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    Biblioteca

    Nazionalismi e fuoriusciti

    • di Massimo Citi
    • Marzo 29, 2012 a 7:07 pm




    Biblioteca. 
    I libri ritrovati

    di Massimo Citi


    Un articolo dedicato a una serie di libri nati e dedicati all’estremo oriente d’Italia, ovvero alle terre di confine – ma anche di contatto, di incontro e di sovrapposizione – con l’est europeo e i Balcani.
    Singolare sorte di molte terre di confine è di essere normalmente dimenticate ma di assumere improvvisamente urgenza e importanza quando divengono ostaggi della propaganda politica o quando costituiscono elementi centrali di inattesi accessi di nazionalismo. «Il nazionalismo è l’ultimo rifugio delle canaglie», ebbe a dire Winston Churchill e mai come negli anni della guerra nei Balcani, quando con una certa incredulità si assistette all’imprevista rinascita di nazionalismi feroci e talvolta criminali, ci trovammo costretti a ragionare sulla base di categorie assurde e potenzialmente letali come «etnia» o «radici religiose».
    La distruzione della Federazione Jugoslava, la guerra in Bosnia e in Serbia, la pulizia etnica non sono una spiacevole parentesi da dimenticare o frammenti impazziti di una crisi locale. Nella Bosnia sedata ma non pacificata si addestrano i guerriglieri musulmani che fanno riferimento alla galassia di Al-Quaeda, anche qui come in Afghanistan a suo tempo organizzati e sostenuti dagli interessi occidentali e statunitensi in particolare.

    Ma anche qui, nella nostra sempre meno ricca e pacifica Italia, non abbiamo motivi per sorridere o rassicurarci. La barzelletta della Padania – che può scivolare da un momento all’altro nell’incubo – è nata negli anni Novanta, come affermazione di un nazionalismo che può apparire assurdo e risibile in quanto mancante di una «nazione» reale alla quale far riferimento, ma che in forma frammentaria, disorganica e sovente grottesca emerge a tratti nei documenti del governo. Quando nella cosiddetta riforma della scuola si fa riferimento alle radici cristiano-giudaiche dell’Italia, quando si pone e s’impone il crocifisso come simbolo nazionale ci si avvicina pericolosamente al contorto e assurdo concetto di Razza Latina caro a Telesio Interlandi e al suo La difesa della Razza.

    Le «canaglie» sono perennemente alla ricerca di nuovi argomenti di scontro e di nuovi elementi di divisione, verrebbe da pensare.

    L’interesse di LN per le aree di confine e per le culture ibride, spurie, fecondate che vi nascono – e spesso vengono estirpate – nasce da un crescente senso di disagio nei confronti di un offuscarsi della ragione politica e per l’infausta rinascita di concetti e divisioni che forse troppo ottimisticamente pensavamo rimossi dal bagaglio della politica.

    Verso dove, scritture di confine da Merano a Trieste, antologia curata da Laura Mautone e nata dall’iniziativa dell’associazione culturale Fragment-a, associazione culturale bilingue che «si dedica, sul versante della letteratura, alla valorizzazione e alla tutela delle diversità attraverso la forza dell’incontro e del dialogo».

    Questa antologia permette, a chi lo desidera […] un lungo respiro, un viaggio tra le identità come luogo di incontro tra differenti culture. È in gioco il coraggio di una visione nuova della convivenza, tanto più urgente quanto più necessaria in un’Europa dalle rinnovate ideologie etniche.


    Raccoglie quindici autori di lingua italiana, tedesca o slovena, nati o residenti tra Merano e Trieste, un arco e un gruppo di autori di un’area geografica ben delimitata che rimanda inevitabilmente alla Mitteleuropa asburgica – la Kakania detestata da Musil – riferimento a un’apparente quanto remota pacificazione.

    Punto di partenza arbitrario per presentare l’antologia un intervento di Ugo Spirito, autore, tra l’altro, de Le indemoniate di Verzeugnis (Guanda) e di Speravamo di più (cfr. LN 26). Poco meno di cinque pagine ospitate nella sezione Orizzonti geografici e dedicate a un tipo particolare di traffico: di persone e di vite.
    Hravatini (in italiano Crevatini), «a un quarto d’ora di macchina da Trieste» è il luogo di passaggio dei contrabbandieri di anime. Qui si trovano i passeurs che fanno da guida ai gruppi di clandestini che vogliono passare la frontiera per giungere al «sogno che non tramonta di un Occidente da raggiungere a ogni costo».

    Un contrabbandiere d’anime può guadagnare fino a mille euro a notte. Dipende dai clandestini, da quanti sono e da dove vengono. Il lavoro è facile ma il rischio è alto. Essere sorpresi da carabinieri o polizia […] comporta l’arresto immediato. A seconda dell’itinerario scelto ci sono da affrontare anche insidie nascoste: grotte, forre, dirupi. I sentieri meno controllati sono i più pericolosi e ogni tanto, la notte, si consumano tragedie spesso destinate a rimanere avvolte nel silenzio.

    Romeni, kosovari, albanesi, filippini, cinesi. I silenziosi invasori della «patria padana», pronti a offrirsi alla «piccola e media impresa del Veneto». Trieste e il suo entroterra divengono così il «non-luogo», la «regione di passaggio che nessuna globalizzazione è ancora riuscita a omologare».
    Ma il «non-luogo», la terra di tutti e di nessuno, il frammento di passato mai dimenticato è realtà o un semplice suggestione narrativa?
    Secondo Miran Košuta, triestino di lingua slovena, autore de La profezia di Dzevad, ancora un intervento, non un racconto:

    scoprire le diversità dell’altro significa chiarire le nostre intime diversità, varcare una frontiera vuol dire superare anche i confini dentro di noi e aprirsi al vicino, sconfiggere i nostri limiti, pregiudizi e paure. […] Qui nella terra di nessuno tra la mia cultura e quella confinante trovo patria. […] Non credo perciò alla ghettizzazione etnica, rifuggo le riserve amministrative o territoriali.


    La convivenza, la ricchezza dell’incontro tra culture diverse, l’armonia dopo più di un secolo di odii, scontri e contrapposizioni politiche e nazionali non può nascere spontaneamente, ma nemmeno essere esclusivamente parte di un programma politico. Anche se la colpevole mancanza di iniziativa può determinare il riaffermarsi e il radicarsi di nazionalismi nati dal rancore, dalla paura, dalla sensazione di abbandono:

    Il destino dell’appartenere a una minoranza si consuma sempre nell’attesa di un Godot: aspettando le scuole slovene nella provincia di Udine, le tabelle bilingui, l’uso della propria lingua nelle assemblee elettive, un conservatorio di musica, l’attuazione di una legge, aspettando, aspettando, aspettando…

    Danilo Kiš ebbe a definire il nazionalismo «una malattia mentale», citazione che rubo volentieri a Košuta. Ma la difesa della proprie identità e della propria lingua non è parte di questo genere di nazionalismo. Il «non-luogo» mostra qui il profilo di una terra forzatamente italianizzata, tanto enfaticamente italiana da diventare improbabile e grottesca.
    L’incontro linguistico, l’ibridazione, il gioco e lo sgambetto semantico sono al centro del racconto di Kenka Lekovich, Smòlcik e Krèmšnita. Due personaggi dall’identità inafferrabile e incostante esattamente come i loro nomi, viaggiatori senza meta e creature senza patria né lingua propria.
    Così Smòlcik e Krèmšnita hanno risolto il problema della lingua e della terra: viaggiando costantemente in treno, essendo felici durante il viaggio e inconcepibilmente tristi all’arrivo in un luogo, qualunque esso sia. Si educano da soli, i due bimbi, trasognati e a modo loro felici abitanti/ non-abitanti delle terre di confine e di tutti i possibili non-luoghi della zona.
    Non-luoghi dove si parlano non-lingue, ovvero frammenti, sfrighi, impasti di parole e di concetti in tedesco, triestino, croato, sloveno, ungherese.


    Smòlcik e Krèmšnita sono ricchi di parole e di concetti, pensano quanto più pensabile e dicono il più possibile grazie alla loro natura multiforme e anfibia. Incarnano una perfetta chimera, Wunderkinder che vivono di «putizze», brezel, krapfen e gulash, che «papuzzano», sporchi di apfelsaft, liberi dai genitori come dalla cittadinanza.

    I bambini di madrelingua tedesca invece disegnano der Mond, la luna, come un anziano signore saggio e distante e die Sonne, il sole, come una donna radiosa con il naso piccolo e le labbra sorridenti. […] Ogni lingua in pratica ha una sua struttura molecolare che la fa diventare lingua madre, lingua capace di generare il medesimo immaginario in tutti i suoi parlanti.

    Komisch, di Marco Aliprandini, introduce così il tema della separazione tra le culture, situandone almeno alcuni elementi nelle radici profonde delle lingue. Nel suo racconto il protagonista si forza di ridurre gli elementi di separazione, le diversità a elementi sempre più piccoli: agli articoli che definiscono il genere, ai colori del lutto, al senso profondo della parola. Un racconto che è anche riflessione e interrogazione sulle parole.
    Verso dove, antologia nata in diverse lingue e unita da un labile legame geografico si rivela alla lettura un testo inaspettatamente unitario, un fitto e continuo scambiarsi di posizioni, di riflessioni e di lingue. Di piccole storie personali, di ricordi netti e dolorosi o sfumati dalla nostalgia. Un’operazione che crea speranza.
    La pubblicazione di Verso dove fa seguito a quella di Kleiner Brevier des Symbols / Fahne – Piccolo dizionario del simbolo / Bandiera. Mentre il Piccolo dizionarioraccoglieva la produzione i 39 autori sudtirolesi, Verso doveraccoglie i contributi di quindici autori ed è nata, nelle parole di Fragment-a, dall’esigenza di:

    allargare lo sguardo a a situazioni sociali, culturali, linguistiche simili a quelle dell’Alto Adige – Südtirol […] terre nelle quali la pluralità di connotazioni storiche e delle relative espressioni sociali e culturali e la comunicazione tra esse, seppure a tratti faticosa, consente di vivere e rappresentare la possibile ricchezza della diversità.


    Odii e incomprensioni nelle terre di confine dell’estremo oriente d’Italia raggiunsero probabilmente il punto di massima intensità negli anni che precedettero e seguirono la fine della Seconda guerra mondiale, quando lo status politico della zona di Trieste fu a lungo incerto e l’intera zona conobbe la violenza delle vendette e dei regolamenti di conti, culminati nell’orrore delle foibe, caverne naturali dove le formazioni partigiane jugoslave gettarono migliaia di italiani non sempre realmente compromessi con il regime fascista. Fu in quel clima di vendetta e sospetto, nel pieno di una situazione internazionale dove si moltiplicavano i segnali di una possibile nuova guerra, che duemila operai dei cantieri navali di Monfalcone lasciarono l’Italia con le famiglie per sostenere con il loro lavoro la neonata Repubblica Socialista Federativa Jugoslava.

    Di questo episodio pochissimo noto, nascosto e rimosso dai suoi stessi protagonisti parla il libro di Andrea Berrini, Noi siamo la classe operaia, i duemila di Monfalcone, edito da Baldini Castoldi Dalai.
    Nel 1945 i cantieri di Monfalcone, bombardati dalle forze alleate erano ormai l’ombra di un complesso industriale. Negli anni precedenti a lavorarvi era un’aristocrazia operaia di uomini che sapevano e soprattutto amavano costruire navi e aerei, di mistri (maestri) fieri della propria destrezza, del proprio talento e della propria indipendenza politica, un riflesso di quella lavorativa.

    Brigata Proletaria

    Per molti di loro la neonata Jugoslavia dovette apparire una terra di occasioni e di speranze. L’Italia, giunta a Trieste con la vittoria della Prima guerra mondiale, aveva voluto dire per loro semplicemente oppressione. Il fascismo, complice e sostenitore dei proprietari dei cantieri, aveva dedicato tempo e risorse alla distruzione del tessuto di auto-organizzazione operaia finendo per rappresentare agli occhi l’aspetto predominante della presenza italiana.

    Per gli operai di Monfalcone, in gran parte comunisti di stretta osservanza terzinternazionalista, il problema della nazionalità si rivelò così largamente subordinato all’opportunità di lavoro e di vita dei cantieri fiumani.
    Non solo, ampi settori dello stesso Partito Comunista della Zona B erano aperti sostenitori di una soluzione politica che vedesse l’intero Friuli orientale aderire alla federazione Jugoslava in nome della comune fede nel socialismo.
    Ma per i duemila la realtà si rivelò nel volgere di pochi mesi ben diversa dalle loro speranze. La cantieristica jugoslava era tecnologicamente arretrata, le città povere, le maestranze inesperte. I mistri giunti dall’Italia, l’occupante soltanto di qualche mese prima, erano guardati con sospetto e antipatia, isolati, controllati. La frattura del governo jugoslavo con Stalin fu il segnale del definitivo fallimento della loro esperienza. I mistri di Monfalcone, infatti, nel nome della fedeltà alla patria del socialismo si schierarono in gran parte con Stalin, subendo gli arresti e la persecuzione della polizia segreta titoista. Alcuni finirono a Goli Otok, campo di concentramento per detenuti politici, la maggior parte fecero ritorno in Italia dove, segnalati come comunisti, non riuscirono a riprendere il loro lavoro.

    Goli Otok

    Un’esperienza tragicamente fallimentare che, come nella Guerra civile spagnola, vide ciò che era nato come sogno di libertà e giustizia diventare ostaggio di fratture e scontri internazionali.

    Adesso, a quasi cinquant’anni da allora, scomparso il comunismo storico e scomparsa la Federazione jugoslava, Berrini ha tentato una ricostruzione degli eventi basata sulle testimonianze dei sopravvissuti, incontrati in Italia, in Slovenia e in Croazia. La raccolta dei racconti orali forma l’asse centrale del libro anche se, correttamente, Bertini non si preoccupa di raggiungere una conclusione unica e definitiva della vicenda né, tanto meno, di azzardare un giudizio storico o morale. A lui, come al lettore, resta la sensazione di avere toccato e almeno in parte compreso una visione del mondo – fatta di orgoglio, senso del dovere, coerenza e rispetto per se stessi – che dà alla vicenda dei duemila di Monfalcone e dei 503 caduti della Brigata Proletaria un sapore di tragedia classica.

    Se molti tra gli intervistati concludono che la partenza per la Jugoslavia fu un errore, in pratica nessuno di loro rinnega le motivazioni profonde che li condussero a quella scelta.


    ciò che mi sembra di avere imparato ascoltando i racconti di tutti questi uomini e donne, è che non c’è stato un manovratore occulto. Le loro vite sono andate in un certo modo perché essi così hanno deciso. […] Hanno voluto dare, è il caso di dirlo, l’assalto al cielo. La grandezza delle loro storie, il fascino che non possono non esercitare su chi li ha seguiti, siano un stimolo a non cedere mai all’idea che nel mondo decidono solo i potenti e i piccoli uomini debbano stare a guardare, cercando di limitare i danni. Visione che a me sembra uno dei mali del mondo presente.

    […] Io non so se abbiano avuto ragione o torto, nel febbraio del ‘47. So che l’esperienza – e l’esistenza – dalla quale in un modo o nell’altro sono riusciti a venire fuori, li fa più belli oggi.

    A conclusione di questo spazio dedicato al nord-est estremo un libro curioso: storia, memoria e insieme omaggio appassionato a Trieste, città che riassume inevitabilmente in sé la storia e le contraddizioni di quest’angolo di terra, sospeso a metà tra l’Italia, i Balcani, l’area germanica e l’Europa dell’Est. Si tratta di Trieste o del nessun luogo di Jan Morris, il Saggiatore 2003.

    Jan Morris, più noto come James Morris, il nome che portava prima di cambiare sesso nel 1972, è un cronista viaggiatore, un genere di scrittore candido e appassionato ma anche attento osservatore che richiama inevitabilmente alla mente talune remote corrispondenze di epoca vittoriana, scritte con lo stesso raffinato e partecipe distacco. Perdonate l’ossimoro, ma se vi capiterà in mano il libro e lo sfoglierete potrete facilmente afferrare il senso di questa apparente contraddizione.


    Jan Morris, allora ancora James Morris, è stato a Trieste da militare, nel periodo dell’occupazione alleata e questo primo contatto con la città è stato per lui, almeno da un certo punto di vista, fatale. Trieste è stato uno dei principali porti europei fino alla caduta dell’Impero Austroungarico. Negli anni del suo massimo splendore la città era un punto di passaggio obbligato tra l’Europa e l’Oriente e sia dal punto di vista culturale che sociale costituiva un unicum, riunendo nel piccolo spazio chiuso tra il Carso e l’Adriatico una pluralità di lingue, di iniziative e di contatti internazionali.

    La Trieste di allora, cosmopolita e vivace, era un’invenzione asburgica, una città progettata per divenire il principale porto di un impero sostanzialmente continentale. Trieste era lo specchio della pluralità di lingue e di culture della Mitteleuropa asburgica, tollerante anche in rapporto alla suo funzione commerciale.
    La fine dell’Impero Asburgico segnò l’inizio della decadenza della città, una decadenza che senza mai divenire crollo drammatico l’ha accompagnata per buona parte del XX secolo. L’Italia non aveva bisogno di Trieste, spiega Morris, aveva altri ottimi porti e traffici commerciali ormai consolidati che facevano capo ad altre città. Nel corso del ventennio la fascistizzazione della città non riuscì a cambiarne profondamente natura e carattere.
    La Trieste del dopoguerra, a lungo ostaggio delle grandi potenze vincitrici e riempitasi di profughi istriani e sloveni, rimase comunque appartata e separata dal resto dell’Italia e dallo stesso Friuli, terra montagnosa e ruvida che mai aveva riconosciuto come propria l’ex-metropoli mitteleuropea.
    Segnata da un passato glorioso che sopravvive nelle architetture e nelle insegne (Stazione / Bahnhof è tuttora scritto sulla principale stazione ferroviaria della città), multilingue e multireligiosa – in un’area di poche centinaia di metri quadrati del centro cittadino si trovano due chiese cattoliche, una chiesa protestante, una moschea e una chiesa serba-ortodossa – Trieste è una città dal fascino sottile e persistente, italiana per definizione geografica, ma terra senza tempo e senza bandiera per elezione.
    Nel tentativo di ricostruire i motivi del suo fascino Morris ne ripercorre la storia, racconta dei personaggi che l’abitarono – tra i tanti Nietzsche, Joyce, Rilke, Winckelmann, Burton – dei ricchi traffici e delle tante sconfitte.
    Capitale morale dei non-luoghi, ovvero i luoghi che non appartengono a nulla e a nessuno, Trieste finisce qui per assumere curiosamente i colori di un mondo nel quale termini come nazione e nazionalismo possono finalmente essere destinati all’oblio, nonostante i tardivi conati di localismo e/o di presunta ritrovata etnicità.
    Io che ho passato buona parte della mia infanzia a Trieste, alla pari di Jan Morris sono ben conscio del fascino della città, dell’emozione che danno certe sere al tramonto i palazzi del lungomare silenziosi di fronte al mare, della sensazione del tempo che scompare e scivola via come una finzione, dei volti e delle lingue che si confondono e si sovrappongono. Anch’io non so trovare una ragione a questo fascino che continua a resistere a tutte le infinite retoriche locali sull’Austria Felix e sulla Mitteleuropa perduta.
    Così, come Jan Morris non posso che arrendermi e desiderare di tornarvi ancora una volta. Esistono misteri che non è importante svelare.

    Ass. Cult. Fragment-A
    (a cura di Laura Mautone)
    Verso dove
    Scritture di confine da Merano a Trieste
    Fernandel 2003, 
    pp. 155, € 12,00


    Andrea Berrini
    Noi siamo la classe operaia
    Baldini Castoldi Dalai 2003, 

    pp. 244, € 13,80
    qui anteprima libro



    Jan Morris
    Trieste. O del nessun luogo
    Il Saggiatore, 2003,

    pp. 224, € 15,00
    idem 2004, € 10,00

    Trad. Budinich P. 

    da LN-LibriNuovi 29 – marzo 2004

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