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    Aria

    La sostanza di un mito

    • di Silvia Treves
    • Gennaio 1, 2009 a 4:24 pm

    shangri la

    Luogo immaginario e mitico del famoso romanzo Orizzonte perduto di James Hilton (1933), la città di Shangri-La – ispirata a Shambala, città mistica della religione buddhista – sorgerebbe in una valle misteriosa alle pendici dell’Himalaya e sarebbe abitata da una pacifica e colta comunità intenzionata a preservare e tramandare le più alte opere intellettuali e artistiche dell’umanità. Benché Shangri-La esista solo sulla carta stampata e in una celebre pellicola di Frank Capra, a partire dagli anni Trenta molti – compreso il governo nazista, che organizzò diverse spedizioni per trovarla (la più nota fu quella guidata da Schäfer) – hanno ritenuto che esistesse davvero.
    «Perché non accontentarli?», si è recentemente domandato il governo cinese, e nel 2001 ha inventato dal nulla la sua «Xiangelila», cambiando nome alla città di Zhongdian.
    Ma come si fa a dare sostanza a un mito? Il giornalista Lawrence Osborne[1], ha cercato di scoprirlo e si è messo in caccia di Shangri-La, in compagnia di un terzetto sbiellato formato dall’autista La, un buddhista zhang del nord della Cina, e dalle due giovani interpreti Mary e Shiny, la prima cristiana e bigotta, la seconda educata da giovane comunista. Destinati a non capirsi e ognuno deciso a convertire gli altri due, i tre sono alieni l’uno all’altro almeno quanto lo sono rispetto a Osborne; nell’insieme i quattro offrono inediti punti di vista sulla spregiudicata operazione di marketing cinese, cosicché il viaggio anodino dei quattro scombinati moschettieri diventa occasione per osservazioni piuttosto inaspettate per i tanti occidentali con tendenze mistico-orientaleggianti malamente ritinte di New Age.
    Per creare il mito, scopre Osborne, innanzitutto occorrono credenziali un po’ più solide di quelle di Hilton e di Capra, ad esempio quelle fornite dal botanico austriaco Joseph Rock, studioso di rispetto che, nei non ancora sospetti anni Venti, esplorò la valle di Konka, definendola «un Mondo perduto». Rock sta alla società cinese del primo Novecento come Lafcadio Hearn sta a quella giapponese i fine Ottocento: entrambi sono diventati leggende, venerati come eroi: «Rock è diventato un’istituzione cinese, lo straniero che per primo ha convinto i cinesi di non essere in nulla inferiori agli occidentali».
    Fin dalla prima tappa del viaggio – Yuhu, dove Rock visse a lungo – Osborne scopre i metodi governativi di sfruttamento della passione degli occidentali per un folklore del quale vedono, e giustamente ricevono, soltanto l’aspetto più superficiale: c’è il recupero degli stregoni locali, che si presentano ai turisti con grandi cappelloni lobati ma che si limitano a questuare sigarette estere ripiegando, in caso di rifiuto, su quelle locali. Ci sono centinaia di cartelli nuovi nuovi sui quali ricorre martellante il nome di Shangri-La, c’è l’invito dei manifesti: «segui Rock fino a Shangri-La!» e c’è finalmente Shangri-La, fino a ieri Zhongdian, e residenza del simpatico, superstizioso e impulsivo La: un «abitato squallido e caotico, con vialoni fuori misura e un’infinità di cantieri. È una specie di incrocio fra Dayton e una città industriale di Giava» che per dormire offre alberghi cinesi moderni, spiacevolmente simili a carceri e caserme e un solo hotel di tipo occidentale, carissimo, dov’è possibile gustare una panna cotta che somiglia a budino al cacao, o viceversa.
    Accanto alla città c’è la lamasseria che il governo ha deciso di trasformare nel fulcro simbolico del mito Shangri-La. Famoso perché occupato proprio questa primavera dall’esercito cinese, il monastero è stato già saccheggiato durante la rivoluzione culturale ma adesso è al centro di un progetto governativo di recupero architettonico; poco lontano sorgerà, sulle rive di un bellissimo laghetto montano, un centro turistico con il solito gigantesco albergo-caserma. Quando non deludente, quel poco di autentico che c’è in Shangri-La resta comunque incomprensibile e diversissimo dal mitico luogo di pace agreste, come salta all’occhio semplicemente osservando le pareti del monastero della lamasseria di Songzanlin, decorate con sgargianti raffigurazioni delle divinità tantriche: dei zannuti e sanguinari, immagini violente, che, dice Osborne, richiamano i demoni di Bosch.

    Quando non è addomesticato dalla prosperità, come in Giappone, in Cina o in Thailandia, il buddhismo tira fuori una vena pessimistica, feroce. Il Tibet è tutto, tranne che un posto sereno; povertà e superstizioni lo espongono alle critiche degli atei. Nella sua arte c’è qualcosa di disperato, e di tragico.

    Costruito per impressione, scritto nello stile di riflessione poco convenzionali che non intendono cancellare la profonda ingiustizia dell’occupazione cinese del territorio tibetano ma mettere in guardia contro la creazione di miti semplicistici di pace e libertà su una terra che sarebbe «perfetta» se soltanto non ci fossero quegli altri, i cattivi. E che fanno pensare alla nostra cattiva coscienza, sempre alla ricerca di paradisi da difendere, purché non siano i «nostri», quelli che producono la nostra ricchezza o che devono accogliere i nostri sogni consumistici. Un punto di vista distorto dal quale nessuno di noi, Osborne compreso, è esente, come dimostra la sua, peraltro condivisibilissima, indignazione di fronte al progetto turistico «di massa» per ceti medioalti dei dintorni di Shangri-La «dove presto i cafoncelli di Singapore, Corea e Taiwan verranno a godersi un assaggino della leggendaria utopia himalaiana». La prospettiva è agghiacciante, certo, ma occorre ricordare che le ultime meraviglie del mondo costano: sono care in manutenzione e in utili mancati evitando di sfruttarle. Probabilmente molta gente del posto le ritiene occasioni di migliorare un basso tenore di vita, e chi siamo noi, che invece ne abbiamo uno migliore, per pretendere il loro sacrificio? Se proprio noi occidentali ci teniamo a conservarle come meritano – e a non svenderle ai cafoncelli (noi primi fra tutti) – dovremmo contribuire a mantenerle con congrue donazioni. E non pretendere snobisticamente che lo facciano «loro», rinunciando al benessere.
    Detto questo mi auguro con tutto il cuore che le mandrie di turisti chiassosi che già infestano la Bretagna dei dolmen, la povera Stonehenge e dintorni e che scribacchiano sulle colonne dei templi greci e romani e delle cattedrali gotiche vengano degnate di attenzioni particolari da parte di Satanasso. O di qualche locale divinità zannuta.

    [1] Nato nel Regno Unito e residente a New York, Lawrence Osborne ha scritto per «The New York Times Magazine», «The New Yorker», e altre pubblicazioni e autore di quattro altri libri

    Lawrence Osborne
    Shangri-La
    Adelphi
    € 5,50
    trad. M. Codignola

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