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    TerraNova

    Spire d’Oriente, immaginario d’Occidente (I parte)

    • di Franco Pezzini
    • Giugno 30, 2012 a 4:16 pm

    di Franco Pezzini

    [Il testo di seguito presentato, e suddiviso in due puntate, rappresenta uno stralcio della relazione dell’Autore dal dittico Il bacio della Donna Serpente. Percorsi iconologici nel Femminile allarmante tra Oriente e Occidente: dagli stereotipi alla fascinazione esotica, a cura di Franco Pezzini e Massimo Scorsone, presentato al Convegno Tra arte e letteratura, tra Italia e Giappone, Accademia Albertina di Torino, 2-5 febbraio 2010, in concomitanza con la Mostra Dall’ukiyo-e all’illustrazione contemporanea: la grande grafica giapponese (14 gennaio-14 febbraio 2010). Il testo completo è stato pubblicato negli Atti del Convegno, sul numero 73 di Maggio 2011 della rivista di Arti, Scienze e Cultura Porti di Magnin edita dall’associazione omonima, nello speciale letterario Magnin Litteraire n. 8 (pagg. 67-132) – a cui naturalmente si rinvia. F.P.]

    Introduzione


    Nel confronto con un paese geograficamente lontano è inevitabile prendere atto degli stereotipi che gravano sulla nostra visione e nutrono le mitologie di massa. Le stesse categorie di Occidente e Oriente, come tutti sappiamo, non si consumano sul mero piano geografico, e tendiamo quasi istintivamente ad associarle a costellazioni di valori, suggestioni dell’immaginario e banali pregiudizi. Il confronto con l’Oriente – termine equivoco e infinitamente composito – ha del resto rappresentato per l’Occidente un motivo di riflessione e spesso di crisi. Pensiamo alla Grecia, che già ravvisava nel rapporto con l’Oriente – di Troia ma soprattutto del Gran Re persiano – una sorta di opposizione naturale, pur riconoscendone l’antichissima dignità culturale. Pensiamo a quella Roma che aveva visto nell’Oriente ilmodello contrapposto: emblematica la descrizione virgiliana, nel libro ottavo dell’Eneide, dello scontro tra Ottaviano (futuro Augusto) e i re dell’Asia attorno all’arciseduttrice Cleopatra e al sedotto Antonio. Una descrizione iconografica, visto che il quadro è offerto dalla scudo di Enea, che effigia a sbalzo – potremmo dire a fumetti – tutta la futura gloria di Roma:

    La regina, nel mezzo, chiama col patrio sistro le schiere,
    né ancora si volta a guardare alle spalle i due serpi.
    Mostri e dèi d’ogni dove, e Anùbi, che latra,
    contro Nettuno e Venere e contro Minerva
    impugnano l’armi […]1

    Dove, notando fin d’ora di sfuggita «i due serpi» associati a Cleopatra, ciò che esprime il suo Oriente è una galleria confusa di mostri e di dei, compreso il latrante Anubi, contrapposti ai numi di Roma garanti di ragione e buon diritto. Ma pensiamo ancora ai secoli di confronto con un Oriente islamico avvertito insieme come pericoloso e affascinante, fino alla necessità di censurare Le Mille e Una Notte o bruciare decisamente nel caminetto le memorie di tanta seducente empietà – come farà la vedova dell’esploratore Sir Richard Burton con le sue carte madide di perversioni orientali.


    Sir Richard Burton

    Tutto questo, si dirà, non riguarda strettamente il Giappone: ma è pur vero che la terra per antonomasia del Sol Levante è investita a pieno diritto da una categoria «Oriente» che progressivamente, attraverso esplorazioni e commerci, si è allargata attraverso l’Asia: per i Greci si trattava di Fenicia e poi di Persia, più avanti sono state le Arabie e le Indie, quindi la Cina e infine il Giappone. Ma c’è un secondo motivo per trattare il tema in questa sede: stiamo parlando di immaginario collettivo, e nessun’altra cultura di massa del continente asiatico è oggi tanto attenta alle dinamiche dell’immaginario quanto la nipponica, col suo lussureggiante sincretismo di motivi tradizionali e imprestiti d’Occidente creativamente riletti – come l’esposizione qui presente ben documenta. Mitologie giovanili, cinema di genere, fumetti eccetera… Basti rammentare le originalissime riletture del mito del vampiro: se per noi Dracula irrompe nella civile Inghilterra vittoriana quale icona di un Oriente dei tiranni e degli harem, in parecchi film e fumetti giapponesi reca piuttosto il sapore di un Occidente in fondo altrettanto esotico. Dove il distinguo non sta ovviamente nella collocazione fisica della Transilvania (in rapporto, rispettivamente, all’Inghilterra e al Giappone) ma nell’associazione a miti e stereotipi su una cultura altra.

    In tale luce un tema che ci sembra suggestivo proporre riguarda quel Femminile allarmante che i più vieti cliché occidentali imbevono di esotismo, e riconducono appunto a un Oriente predatorio e seduttivo. Dove lo stereotipo geografico si sovrappone a quello sociale e sessuale della femme fatale, devastante per il Maschio e deviante da un modello consolidato di «buona moglie» (dunque portatrice di una sessualità libera) e di «buona madre» (dunque portatrice di una sessualità non riproduttiva). Gli esempi si sprecano, tra mitologia e una storia letta spesso con categorie altrettanto mitologiche: Medea, la dark lady dell’orientalissima Colchide; la lussuriosa e incestuosa regina assira Semiramide; la regina di Saba che la Bibbia mostra ospite di Salomone, e attraverso infinite rielaborazioni favolose quale Regina del Mattino transita dall’antichità al decadentismo fantastico; la già citata Cleopatra, signora di un Egitto ellenizzato espressione però di quel modello dei potentati dell’Asia cui la propaganda romana si compiaceva di contrapporsi; le infinite Salomè dell’arte, con il mito di una danza fatale, circonfusa di erotismo ed esotismo, che troverà ricadute ancora nella pasticciata epopea orientaleggiante di Mata Hari. Salomè che, per inciso, otterrà una delle più straordinarie espressioni iconografiche, a corredo dell’opera di Wilde, grazie alla libera rielaborazione di modelli giapponesi da parte di Aubrey Beardsley. E ancora, è suggestivo ricordare come la dea Diana trasfigurata in età postromana, all’avvio di quella storia notturna che condurrà al Sabba delle streghe, venisse conosciuta come Madonna Oriente. Ma la galleria continua con la femme fatale Angelica dei Catai, che Ariosto mostra devastare il fronte cristiano più di tutti i contingenti dei Mori; l’ammazzauomini Turandot, cinese ma dal nome persiano come a presentare in se stessa un compendio dell’Oriente che ama e che strazia (Turandokht cioè «figlia di Turan», come sorge dalla raccolta persiana Hezar o-yek shab, Il Libro dei Mille e Un Giorno, trad. francese Les Mille et un jours di François Petis de la Croix, 1722); le vampire di quelle Indie d’Europa che sono i Carpazi; e le altre infinite femme fatale del romanzo di genere e poi del cinema. Come nel finto Oriente evocato dall’americanissima signora Theodosia Goodman, che, non potendosi chiamare Buonuomo con i film che faceva, assunse il nome d’arte di Theda Bara – presunto anagramma per «Arab Death» e insieme volute assonanze funebri italiane – e per lei fu coniato il termine «vamp»2.

    Venuta da lontano nel nostro mondo, è la divoratrice esotica a mettere alla prova il Maschio, come la Regina di Saba (spesso considerata divoratrice di bambini o strega demoniaca, e magari identificata con l’arcidiavolessa Lilith); oppure è lei ad accoglierlo nell’Altrove, seducendolo come fa Cleopatra con Cesare e poi con Antonio – tutti temi che torneranno nel gotico di vampire. La seduzione recata da queste divoratrici orientali può peraltro non consumarsi nel dato banalmente erotico: si pensi alle numerose ispirate e papesse imbevute di Orienti meticci e magari posticci che sulle orme dell’antica ierodula (e già prostituta) levantina Elena di Tiro compagna di Simon Mago hanno dominato spiritualmente gli adepti dei più improbabili cenacoli tra Otto e Novecento. Un collasso tra esotismi di maniera ed effettivi sincretismi di aree culturalmente eterogenee come l’Europa orientale (influenzata da miriadi di tradizioni locali e da filoni eretici dei tre grandi monoteismi) che precipita nella letteratura d’epoca: un esempio tra tutti, quella principessa Assia Chotokalungin de Der Engel vom westlichen Fenster (L’Angelo della finestra d’occidente) di Gustav Meyrink, 19273, venuta dall’Oriente delle iniziatrici equivoche e tornata dalla morte quale succubo a tentare il protagonista, sorta di vampiro dell’anima. Mentre spingendoci verso terre più remote incontriamo la figlia di Fu Manchu, esperta nei più raffinati supplizi cinesi, e tutto un ampio pelago di Dragon Lady del fumetto. Com’è noto, il termine – occidentalissimo – «Dragon Lady» riferito a misteriose dominatrici dell’Estremo Oriente fu ispirato dai personaggi interpretati dall’attrice cino-americana Anna May Wong, e compare per la prima volta (almeno nell’accezione oggi in uso) nel 1935, nella saga a fumetti Terry and the Pirates di Milton Caniff. Tutte queste figure avrebbero in comune di insidiare lo spazio del Maschio da Orienti più o meno lontani: e in effetti i timori manifesti in simili fantasmi culturali rimandano davvero, per quanto in forma distorta, al primo e remoto sole della cultura umana – quella sorta al cospetto e sotto il patrocinio della Grande Dea.

    In questi termini, l’orizzonte è estremamente vasto. A circoscriverlo di necessità, vorremmo stasera focalizzare il discorso su una sua declinazione particolare: e cioè quell’associazione donna/serpente che nutre con potenza le fantasie occidentali, e spesso nel segno dell’esotismo ha avuto un’importanza capitale nello sviluppo del fantastico moderno. Un’associazione che però trova al contempo interessanti riferimenti anche nell’immaginario dell’Estremo Oriente, sia pure in termini molto diversi. La relazione che segue muoverà perciò su due fronti: da un lato le fantasie occidentali, su cui si intratterrà chi vi parla; dall’altro un itinerario negli Orienti vicino e remoto curato da Massimo Scorsone.

    1 – L’alba della Donna Serpente in Europa

    L’associazione tra donna e serpente affonda in un passato remotissimo. Non casualmente il racconto mediorientale cucito più tardi nel testo del Genesi (3, 1-19) richiama una dialettica delle origini tra Eva, «Madre di tutti i viventi» e un serpente-trickster poi associato al demonio: un serpente dunque in rapporto col Femminile e custode, in qualche modo, di un certo albero speciale entro un giardino ai confini del mondo – sia esso a Oriente come l’Eden, o a Occidente come il Giardino delle Esperidi sorvegliato dal drákon Ladone (nelle antiche narrazioni gli estremi tendono a confondersi). Un topos, insomma: anche se, di questa dialettica tra donna e serpente, nel testo finale riorganizzato dai sacerdoti di Gerusalemme l’elaborazione teologica offrirà echi interiori di particolare profondità.

    Che il serpente sia noto ai simbolismi di un po’ tutti i popoli non è strano: l’uomo è sempre stato colpito da questo animale senza zampe e con un inquietante sguardo fisso, capace di assumere una forma a spirale, di insinuarsi nel terreno e colpire talvolta col veleno, capace persino di cambiare pelle e dunque simbolicamente rinascere. E le stesse caratteristiche contrastanti riconosciutegli – falsità ma anche fedeltà come custode, tossicità e legame con la medicina, rinascita e senescenza vendicativa – muovono nel segno della più radicale ambiguità. Immagine, in fondo, della vita stessa e dei suoi misteri.


    Mosaico del XII secolo

    Non stupisce dunque che l’associazione tra Femminile e icona del serpente sia documentata con chiarezza fin dal Paleolitico Superiore. Ai fini dello stereotipo che andiamo indagando occorre esaminare la situazione dell’antica Europa, ma alcune considerazioni sono senz’altro valide anche per le culture coeve orientali. È infatti dalle nebbie di quel remoto passato che sorgono le Dee – o forse la Dea, anche se è molto difficile definire precise coordinate teologiche dal nostro parapetto sull’abisso del tempo. Declinato al singolare o invece al plurale, il Femminile divino è oggetto di culti organizzati in forme diffuse e durature, come attestano interi filoni di reperti: si pensi solo, per il Giappone, all’evoluzione che condurrà ai Dogū in forma di Dee Madri del tardo periodo Jōmon.

    Possiamo soltanto immaginare la latitudine che i teologi di quell’evo lontano attribuivano al potere della Dea. Già gli studi ottocenteschi di Lewis H. Morgan (The League of the Ho-dé-no-sau-nee, or Iroquois) e di Johann Jakob Bachofen (il celeberrimo Das Mutterrecht del 1861) hanno dissepolto, attraverso tracce di antichi istituti americani, asiatici ed europei, un «diritto della Madre» diffuso un po’ ovunque in epoche ancestrali; ed è autorevolmente accettato che l’attenzione adorante per la Natura caratterizzasse una società armonica e pacifica – una società poi cancellata in gran parte dell’Eurasia dalle grandi migrazioni di bellicosi allevatori con pantheon dominati dal Maschio. Tale il quadro indiziario di fondo: anche se tale lettura fortemente polarizzata sul piano sessuale è poi stata enfatizzata per motivi ideologici anche molto diversi, e talora opposti – i cultori del «maschio» arianesimo da un lato, certe letture in chiave femminista dall’altro – a volte ben oltre i limiti delle prove scientifiche.

    Ma veniamo al nostro serpente. Marija Gimbutas, la pioniera dell’archeomitologia che nei suoi studi ha distillato un glossario fondamentale del culto della Dea Madre dell’Europa neolitica (7000-3500 a.C.)4, evidenzia alcuni ambiti principali della sua azione – Dispensatrice di vita, Terra eterna che si rinnova, Signora di morte e rigenerazione, di energia e di sviluppo – con una complessa serie di sottocategorie per filoni documentali e tipologie simboliche. E tra le innumerevoli figurazioni di una Potestà cosmogonica venerata per tanti millenni, e che pare accompagnare i primi passi della cultura (filatura, tessitura, metallurgia, musica) la Dea Serpente ha un ruolo particolare. Fin dalla metà del VII millennio a.C. troviamo sigilli di argilla con motivo a spira di serpente che probabilmente fungevano da insegne della Dea nella sua epifania serpentina: e sulle antiche ceramiche il motivo aumenta costantemente d’importanza, raggiungendo l’apice tra il 5000 e il 4000 a.C. e determinando il sorgere di un’intera arte a spira di serpente. Dall’Anatolia alle Isole Britanniche, dalle Alpi all’Egeo il motivo a spira connota templi in miniatura o altari dedicati alla Dea, piatti e coppe rituali, amuleti e ortostati (si pensi a Newgrange in Irlanda). E spesso la spira è associata a simboli acquatici, a varare un’associazione che il mito declinerà attraverso infinite storie di draghi legati alle acque.
    Il serpente, comunque, sembra associato sempre alla Dea: e tra le statuette preistoriche non è stato finora identificato un corrispondente maschile. Solo più tardi troviamo attestazioni documentarie di figure divine maschili: tra le più antiche è il preindoeuropeo Hermes, originario di una regione conservatrice come l’Arcadia, e associato al fallo e al serpente, dio di fertilità ma anche infero.
    Nel Neolitico la Dea Serpente è sempre raffigurata accovacciata, a vari livelli di antropomorfismo: gli arti sembrano talora veri e propri serpenti; la testa è coronata o con riccioli a spira, e se umana ha forma allungata; mentre le raffigurazioni stilizzate recano linee dipinte che richiamano il serpente. E una continuità si ha nelle figure dell’età del Bronzo, dove la corona della Dea – come in una terracotta del Medio Minoico trovata a Kophina – svela sul retro un viluppo di serpenti che sembra preludere all’immagine di Medusa. La corona è in effetti fin dal VII millennio a.C. la caratteristica più ricorrente della Dea Serpente, e il folklore tratterrà frequenti memorie di serpenti coronati. Comunque la Dea Serpente appare diffusa nell’età del Bronzo e poi del Ferro ben oltre i limiti dell’Egeo: troviamo attestazioni in Germania occidentale, in Danimarca, in Scozia tra i Pitti.

    L’adorazione neolitica della Dea-Serpente in case-santuario ha fatto pensare a misteri di morte e rigenerazione; ma essa era anche onorata nei sacelli domestici come divinità del focolare, e ancora in tempi storici l’uso di tenere serpenti vivi in casa appariva funzionale a perpetuare vita, salute e crescita.
    D’altra parte, nonostante gli accentuati caratteri sessuali che spesso connotano le immagini, la Dea e le sue proiezioni tarde risultano irriducibili alla vecchia categoria interpretativa di «dee della fecondità»: esse sono infatti molto di più, e mantengono una dignità regale anche quando ufficialmente i mitologi le derubricano a semplici madri, mogli o figlie degli dei maschi. Per il mondo greco si pensi in particolare alla dea-regina Era, in origine un’importante Dea-Serpente con il cui minaccioso potere – tardivamente caricaturato nella forma di gelosia verso il coniuge Zeus intento in scappatelle – devono fare i conti parecchi personaggi mitologici. Cominciando da quell’Eracle, «Gloria-di-Era», che in origine doveva essere semplicemente un suo paredro: e guarda caso, nella versione canonizzata dai mitologi classici, il primo contatto tra lui ed Era avviene nel segno dei serpenti che l’eroe fortissimo avrebbe strozzato in culla. Di fronte alla notissima statuetta cretese di una sacerdotessa – o piuttosto una dea, forse la stessa Era – che regge nelle mani due serpenti, si può interpretare l’immagine analoga del piccolo Eracle non quale atto di difesa ma in termini di ostensione sacra dell’animale della Grande Dea. E viene persino il sospetto che con l’attributo di Arianna, «la Santissima», si faccia riferimento proprio a quella Signora: la cui figura può richiamare sia il salvifico sciogliersi della mitica matassa del filo/serpente, sia l’immagine a spira del labirinto – entro il quale lei sola può condurre al di là della morte.
    A fronte poi della connessione, ben documentata già nel Neolitico, tra la Dea-Serpente e la Dea-Uccello, in particolare una Dea-Rapace che spesso richiama la civetta e i cicli lunari, non ci stupiamo d’incontrare nel mondo greco un’associazione/contrapposizione tra Era e la Dea-Civetta Atena.

    [Continua – ]

    1 Virgilio, Eneide, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Mondadori Oscar, Milano 1978, VIII, 696-700, pag. 377. Il riferimento dei serpi «alle spalle» di Cleopatra, cioè nel suo futuro, fa evidentemente riferimento a un comune modo di esprimersi nell’antichità greca e romana. Laddove infatti noi siamo usi a parlare del futuro come davanti a noi mentre il passato ci sarebbe alle spalle, gli antichi dicevano che il futuro ci sta dietro (e infatti non lo vediamo – cfr. l’episodio di Deucalione e Pirra che si lanciano pietre alle spalle per farne sorgere la nuova umanità) mentre il passato l’abbiamo di fronte, davanti ai nostri occhi.

    2 Già in A Fool There Was (1915) era presentata come «il vampiro», sia pure nei termini metaforici di corruttrice e distruttrice d’uomini che connotarono il suo personaggio (l’unica eccezione, in realtà, poco prima del ritiro dalle scene nel ’26, fu la commedia a Broadway The Blue Flame, 1920, in cui Theda Bara, richiamata dai morti dal fidanzato scienziato, appariva quale “vero” vampiro).

    3 Del quale in realtà Meyrink preparò solo il progetto e poi rivide il testo finale: la stesura, per la cattiva salute dello scrittore che solo in quest’occasione si avvalse di aiuti altrui, è dovuta in gran parte a un suo vicino di Starnberg, Alfred Schmid Noerr.

    4 Cfr. in particolare Marija Gimbutas, The Language of the Goddess: Sacred Images and Symbols of Old Europe, Harper & Row, San Francisco 1989; tr. it.: Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea Madre nell’Europa neolitica, Longanesi & C., Milano 1990.

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