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    TerraNova

    Per una storia naturale della letteratura fantastica

    • di Silvia Treves
    • Agosto 3, 2012 a 4:22 pm

    LN-LibriNuovi cartaceo, a partire dal numero 12 – inverno 1999, pubblicò con cadenza regolare – ovvero ogni tre mesi – una rubrica particolare, dal curioso titolo: Per una storia naturale della letteratura fantastica. Il primo articolo fu firmato da Alessandro Defilippi: La Carne, la Morte, il diavolo e il neogotico, l’ultimo, uscito su LN-LibriNuovi 10.3/ inverno 2010, fu Due tassonomie dal basso di Davide Mana. Scrissero articoli nella rubrica, tra gli altri, Silvia Treves, Alex Defilippi, Melania Gatto – i.e. Massimo Citi – e Davide Mana. In ognuno degli articoli pubblicati crediamo sia stato messo in luce un aspetto inatteso e sorprendente della letteratura fantastica e si sia scelto di narrare sotto una diversa angolatura le diverse forme di fantastico letterario corrente, dalla science-fiction, al romanzo gotico, al neogotico, al fantasy, all’horror, all’ucronia, al romanzo di speculazione.
    Qui su LN on line riprenderemo gradualmente tali articoli, ripubblicandoli, anche se non osserveremo scrupolosamente l’ordine con il quale sono a suo tempo usciti.
    Questa volta – tanto per dimostrare quanto poco eravamo e siamo seri – partiremo dal cinema.
    Buona lettura a tutti.

    Per una storia naturale della letteratura fantastica

    di Silvia Treves

    Possono tenersi i loro Bresson e i loro Cocteau. Il fantastico cinematografico moderno è popular e i migliori e più eccitanti film sono, iniziando con Méliès e Fantômas, i film proiettati nei fleapits locali, film che sembrano non avere posto nella storia del cinema. (Ado Kyrou, Le surréalisme au cinéma 1963)

    Una storia, sia pure naturale, della narrativa fantastica non può (non nel secolo scorso e in questo, appena iniziato) ignorare ciò che accade in quella fabbrica di storie e miti moderni che è il cinema. Con budget miliardari o poche lire, produttori, registi, sceneggiatori e attori nutrono, e più spesso colonizzano, l’immaginario non solo occidentale, inventando, riciclando, riutilizzando simboli e paesaggi interiori; giocando – se sono abili – con le paure e le speranze degli spettatori e rendendole, quando sono veri artisti, comprensibili e dunque meno pericolose.

    Nonostante le smanie classificatorie degli studiosi e la tendenza delle multinazionali del divertimento a uniformare e appiattire la produzione su un fantomatico gusto medio, il cinema fantastico è un «genere» scarsamente definibile, già trasgressivo nella sua difformità, ed eterogeneità.
    A questo cinema è dedicato Cutting Edge, un bel saggio di Joan Hawkins, molto argomentato e documentato, che esamina origini, derivazioni e contiguità con la produzione d’avanguardia di quei generi e sottogeneri cinematografici che vanno sotto il nome di body genre (genere corporeo, suonerebbe una traduzione becera, io utilizzerò la sigla bg) ossia quel vasto e sfumato insieme di film comprendente il porno, l’horror e il melò, individuato dalla caratteristica di coinvolgere fisicamente lo spettatore, mettendo in scena emozioni e sensazioni molto intense (rispettivamente orgasmo, terrore e tristezza), fino a condurlo all’estasi, invece di mantenere la distanza estetica tipica del cinema di alto valore artistico (high genre).
    Tanto per confondere le carte, il medesimo coinvolgimento è proprio anche dei documentari o di certi film d’arte, appositamente progettati per spezzare la distanza estetica dello spettatore; e proprio di questa somiglianza, questa liminarità tra cinema «alto» e cinema «basso» intende occuparsi l’autrice, senza dimenticarne le differenze, ossia l’intento artistico – che nei film d’avanguardia è sempre, in qualche modo, etico e non ludico (come invece nei «generi» bassi) – e lo scopo: comunicazione nel cinema «alto», compiacere lo spettatore in quello «basso».

    Siamo salvi, le differenze ci sono!


    Piano, non illudetevi, pensate a come le medesime opere, ad esempio quelle (purtroppo un po’ noiose) di De Sade, possano essere lette come rappresentazioni dei rapporti di potere o come semplice strumento di masturbazione da lettori diversi e perfino dal medesimo lettore. D’altra parte, se analizzati nei contenuti e negli scopi, talvolta (e sarei tentata di dire spesso) i B-movies si rivelano talvolta efficaci rappresentazioni di aspetti del mondo che Hollywood è riluttante ad affrontare (traslando sul piano letterario, Dracula adombra, non sempre in maniera consapevole, i conflitti e le relazioni di genere e di sesso). In sostanza, per motivi differenti, entrambe le produzioni cinematografiche, quella «alta» e quella «bassa», sono accomunate da un’opposizione più o meno esplicita alla politica cauta e conservatrice di Hollywood, che è manipolatrice, repressiva, condizionata dagli interessi dominanti.
    Sfogliate un qualsiasi catalogo XXX (meglio quelli degli States, perché gli americani sono più bacchettoni degli europei) e troverete, dimostrazioni solide di questa commistione di generi e di intenti, B movies e capolavori dell’arte europea sono elencati uno a fianco dell’altro, in perfetta e democratica parità: i film di Godard e Antonioni a fianco di Labbra calde della vestale di Eros e di Macello 4, il ritorno dell’uomo con la mannaia. Colpa della censura, che marchia i film più «coraggiosi» (e quelli più espliciti) e della scarsissima propensione a osare della grande distribuzione, che promuoverebbe soltanto prodotti per famiglie (così li comprano e li vedono tutti) remake e cloni di copie sbiadite di opere di successo, e mai farebbe circolare film (e libri) «diversi». E questo, paradossalmente, ha come risultato di promuovere la diffusione, almeno di nicchia, di entrambe le categorie, spingendo i fan dei B movies a dare una possibilità a Bergman e i cultori di Bergman ad assaggiare Jesus Franco.

    Film di dubbio genere e ambigua avanguardia


    Stiamo comunque parlando di film (ma un discorso analogo potrebbe venir fatto per la narrativa di genere) che non possono essere inseriti a cuor leggero in un «genere» o classificati con certezza come A-movie o B-movie; molti film definiti noir, thriller o melò mostrano in realtà ampie commistioni con altri generi. Ne sono un esempio molte opere «ibride» degli anni Ottanta come Blade Runner (1982), Blue Velvet(1986 – che comunque, per me resta uno dei film più noiosi della storia del cinema!), Near Dark (1988).
    Una classificazione rigida è ormai artificiosa e poco utile per l’analisi, tanto più che certi film europei considerati «arte» nel vecchio continente, negli States sono stati ritenuti prodotti da drive in e viceversa. Ad esempio, film d’arte di buon valore come Un chien andalou (1929) e, molto più tardi, Arancia Meccanica (1971), Il sangue e la rosa di Vadim (1960), Repulsion e The Tenant di Polansky contengono abbastanza sesso e violenza da attirare i fan del cinema di exploitation; al contrario film che iniziarono la carriera come film di genere sono poi diventati classici anche per la critica, come Freaks o Andy Wharol’s Frankenstein. Tutti questi film, qualunque fosse l’intenzione originale del regista, coinvolgono direttamente e intensamente il corpo; sono più diretti (o forse meno sottili) dei film ritenuti indiscutibilmente di genere «alto» e meno metaforici e sfumati. In realtà, molti film di genere «basso» potrebbero essere letti in maniera metaforica e mostrano un uso sapiente del montaggio, delle inquadrature, del flashback, ma la forza dell’immagine sospinge ai margini il significato metaforico.

    Eversività e trasgressione

    Joan Hawkins

    Tutti noi siamo disposti a credere che i cosiddetti film d’autore offrano, almeno in numerosi casi, anche una lettura trasgressiva della realtà, un’alternativa alla visione estetica e politica dominanti. Più difficile è credere che un B-movie possa fare altrettanto. Ma, argomenta Joan Hawkins, sono piuttosto i cambiamenti verificatisi negli ultimi decenni nel modo di consumare il cinema a creare occasioni eversive per gli spettatori. L’avvento dell’home video ha dato al pubblico maggior offerta e maggior libertà di scegliere i prodotti e la possibilità di mescolare cinema alto e basso, sdoganando i film d’arte dai luoghi classici e sacrali. Inoltre disporre del film a casa propria consente allo spettatore un maggior controllo sui modi e sui tempi di consumo, la possibilità, cioè, di interrompere, di rivedere, di spezzare il ritmo di un film senza dover subire la proiezione dall’inizio alla fine. L’interruzione del flusso narrativo è, se decisa dal spettatore (e non dal palinsesto televisivo per inserire remunerativi intervalli pubblicitari), un’azione attiva leggibile come maggior competenza nel decodificare e non come zapping confuso e casuale. E passare da un film di guerra alla visione del telegiornale può aggiungere molteplici significati al film e forse – specie di questi tempi – alla comprensione della realtà.

    Qualche esempio

    Il saggio di Joan Hawkins analizza in maniera esaustiva e stimolante un buon numero di film di genere e di avanguardia, dimostrando nei fatti la tesi di partenza. Ne citerò un paio tra i più interessanti:

    Les yeux sans visage,1959, regia di G. Franju


    La storia di questa pellicola e il suo passaggio da film di genere a classico ripreso da altri registi in varie versioni sono particolarmente emblematici. Il film originale, uno dei due più noti film horror francesi insieme a Les diaboliques di Clouzot (1954), potrebbe essere considerato uno dei capostipiti del genere splatter con Psycho (1960) e Peeping Tom (1960); anche Les yeux sans visage è, infatti, un film disturbante in virtù del suo status doppio, di una forma nella quale i pregi artistici e poetici e l’impanto emotivo sembrano divorziare. Accostato ai surrealisti e a Bataille, il film racconta i tentativi ossessivi di un chirurgo plastico di restituire la bellezza alla figlia sfregiata in un incidente. Padre padrone e terribile angelo custode, il medico è disposto a tutto, perfino a rapire ragazze dalla bellezza simile a quella della figlia, per rubarne letteralmente il viso, e trapiantarne la pelle sul volto sfregiato. Ritraendo la folle devozione paterna che si esprime attraverso ogni sorta di crimini, il film polemizza esplicitamente contro la famiglia e contro lo stato; il regista adombra anche questioni di etica medica e il bisogno della scienza di corpi vivi da studiare e definire. Nei tardi anni cinquanta ritrarre scienziati pazzi che ricordassero le pratiche atroci dei campi di concentramento era tabù e bisognava tacere i trascorsi collaborazionisti e filonazisti del governo francese per non incrinare l’immagine di una Francia resistente e compatta intorno a De Gaulle; eppure il medico di Franju sembra l’incarnazione della «banalità del male» della Arendt.
    Il tema centrale del film venne ripreso più volte, anche in maniera originale, ad esempio in Gritos en la noche (1962: noto anche come The Awful Dr. Orlof) da Jesus (Jesse) Franco, un regista di b-movie ossessionato dall’immagine del corpo femminile imprigionato, che però, non di rado, ha raggiunto una forza espressiva e un’originalità degne della produzione d’autore (fu tra l’altro collaboratore di Orson Welles).
    Benché costretto a produzioni trascurate dai budget minimi e dalla fretta dei finanziatori, Franco è riuscito a conferire a molti suoi film un ritmo sincopato da jazz, un uso apprezzato del bianco e nero, e molteplici livelli di significato. Anche Franco, cresciuto nella Spagna franchista, ha affrontato in maniera obliqua temi politici ed etici di grande portata; Orlof e altre sue sue opere sono trasgressive e rivoluzionarie perché dipingono esplicitamente il sesso e la violenza, dando vita a un tipo di horror molto differente da quello anglosassone, più violento e viscerale, con un chiaro sapore di grottesco e maggior interesse e simpatia verso il mostro che verso le sue vittime, nel quale la violenza erotizzata adombra l’intreccio di brutalità e torture nascosto sotto la bellezza superficiale delle estetiche cattolica e fascista.

    Rape, 1969, regia di Yoko Ono


    Benché molto eterogenea, la produzione cinematografica dell’avanguardia europea degli anni sessanta e settanta presenta alcune caratteristiche comuni: 1) la rottura dei tabù nel mostrare sesso e violenza, 2) il desiderio di scandalizzare la borghesia 3) la volontà di spezzare il confine tra arte e vita reale, anche a rischio di provocare «vittime» durante la creazione artistica.
    Particolarmente esemplificativo di queste tendenze è Rape (1969), opera che Yoko Ono progettò insieme a John Lennon. Nel film, come nelle sue performance teatrali, Yoko forza gli spettatori maschi a identificarsi con un punto di vista esplicitamente aggressivo, obbligandoli a confrontarsi con le loro «attitudini» all’aggressione sessuale, al voyeurismo, alla subordinazione di genere. Lo scopo dichiarato è quello di rendere il pubblico consapevole della matrice occidentale patriarcale e repressiva nei confronti delle donne. Rape è la documentazione dell’inseguimento reale – effettuato dall’operatore Nic Knowland con una macchina da presa portatile – di una donna incontrata fortuitamente. La «vittima», casualmente una straniera che non parla inglese, subisce le attenzioni del cameraman senza potersi difendere, dapprima mantenendo la calma e chiedendo ragionevolmente spiegazioni, poi fuggendo in preda alla frustrazione e al panico, inseguita anche in casa dallo sconosciuto che continua a riprenderla senza rispondere alle sue domande. Il film, che abbatte i confini tra arte e realtà e tra pubblico e privato, solleva interrogativi etici estremamente attuali sulla legittimità di «mostrare» e di «informare» il pubblico sino all’accanimento, nonché sul diritto di esporre il corpo femminile sugli schermi.
    Ovvi riferimenti sono Peeping Tom (1960) e No Lies (1973), con la differenza che in Rape non è il personaggio a violare la vittima con la macchina da presa, bensì regista e cameraman, e che la vittima dello «stupro» (qui solo metaforico) non è un’attrice ma una persona reale.
    Come osserva giustamente l’autrice, l’opera di Ono compie il medesimo peccato del quale accusa gli spettatori: la vittima femminile infatti cerca di risolvere il conflitto con le parole e la persuasione (chiedendo più volte, pacatamente, in tedesco e in italiano di essere lasciata in pace) com’è stata educata a fare; un uomo, invece, molto probabilmente avrebbe rotto la macchina da presa e preso a pugni il suo inseguitore. Senza questa «attitudine» della donna a non reagire violentemente il film non si sarebbe potuto fare, ed è su questa convenzione sociale che Yoko e John hanno inconsapevolmente contato.
    Dal punto di vista della costruzione (punto di vista fisso, macchina da presa che insegue il soggetto, Rape è sicuramente imparentato con film di inseguimento come Halloween di Carpenter; la cattiva qualità delle immagini, rese oscillanti dalla camminata frettolosa del cameraman, le luci improprie, talvolta così eccessive da «bruciare» l’immagine, altre volte insufficienti a illuminare le riprese, lo rendono invece simile a un documentario e ai film di genere a basso costo. Diversamente dai film di inseguimento, però, Rape non offre un finale catartico, nel quale, finalmente l’inseguitore diventa oggetto della ripresa: e neppure la vittima si comporta come la «ragazza finale», quella che mette fine alle violenze dell’inseguitore una volta per tutte, ma resta vittima sino alla fine. Da sottolineare il diverso significato del silenzio nel film: silenzio-potere per l’operatore, che non risponde mai alle richieste della vittima, silenzio-censura per lei, perché la regista ha scelto di non tradurne i tentativi di comunicare in italiano e in tedesco. Così, alla violenza patriarcale stigmatizzata dal film si aggiunge la violenza «imperiale» della cultura britannica…

    Yoko Ono

    L’aspetto più disturbante del film è, in sostanza, che il suo l’impatto emotivo, innanzitutto sulla «vittima», ma anche sugli spettatori sia stato assolutamente ritenuto secondario rispetto al progetto intellettuale di denuncia, un atteggiamento tipico di molta avanguardia, sostiene Hawkins.

    Resta da chiedersi quanto consapevole sia, dal punto di vista politico e sociale, la scelta eversiva dei consumatori di film «bg». L’autrice sembra propendere per una spiegazione oggettiva: consapevolmente o meno questi spettatori mettono in gioco competenze e interessi che li collocano dall’altro lato della barricata rispetto all’estetica mainstream e alla visione politica dominante, a fianco – se vogliamo – dei cultori dell’avanguardia e dei film d’arte.
    Spesso le questioni di gusto diventono espressioni di classe sociale, sostiene Bourdieux; i membri delle classi superiori imparano, grazie a studi più lunghi e articolati e agli stimoli dell’ambiente di provenienza, ad apprezzare l’arte e la musica classica, ma anche il jazz o i film d’autore. Il gusto, cioè, non è mai neutro rispetto all’appartenenza di classe e il «buon gusto» è una categoria coinvolta in maniera intricata nei processi di controllo sociale. È proprio questo meccanismo di controllo, questa educazione «per pochi» che il paracinema e il film d’arte incrinano. Per gustare film come quelli di Jesse Franco (ma anche generi letterari come la fantascienza o certi noir) lo spettatore deve far ricorso a ciò che Bourdieux chiama «accumulazione culturale», cioè alla conoscenza di codici espressivi multipli (jazz, produzione dell’avanguardia europea, storia e cultura del fascismo, opere di De Sade, film americani d’azione, polizieschi ecc.).
    Proprio l’opposto di ciò che chiamiamo «cultura di massa».
    Proprio l’opposto di ciò che occorre per reggere l’urto dei bei filmoni hollywoodiani pieni di sentimento e di effetti speciali.
    Proprio l’opposto di ciò che serve a sopportare certi talk show nostrani.
    Proprio l’opposto di ciò che è sufficiente per votare…
    No, scusate, questa è un’altra faccenda. E, per fortuna, non riguarda più le creature come me. Sono tutti fatti vostri….

    Joan Hawkins
    Cutting Edge
    Art-Horror and the Horrific Avant-Garde
    University of Minnesota Press, 2000, pp. 326.

    da LN-LibriNuovi 20 – dicembre 2001

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