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    Aria

    Spire d’Oriente, immaginario d’Occidente (II parte)

    • di Franco Pezzini
    • Luglio 17, 2012 a 5:55 pm

    di Franco Pezzini

    [Di qui alla Prima parte]

    2 – La Principessa e il drago, la Principessa-drago


    Perseo e Andromeda, vaso corinzio 570 a.c.

    Il legame del serpente con il mondo divino, e spesso con potenti divinità femminili, sarà riproposto dall’Egitto alla Mesopotamia, dal Vicino Oriente alla Grecia. Anche se la categoria zoologica che noi abbiamo ben chiara sfuma in un bestiario assai più variegato che comprende serpenti marini, leviatani e orche: a partire da quel mesopotamico mostro-femmina Tiāmat, immagine delle acque salate del Caos primordiale e antenata degli dei, che il dio-eroe Marduk sconfigge in una grandiosa lotta cosmica per poi spaccarla in due metà e trarne Cielo e Terra. E se Marduk fornisce così un protomodello per un’intera serie di eroi ammazzamostri, il drago-femmina Tiāmat si rifrangerà non solo in una confusa serie di creature (in senso lato) rettiliche, mostri legati soprattutto alle acque, ma anche nell’elemento-pendant della principessa da salvare – sia essa Andromeda (liberata da Perseo), Esione (liberata da Eracle), Silene (liberata da san Giorgio), Olimpia (liberata da Orlando), e persino quella fatalissima Angelica (liberata da Ruggiero) che associa così la provenienza dall’Oriente al tema del drago/pesce. Immagini di un Femminile spaccato in due come Tiāmat, e la cui porzione non più minacciosa resta esposta alle pulsioni sadiche di letterati e pittori: si pensi solo alle Andromede sado-maso che pulluleranno nell’arte, specie dall’Ottocento in avanti. Fino a trascrizioni in apparenza demitizzate: tra le più insospettabili, vorrei ricordare il romanzo The girl next door di Jack Ketchum, 1989, edito nel novembre 2009 da Gargoyle Books con il titolo La ragazza della porta accanto, e su cui ferve un vivace dibattito web – con critici che gridano al capolavoro, e altri che invece ne denunciano i connotati pesantemente sessisti. Ci sono buoni motivi per individuare ragioni in entrambe le posizioni, e nel romanzo – scritto benissimo, correttamente fastidioso, sottile nello stigmatizzare collusioni col Male – è in realtà presente una componente di profonda ambiguità. E in questa terribile storia di violenza domestica dove la principessa non si salva e il principe la lascia morire, il motore del Male è una sorta di drago-femmina – l’apparentemente normale madre di famiglia Ruth, in realtà una sadica manipolatrice – che presenta tutti gli elementi anche descrittivi del grande serpente delle fiabe: ambigua, torpida, letale.


    Paolo Uccello, San Giorgio e il drago

    La rifrazione sessista dell’antico mostro-femmina icona della Dea nelle figure contrapposte del drago e della vittima designata rappresenta ovviamente solo una delle varie chiavi di lettura di questa particolare declinazione del tema damsel in distress – sulla cui complessità non possiamo soffermarci in questa sede. Ma qualche arcaica solidarietà simbolica tra drago e vittima permane ancora in racconti medioevali: dove, per esempio, è la principessa a mettere al mostro un guinzaglio – la sua cintura – e a portarselo in città come un cagnolino. Questo elemento, un po’ velato ma presente nella storia di san Giorgio descritta nella LegendaAurea (dove, per soddisfare l’ottica maschile, è il santo a spingere la principessa ad aggiogare il drago ferito), emerge con chiarezza nel racconto della cattura in Provenza, da parte di santa Marta, della terribile Tarasque – che viene appunto aggiogata con la cintura. Certo le favole medioevali sono prodighe di richiami alla grazia femminile che saprebbe domare fierissime creature: ma in questi casi si è tentati piuttosto di vedere una proiezione tarda dell’arcaica coppia della Dea con il proprio animale-simbolo.
    Al mostro-femmina dovremo tornare. Ma persino quando in Europa la demonizzazione del serpente sarà compiuta, echi di associazioni più simpatiche sopravvivranno talora qui e là persino nei documenti della cultura dominante. Come nel caso della fata medioevale Melusina, icona araldica connessa alla casa di Lusignano e agli itinerari dei «Latini» nel Levante (Cipro in particolare): un personaggio gentile la cui dimensione serpentina – dai fianchi in giù – resterebbe nascosta, emergendo voyeuristicamente solo nell’intimità e protetta da un apposito tabù. Se l’origine del nome è molto discussa, è almeno suggestiva l’ipotesi che la connette a quella Madre Lucina o Lusina (Me-Lusina) identificabile nella romana Giunone protettrice dei parti, e dunque trasposizione dell’antica Dea-Serpente Hera.


    Emanuele Luzzati, Cherestanì, serigrafia

    In tale famiglia di serpenti gentili possiamo idealmente collocare anche la protagonista de La donna serpente di Carlo Gozzi, come Turandot oggetto di fiaba teatrale. La bellissima fata Cherestanì, che per amore del principe Farruscad ha scelto di diventare mortale, è assoggettata dal suo re alla magica condizione che l’amato non la debba maledire per otto anni e un giorno, nonostante le atrocità che apparentemente lei mostra di commettere. Pena, il tornare immortale assumendo le sembianze di serpente per duecento anni: insomma una finta donna fatale e l’immagine serpentina ancora associata, come per Melusina, a un interdetto magico e a una situazione di fragilità. Ovviamente Farruscad, che non conosce natura e storia di Cherestanì, non resiste e proprio l’ultimo giorno, dopo otto anni, la maledice per le apparenti nefandezze da lei perpetrate; e ovviamente lei si muta in serpente – salvo essere poi salvata dal principe che affronta tre prove tremende per spezzare l’incantesimo. Merita rammentare questa storia per almeno due motivi: anzitutto perché ritroveremo alcuni elementi piuttosto simili in un testo capitale per la nascita del fantastico moderno in Occidente, Lamia di Keats; e in secondo luogo perché la storia di Cherestanì, lieta ma non priva di note melanconiche, si colloca ancora una volta sullo sfondo – guarda caso – di un fantasmagorico Oriente.

    3 – Gorgoni e Pitonesse


    Ishtar/Inanna

    Si è accennato a quanto risulti limitativo etichettare la Signora neolitica come «dea della fecondità». D’altra parte, proprio la dimensione sessuale rappresenterà un importante connotato delle epigoni della Dea e di tutto un femminile fatale e inquietante: una sessualità riproduttiva e non soltanto, nel progressivo evolversi di pratiche orgiastiche o comunque erotiche a sfondo magico-religioso. Un’evoluzione legata alle nuove teologie ibride condurrà dunque alla professionalizzazione erotica di Dee come la mesopotamica Ishtar, la greca Afrodite e la romana Venere – divinità che tuttavia mantengono tracce di un potere più ampio, regale sugli elementi.

    La Regina cosmogonica presiede però anche a realtà spiacevoli, e talora mostra un volto effettivamente pauroso. A testimoniare una lettura simbolica e teologica di aspetti esistenziali ineliminabili – la fine della vita, il disfacimento del corpo, il mistero del dopo. Ma insieme a dar conto di una dialettica plurimillenaria (scontri e compromessi, denigrazioni e seduzioni) tra le rappresentanti della Dea e i fedeli del Maschio: donde la demonizzazione di certe antiche espressioni del cultoi.

    Da una parte infatti, come svelano le testimonianze archeologiche, il mondo neolitico ha molto chiaro come la Dispensatrice di Vita lo sia anche di Morte: e se l’assimilazione di grotte e tombe a grembo della Madre suggerisce una certa serenità d’interpretazione e un legame stretto tra nascita, morte e eventuale rinascita, non mancano icone ben più impressionanti – e che influenzeranno, attraverso successive trasformazioni, tutto un immaginario sui mostri-femmina. La comparazione su grande scala di reperti sembra permettere, a tale proposito, la distinzione tra due ambiti fondamentali di manifestazioni o aspetti minacciosi della Dea. Nel primo ambito, la troviamo connessa alla dinamica della morte, nel senso di annunciarla o dispensarla; nel secondo a un patrocinio sulla fine del ciclo e sulla condizione dei morti.
    Il primo ambito si può declinare nelle due sottocategorie dell’Annunciatrice di Morte e dell’Assassina: e in riferimento a specifiche serie iconografiche, accanto all’associazione riccamente documentata (da Çatal Hüyük ai Pirenei, dalla Siberia all’Iraq) con uccelli rapaci, in particolare avvoltoi e civette, troviamo appunto quella col serpente. In genere considerato creatura benevola nella cultura neolitica europea, il serpente appare inquietante quando associato alla Reggitrice di Morte: in questo caso, la Dea è un serpente velenoso o compare nelle sembianze di una donna che ha alcune fattezze da serpente. Ed è interessante rammentare che proiezioni ed epigoni di tali figure, antropomorfe ma con caratteri di rapace o serpente velenoso, sopravvivranno nel folklore europeo fino ai nostri tempi: per l’Annunciatrice di Morte si pensi alla banshee irlandese o alla Giltine lituana (con lingua velenosa e appetito insaziabile – in origine un serpente velenoso associato alla Dea), per l’Assassina alla germanica Holle, la lituana Regana, la russa Baba Yaga, l’Ankou bretone eccetera, figure via via degradate a streghe.


    Gorgoneion, Atnenaion di Siracusa, 570 a.c.

    Il secondo ambito, di vera e propria Dea della Morte, è invece testimoniato dai cosiddetti Nudi Rigidi o Signore Bianche (antropomorfe, in osso o pietra chiara ad alludere in forme e colori alla sfera della morte, ma talora anch’esse con tratti di rapace o serpente) e da maschere spaventose che potrebbero rappresentare un prototipo del gorgoneion, il pietrificante capo di Medusa. Le Gorgoni, tra i mostri più impressionanti del mondo greco classico che non saprà più interpretarne l’imbarazzante presenza, risultano connotate nelle immagini arcaiche da chiari simboli di rigenerazione (ali d’api, antenne serpentine) connessi alla Signora. In realtà la Gorgone arcaica doveva essere una Dea potente della vita e della morte, e non il successivo mostro indoeuropeo che gli eroi come Perseo devono uccidere: e doveva identificarsi – attraverso la maschera terrificante – con l’aspetto pericoloso di Artemide. Si tratterebbe in sostanza di Ecate, la dea cara alle streghe che vaga sulle sepolture e presiede al ministero dei veleni: e Artemide ed Ecate non costituirebbero, almeno in origine, che aspetti di un’unica dea lunare del ciclo vitale – l’uno giovane e bello associato all’inizio del ciclo, l’altro orrendo e legato alla morte (opportunamente gli Orfici usavano la parola gorgoneionper indicare il volto della luna). Se l’arte europea rincorrerà per millenni l’immagine di Medusa – il rapporto tra femminile e mostruoso coronato di serpenti, il motivo dello specchio, l’icona della femmina decapitata, la suggestione simbolica della pietrificazione-paralisi spirituale cantata da Dante – essa non sfuggirà neppure alla cultura popolare, ai film della Hammere al Bram Stoker’s Draculadi Coppola, 1992 (che offre a una delle vampire del castello chiome di serpenti). Quanto ad Ecate la triforme, alla sua schiera appartengono mostri come Cerbero dalla coda di serpe, immagine dell’uggiolante molteplicità notturna dei cani della Dea, e una variegata serie di terribili femmine, sue seguaci o proiezioni protovampiriche – che pur non svelando (almeno in origine) caratteri direttamente serpentini, meriteranno in prosieguo qualche attenzione. Una galleria di orchesse che perplessi mitologi descrivono in età relativamente tarda: Empusa, Mormo(lice), Ge(l)lo – una fanciulla di Lesbo morta prematuramente, che per dolore e rabbia tornerebbe ad aggredire i bambini (ma in realtà mutazione femminile dell’antico Galu sumero) – e la stessa Lamia su cui dovremo tornare.


    Ecate triforme

    Nel suo volto minaccioso, come in genere nelle espressioni irriducibili alle teologie patriarcali, la Dea dell’antica Europa è confinata all’ambito di un sottomondo ctonio quando non direttamente demoniaco – e qualcosa di simile accadrà in prospettiva al serpente. Potente e ambiguo simbolo divino, la bestia che striscia conoscerà col tempo nelle culture egemoni un progressivo declino di popolarità, culminato nella demonizzazione col cristianesimo. Nelle codificazioni mitiche ormai grondanti razionalismo troviamo serpenti in funzione subordinata a qualche grande divinità, sorta di mascotte o simbolo depotenziato; ne troviamo in allusioni a quel divino arcaico, sempre ai confini col mostruoso, che gli Olimpî hanno soppiantato o confinato negli inferi, e pensiamo a Echidna, la Vipera col volto di donna, al demoniaco Tifone, ai serpenti che costituiscono la coda di Cerbero e della Chimera; e ne troviamo in riferimento alla dimensione sempre ctonia degli eroi arcaici, dei genî familiari e di una religiosità popolare sfuggente e impastata di magia. In Europa un culto del serpente non velenoso come simbolo di energia viale, rinnovamento ciclico e immortalità sopravvivrà, è vero, fino al Novecento, ma nel mondo popolare, contadino.
    D’altra parte, considerato quanto detto sul legame tra serpenti e un Femminile «allarmante», non ci stupiamo nel ritrovare il serpente associato a esperienze estreme o a vere e proprie femmine folli: come la dark lady Medea, associata al grande serpente custode del Vello d’oro, nell’ambito di un contesto insieme arcaico ed esotico poi indefinitamente riproposto nell’arte; o come altre donne possedute – in corpo o spirito, poco importa – da dei o spiriti-serpenti. Come Olimpiade, che Zeus in forma di serpente avrebbe ingravidato di Alessandro Magno (e nei panni appunto della regina macedone, Angelina Jolie manipolerà serpenti nel film Alexander di Oliver Stone, 2004). Come la Pizia di Delfi, ispirata / posseduta da Apollo ma forse in origine dallo stesso serpente Pitone che il Dio avrebbe ucciso e soppiantato – o col quale, forse, il dio straniero dei serpenti e dei topi si sarebbe confuso. O ancora come quella «donna Behalath-Ob» tradotto con «Pitonessa» (Ob, in greco Python, starebbe per drago, serpente o spirito cattivo) e operante a Endor, assurta ad archetipo biblico (1 Sam 28, 7) della strega anche nell’equivoco rapporto familiare con uno spirito associato al serpente. «Pitonessa» dunque come «sposa / posseduta da un pitone», interpretazione che i commentatori preferiscono all’alternativa Domina Pythonis, «padrona di un pitone». Ancora un pitone, del resto, accompagnerà un’altra femmina folle trasudante esotismo decadente, la Salammbô di Flaubert. E proprio la Pitonessa, dallo statuto equivoco di Signora o Posseduta del Pitone, pare un’immagine emblematica del lungo rapporto in Occidente tra la femme fatale e l’altro sesso: un rapporto in gran parte voyeuristico, dipinto per l’uso e consumo di una società patriarcale, evocante in fantasie torbide e brividi controllati il feticcio della Venere in pelliccia (meglio: in pitone) signora del fallo e da esso oscuramente ossessa. 


    John Collier, Lilith

    Quando il pittore John Collier nel 1892 dipinge l’immagine di Lilith nuda ma sensualmente avvolta da un grande serpente, attinge dunque a questo retroterra. Ma ancora nel preparare questa relazione mi sono imbattuto per caso nella copertina di un mensile artistico di dicembre, Insideart, con l’attrice Rachel Weisz anch’essa nuda e avvolta dalle spire pitonesche. Titolo, Il serpe e la fata…
    Nelle culture mediorientali, che conoscono una pluralità di serpenti velenosi, il rettile strisciante è del resto frequentamente avvertito come subdolo o pericoloso. A partire idealmente dal citato testo del Genesi: e l’immagine del serpente che Mosè per ispirazione divina fa innalzare, e la cui contemplazione permette agli Israeliti morsi dai serpenti di salvarsi omeopaticamente (Nm 21, 4-9), richiama all’uso arcaico del «male contro il male». Ma la bestia infida che si nasconde tra le rocce troverà simbolica proiezione sul piano cosmico, a intossicare col suo veleno tutta la storia dei figli di Adamo. Apparso infatti nel primo libro della Bibbia, il serpente torna nell’ultimo (almeno secondo il canone cristiano), l’Apocalisse, quale Grande Drago cui si oppone la Donna-comunità dei fedeli (12, 1-18); e d’altra parte tra le schiere del Serpente campeggia parallelamente un’altra donna, la Meretrice di Babilonia (17, 3-18).

    Torniamo però al quadro dell’Eden: dove si ritiene a un certo punto di connettere al tentatore nientemeno che Lilith. Che in sé rimanderebbe piuttosto alla primordiale Dea-Rapace, all’immagine della Civetta dal luttuoso grido notturno e in ultimo al demone che ghermisce lo spirito/vita dei neonati: ma, tanto più con l’articolarsi delle demonologia, è inevitabile che la presunta prima moglie di Adamo – tale è Lilith in certe letture ebraiche – apra rapporti con la bestia che striscia. Quando dunque nell’arte medioevale e rinascimentale troviamo il serpente dell’Eden dotato di testa e talora braccia e seni femminili (celebre è l’immagine della tentazione di Adamoed Eva dipinta da Michelangelo) abbiamo buoni motivi per ravvisarvi Lilith.

    Ma l’associazione tra donna e serpente trova anche declinazioni più materiali. Quando infatti gli storici occidentali si compiacciono di presentare la scena di Cleopatra suicida grazie a un aspide (o forse un cobra), non sanno di offrire materia a infiniti pittori dei secoli successivi – che non riconosceranno più l’antica distinzione simbolica tra serpenti velenosi e non. A offrire materia a un’ulteriore connection, quella tra donne e veleni: un ambito in cui la portatrice dei fluidi, considerata socialmente inadatta a recare minaccia con le armi proprie dell’uomo (spade e affini), viene confinata dall’immaginario collettivo. Dalla donna che cura con le erbe si passa così allo stereotipo della strega avvelenatrice: da Locusta, prima serial killer della storia in età romana, si arriva così alla Lucrezia Borgia della leggenda (la realtà storica presenta un personaggio piuttosto diverso), alle protagoniste del celebre Affare dei veleni (1670-1680) e alle avvelenatrici degli annali del crimine moderno – figure il cui statuto presenta sempre un impasto di stereotipi e demonizzazioni.


    A questo alveo dell’immaginario si rifà Quentin Tarantino quando, tra il 2003 e il 2004, mette in scena in Kill Bill un gruppo di feroci assassine note come Vipere (più precisamente Deadly Viper Assassination Squad, D.V.A.S., in italiano Squadra Assassina Vipere Mortali) e le dota di nomi serpenteschi. La killer O-Ren Ishii (Lucy Liu) è dunque rinominata Mocassino d’acqua; la sua collega Vernita Green (Vivica A. Fox) è Testa di rame; Elle Driver (Daryl Hannah) è Serpente montano della California. La stessa protagonista Beatrix Kiddo (Uma Thurman), scopriamo a un certo punto, aveva nome d’arte Black Mamba; e alla fine del Volume 2, tra i titoli di coda, Bill viene indicato come «Incantatore di serpenti». A richiamare ancora, in fondo, un’immagine stereotipata dell’Oriente, quella del tipo che incanta i serpenti con la propria musica (o, più esattamente, coi propri movimenti ritmati). Certo il dittico, in particolar modo il Volume 1, è una continua dichiarazione d’amore proprio al cinema giapponese: eppure, almeno dal punto di vista del rapporto simbolico tra donne e serpenti, il retaggio dell’immaginario resta ancora quello occidentale.

    [Per il prosieguo dell’articolo, si rinvia come detto agli Atti del Convegno, sul numero 73 di Maggio 2011 della rivista Porti di Magnin, nello speciale letterario Magnin Litteraire n. 8.]

    1 Nell’ambito della presente relazione attingo con libertà ad Arianna Conti e Franco Pezzini, Le vampire. Crimini e misfatti delle succhiasangue da Carmilla a Van Helsing, Castelvecchi, Roma 2005.
    2 In particolare in The Gorgon (Lo sguardo che uccide) di Terence Fisher, 1964. Ma lo sceneggiatore John Gilling in seguito dirigerà abilmente un altro dramma Hammer su una donna-serpente, The Reptile (La morte arriva strisciando), 1966.
    3 Il discorso è evidentemente più complesso, ma è impossibile affrontare in questa sede la plurimillenaria storia della diavolessa – il cui nome di origine mesopotamica (Lilitû, Ardat Lili, ecc.), citato anche nella Bibbia (Is 34, 14 e, in talune traduzioni, Gb 18, 15), approda alle demonologia cabalistica e alle odierne sette diabolistiche.

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