Convinzione di molti è che la scienza sia una struttura nella quale le buone idee e le ipotesi più azzeccate debbano sempre non soltanto vincere grazie alla semplice forza della loro evidenza e bontà, ma anche emergere rapidamente. Ma anche la scienza è poi soltanto un’attività umana, sia pure sublime quanto si vuole. Non solo, la scienza – e con essa la tecnologia che ne è l’indivisibile sorella – è sempre vincolata e soggetta allo Zeitgeist, ovvero allo «spirito del tempo». Basti pensare che la prima macchina a vapore venne inventata in Alessandria d’Egitto più di venti secoli fa da un ingegnere di nome Erone (sì, proprio quello della formula di Erone). Consisteva di un semplice marchingegno che apriva a chiudeva automaticamente le porte di un tempio, sul modello delle attuali porte degli ascensori. Una minuzia che doveva però incutere un bel po’ di timore reverenziale nei fedeli, inducendoli a mettere mano al portafoglio per non rischiare di mettere di cattivo umore gli dèi e soprattutto i loro sacerdoti, capaci di tali meraviglie. Il fatto che a nessuno nell’Alessandria d’Egitto del i secolo a.C. sia venuta in mente la possibilità di utilizzare il vapore per costruire la prima locomotiva con diciannove secoli di anticipo non è una conseguenza della stupidità degli egiziani del secolo di Cleopatra ma semplicemente dall’organizzazione sociale ed economica della società. Se si hanno a disposizione migliaia e migliaia di schiavi che possono lavorare per almeno 10-12 ore al giorno in cambio – letteralmente – di un tozzo di pane, che bisogno c’è di spendere denaro per sviluppare una tecnologia? Questo probabilmente il motivo fondamentale per il quale il geniale Erone dovette accontentarsi di essere ricordato, oltre che per la sua formula, soltanto per l’invenzione della ruota dentata e della vite senza fine.Probabile, in ogni caso, che se qualcuno avesse tentato di far lavorare una macchina al posto di una dozzina di schiavi si sarebbe ben presto trovato a fare i conti con le locali gerarchie religiose, preoccupate delle conseguenze sociali dell’invenzione. Oltre che, con altrettanta probabilità, con la lobby dei mercanti di schiavi di Alessandria.Tra scienza e ideologia esiste un forte legame, per nulla lineare e, meno che meno, razionale.
Questa lunga – anche se mi auguro non inutile – premessa serve a introdurre uno dei temi fondamentali de L’impero delle stelle di Arthur I. Miller. L’ideologia, sia essa un tenace anche se inammissibile razzismo o una versione aggiornata dell’horror vacui degli scienziati seicenteschi, influisce profondamente su ciò che definiamo con ormai stanco trionfalismo «il progresso della scienza». Influisce fino al punto che una teoria matematica enunciata per la prima volta nel 1935 ha dovuto attendere quasi cinquant’anni per essere riconosciuta vera e perché al suo autore, l’astrofisico indiano Subrahmanyan Chandrasekhar, venisse attribuito il premio Nobel 1983. Cinquant’anni di oblìo in un secolo «veloce» come il ventesimo equivalgono, probabilmente, ai famosi duemila anni di Erone. Cinquant’anni durante i quali «Chandra» si è occupato con successo di moltissimi altri temi e problemi fisici, avendo però scelto di rinunciare, dopo lo storico scontro presso la Royal Astronomical Society con Arthur Stanley Eddington, allo studio degli stati finali di vita delle stelle. «Chandra», infatti, è stato il primo astrofisico a postulare l’esistenza dei «buchi neri», ovvero i punti di singolarità spaziotemporali dove gravità e densità raggiungono valori infiniti. Un aspetto interessante della teoria di Chandrasekhar è la sua lineare comprensibilità anche in termini colloquiali, tanto più dopo che la fantascienza si è impadronita del tema declinandolo narrativamente in tutti i possibili modi. Diverso il discorso per le conseguenze in termini logici e materiali della semplice ammissione dell’esistenza di tali «mostri». Il buco nero è infatti il luogo-non luogo per eccellenza, una conseguenza dell’esistenza del nostro universo ma del quale, a tutti gli effetti, non fa più parte. A cavallo tra cosmologia e speculazione filosofica, il buco nero è, in termini molto approssimativi, un tipo di «vuoto» addirittura inconcepibile, la materializzazione – volendo ammettere un clamoroso ossimoro – del «nulla» E probabilmente è questo un elemento di rilievo nell’accoglienza scientificamente semiisterica della rappresentazione matematica dell’universo elaborata dall’astrofisico indiano. Chandrasekhar era partito dallo studio delle «nane bianche», stelle ad altissima densità, considerate la condizione normale per una stella ormai pensionata. Detto per inciso anche il nostro sole, una stella assolutamente comune di classe «G», è destinato, dopo una breve fase nei panni di stella nova, a diventarlo. Un astro «freddo» e superdenso con alle spalle una vita onesta e regolare lunga circa dieci miliardi di anni. Fin qui il sole e le stelle grosso modo delle sue dimensioni. Ma la domanda inopportuna di Chandrasekhar fu: «E se una stella è molto più grande e calda del sole chi ci garantisce che la contrazione gravitazionale seguita alla fase di nova debba terminare in forma di nana bianca?» La risposta, l’unica risposta logicamente possibile, è «nessuno». Per stelle di grandi dimensioni non esiste la possibilità di fermarsi allo stadio di nana bianca o di stella a neutroni. I meccanismi della fisica stellare comportano la necessità di giungere a un’infinita densità della materia e a un’infinita gravità. Chandrasekhar raggiunse le sue conclusioni poco più che ventenne, un’età nella quale, normalmente, si dedica buona parte del tempo al pensiero dell’altro sesso. Ma non vi era nulla di anormale in lui. A parte il terrificante talento matematico e una notevole ambizione era un giovane simpatico e talentuoso che, come scrive lui stesso, dedicava all’altro sesso una parte comunque non irrilevante dei suoi pensieri. Cresciuto in una famiglia di casta braminica e nipote di un matematico di rilievo mondiale, era abituato e preparato a sentire valutare le proprie conclusioni per ciò che valevano senza porre troppa attenzione alle suscettibilità dei colleghi o al colore della sua pelle. Presentò il suo lavoro l’11 febbraio 1935 davanti a un pubblico formato dai più grandi astrofisici inglesi. Tra questi sir Arthur Stanley Eddington, all’epoca massima autorità mondiale della materia. L’accoglienza riservata al suo lavoro fu peggio che violenta, fu umiliante. Eddington lo stroncò abbandonandosi a sarcasmi che colpivano indiscriminatamente lo studio e la persona di Chandrasekhar. I motivi di una tale ostilità, improvvisamente emersa dopo mesi e mesi di collaborazione, non sono mai stati completamente chiariti. Eppure si trattò di un episodio cruciale, uno squarcio improvvisamente aperto nel fondale di concordia e collaborazione con il quale gli scienziati amano rappresentare la loro attività. Per giungere a dare una risposta, necessariamente incompleta e parzialmente ipotetica, Miller ha pazientemente ricostruito attraverso carteggi e interviste la personalità dei protagonisti e l’ambiente di Cambridge degli anni Trenta. Ha messo in luce le gelosie, i piccoli e grandi tradimenti, le suscettibilità, le ruggini e le intolleranze lasciando spesso capire al lettore che non raramente era la scienza a dover essere al servizio dello scienziato e non viceversa… Miller giunge infine a postulare che gli imperdonabili peccati di Chandrasekhar siano stati almeno due:
– l’aver lavorato sullo stesso campo di Eddington, giungendo a conclusioni diametralmente opposte a quelle del grande astrofisico inglese.
– l’essere un indiano in un ambiente abbondantemente segnato da una visione coloniale del mondo,
lasciando tuttavia emergere un terzo elemento altrettanto fondamentale anche se più sfumato: l’intransigente – anche se largamente inconscia – resistenza degli astrofisici a postulare l’esistenza di fenomeni tanto «estremi» e lontani dalla quotidiana esperienza scientifica.Ma per giungere a tale conclusione e al termine della prima parte del volume l’autore deve condurre, parallelamente al lavoro su carteggi e dichiarazioni, un affascinante lavoro di ricostruzione dell’attività scientifica di anni tra i più intensi per la fisica del xx secolo.Il risultato è notevole. Miller infatti è riuscito nella non facile impresa di porre in luce il rapporto tra l’agire scientifico e la visione della realtà praticata dallo scienziato, dimostrando che la predicata «neutralità della scienza» è, quando va bene, un risultato ma certo non una premessa. Questo in un campo, quello dell’astrofisica, dove è comune convinzione che a regnare sovrana sia la matematica. E che c’è di più indiscutibile della matematica? In più occasioni Miller riesce a dimostrarci che anche la matematica, come qualsiasi attività umana, può divenire uno strumento per occultare o distorcere la verità piuttosto che per rivelarla. Un esito francamente sconcertante.La seconda e terza parte del libro sono invece prevalentemente dedicate alla storia degli studi relativi alla struttura e il funzionamento delle stelle, fino alle acquisizioni più recenti. Un excursus di grande interesse, tanto più per la capacità di Miller di mostrare il legame profondo che unisce settori apparentemente lontani della ricerca fisica. Fisica delle particelle, cosmologia, astrofisica – ma anche fisica dei fluidi o delle radiazioni – appaiono così parti discrete di un unicum che non può essere arbitrariamente affrontato con approcci parziali o riduttivi.Se nella realtà del cosmo conseguenze e premesse possono sovrapporsi o scambiarsi i ruoli, a maggior ragione questo può avvenire nella realtà dei rapporti e delle storie degli esseri umani. Ma volendo attribuire un significato profondo a questo libro e cercando di trarre un insegnamento dalla vicenda di Chandrasekhar verrebbe da dire che, in quanto esseri supposti pensanti, faremmo bene a porre un’estrema attenzione a evitare di fare delle premesse del nostro pensiero altrettante conseguenze. A cercare di evitare, insomma, di rappresentarci il mondo secondo le nostre aspettative e non per come esso è. Un errore nel quale è incorso anche uno scienziato di valore assoluto come sir Arthur Eddington che trovava inaccettabile l’idea che l’universo materiale potesse ospitare anche la sua più perfetta negazione: l’aggressivo nulla di un buco nero.Diventare consci delle rigidità occulte della propria visione del mondo può essere un aiuto formidabile nel capire e giudicare. Nel lavoro scientifico come nella vita quotidiana
Arthur I. Miller, L’impero delle stelle
Amicizia, ossessione e tradimento alla ricerca dei buchi neri
Codice edizioni, ed. 2006, pp. 419, € 30,00
trad. G. Olivero
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