di Massimo Citi
La protagonista del romanzo breve di Ogawa è giovane. È stata operaia in una fabbrica di gazzosa dove, per un banale incidente di lavoro, ha perduto la punta dell’anulare della mano sinistra. Quella piccola parte di lei è scomparsa: «spappolata dagli ingranaggi della macchina, era stata lavata via dal disinfettante», ma alla protagonista capita ancora di immaginarne la sorte: «quel pezzetto di carne a forma di conchiglia […] che cade al rallentatore nella gazzosa ghiacciata per poi restare sul fondo, fluttuando tra le bollicine».
Dopo l’incidente abbandona la fabbrica e il villaggio dove ha vissuto fino a quel momento e va a cercare lavoro in città. Lo trova presso l’enigmatico professor Deshimaru, il cui laboratorio sembra «un edificio in attesa di demolizione, tanto era vecchio e silenzioso».
Il suo compitò sarà quello di accogliere i pochi «clienti» del laboratorio con i loro curiosi «esemplari», oggetti della natura più varia e disparata che per ognuno di loro rappresenta un momento, una persona o un ricordo del quale vogliono liberarsi definitivamente.
Tra la protagonista e il professor Deshimaru, un uomo «sorprendentemente privo di caratteristiche personali», nasce un rapporto intimo nel quale le sfumature sessuali sono soltanto ombre sfocate del sentimento di morte che permea il laboratorio. Un rapporto che secondo una normale chiave psicosociale si potrebbe definire «feticista», ma la cui spettrale intensità ne fa l’anticamera a un indefinito «oltre».
Un romanzo breve che conferma i temi prediletti della giovane scrittrice giapponese autrice di Hotel Iris [1] e La casa della luce [2]: l’attenzione per il corpo e per la sua fragilità come per la inesplicabile potenza.
Yoko Ogawa |
In Ogawa corpo e mente seguono percorsi paralleli e reciprocamente inafferrabili. Il suo lavoro di narratrice – e tutta l’algida, raffinata precisione delle sue descrizioni – consiste nel provocare l’intersezione delle linee di universo del corpo e della mente, in modo tale che per la mente diventi impossibile liberarsi della percezione, divenuta esatta e irrevocabile, del corpo. Nel racconto di Ogawa il corpo, fotografato in sezioni, frammenti, attimi diviene miraggio e perdizione, materia insondabile e inesplicabile per il pensiero.
Ma nessun tentativo di spiegazione può rendere la sottile sensazione di inquietudine che Ogawa riesce a trasmettere al lettore con il raffinato gioco di alternanza di ombre e luci con il quale sceglie di illuminare particolari e momenti anche minimi sfocando la cornice. Un modo di procedere seguito, sia pure con esiti non sempre altrettanto felici, anche un’autrice italiana: Simona Vinci.
Ogawa Yoko
L’anulare
Adelphi ed. 2007, pp. 103, € 9,00
trad. C. Ceci
[1] Uscito su LN 34, estate 2005, di prossima pubblicazione presso LN-out-of-print.