allo stato degli atti e in attesa di più articolati riscontri le ipotesi più plausibili per la confezione del falso paiono quattro – anche se in realtà ogni ipotesi non esclude compenetrazioni con una o più delle altre. Esaminiamole.
Una prima ipotesi è quella della denigrazione. Considerata la provocatoria lettura del primato pontificio come «dominio sull’inferno» offerta dalla falsa bolla – un attacco al vetriolo sull’interpretazione dell’investitura di Pietro proclamata da Roma –, l’idea di un testo confezionato manipolando e arricchendo materiali magici preesistenti nell’ambito di un allegro gioco di disinformazione potrebbe non essere peregrina – basti pensare, per un’età più recente, proprio all’origine dei citati Protocolli degli Anziani di Sion. Lo sfondo del falso potrebbe ricondurre alle polemiche religiose che infiammarono l’Europa, e videro per esempio moltiplicare in chiave anticattolica fantasiosi (e divertentissimi) pamphlet sulla Papessa Giovanna. Si può obiettare che con tali finalità polemiche l’opera avrebbe dovuto circolare di più, ma è pur vero che troppo poco sappiamo sul contesto della sua apparizione.
La seconda ipotesi è quella della beffa. Se il testo fosse effettivamente tardo come qualcuno sospetta datandolo al Sette od Ottocento, una simile interpretazione acquisterebbe ovviamente peso: e in questo caso poco rileverebbe il dato di una scarsa circolazione, a fronte della delizia di taluni singoli lettori (un libertino alla Dashwood, per esempio) di fronte al raro libello e per contro del possibile smarrimento di devoti ingenui. Un caso di questo tipo ricorrerebbe a proposito del famoso testo De la démonialité et des animaux incubes et succubes, attribuito a un (pur esistente) padre Luigi Maria Sinistrari d’Ameno, ma più credibilmente frutto della collaborazione tra Paul Lacroix – cioè il «Bibliofilo Jacob» della cerchia di Nodier, autore di varie opere sulla stregoneria del medioevo – e l’erudito Isidore Lisieux1. L’apocrifo, che sedusse vari letterati (compreso Huysmans) e inganna ancor oggi illustri critici ed editori con le sue pagine pruriginose sull’erotica del demoni incubi e succubi2, vide le stampe nel 1875, cioè parecchi anni dopo la morte di Nodier nel ’44, ma è almeno plausibile che proprio le frequentazioni con lo scrittore, appassionato bibliofilo e inventore di almeno uno pseudobiblion3, ne abbiano costituito l’ideale coltura.
Nei primi due scenari citati il fine del falso sarebbe insomma estraneo al contenuto occulto in quanto tale (indipendentemente dal fatto che in un secondo momento esso sia stato effettivamente usato in magia). Non così nella terza ipotesi, quella della truffa per interesse, che ci riconduce a un sottobosco di operatori del magico di pochi scrupoli, arruolati da questo o quel potente, magari fuoriusciti dalle schiere «colte» del clero o formati comunque in mezzo a documenti ecclesiali. Si pensi a profili di personaggi come lo spretato monaco aretino Francesco Prelati, assoldato da Gilles de Rais quale alchimista ed esperto di arti magiche (1439), e i cui maneggi saranno determinanti nella fosca tragedia dell’aristocratico. Persone insomma che disponevano delle conoscenze di base per redigere la versione farlocca e sia pure approssimativa di un atto pontificio, e accreditarla per vera ai più vari fini – compreso il convincere finanziatori dubitosi sulla liceità di un ricorso alla magia. Davanti a un protettore interessato, un testo clamoroso come il Grimorio avrebbe potuto garantire per la preparazione del mago, le sue entrature nei segreti più imbarazzanti del mondo romano, la forza di taluni sortilegi. Considerato il profilo di taluni avventurieri, anche tale ipotesi ha una sua plausibilità.
Una delle tante versioni virtuali del Necronomicon
La quarta resta però, almeno per taluni versi, la più intrigante e si ricollega proprio al discorso più ampio sulle attribuzioni virtuali di cui sopra. Il falsario potrebbe cioè aver confezionato il documento perché convinto dell’utilità del testo a fini magici e forse dell’originaria provenienza da un papa: non potendo dimostrarlo, provvedeva lui stesso a ricostruirne l’autenticazione. Una sorta insomma di pia (o meglio empia) frode, particolarmente interessante perché già precorre idealmente il rapporto postmoderno col falso: come per quelle frange dell’occultismo contemporaneo che utilizzano il Necronomicon – nelle versioni ovviamente virtuali e fasulle circolanti in libreria – pur sapendo che è stato «inventato», giustificando il tutto con ardite speculazioni su Lovecraft medium renitente di potenze oscure, e comunque garantendo sull’efficacia pratica dei riti descritti. Un atteggiamento in fondo non distante da quello di chi, nell’orizzonte degli esothriller, pensa davvero di raccogliere il filo «vero» di una Storia che prescinda dal confronto aspro, umile e faticoso coi documenti e col loro dialogare.
[Continua – ]1 Luigi Maria Sinistrari d’Ameno, De la démonialité et des animaux incubes et succubes, testo latino e traduzione francese a fronte, Liseux, Parigi 1875.
2 Massimo Introvigne, Indagine sul satanismo. Satanisti e anti-satanisti dal Seicento ai nostri giorni, Mondadori, Milano 1994, pag. 139; cfr. anche Alain Mercier, Les Sources Ésotériques et Occultes de la Poésie Symboliste (1870-1914), due voll., A.-G. Nizet, Parigi 1969, vol. I, pagg. 240-241.
3 O meglio un’edizione – della Bibbia – così rara che se l’era inventata per liberarsi dell’importuno marchese di Chalabre: lo racconta Dumas, nel suo affettuoso e commosso ritratto di Nodier in La donna dal collier di velluto (Garzanti, Milano 2005, Introduzione di Lanfranco Binni, trad. di Orsola Nemi, pagg. 18-19), in cui cita anche il “Bibliofilo Jacob” (ivi, pag. 16). Per conoscere meglio invece il personaggio di quest’ultimo, a sia pur minimo assaggio della sua ampia produzione, si veda Bibliophile Jacob, La mia Repubblica, Biblioteca del Vascello, Bibliofollia, trad. di Enrico Ranucci, Roma 1993.