di Davide Mana
Storia naturale della letteratura fantastica |
Parte seconda
La prima parte di questo articolo ha dedicato ampio spazio all’opera di Fritz Leiber, al suo ciclo di Lankhmar, alla sua fantascienza, ai suoi spettri di fumo.
Le citazioni, spesso invadenti, che costellano questo articolo hanno – ci auguriamo – dimostrato il rispetto del quale Leiber ha sempre goduto nella comunità fantascientifica.
In questa seconda parte, più breve, diamo spazio agli elementi che hanno contribuito a costruire la leggenda di Leiber – quella di un autore dalla cultura vastissima, di un’eleganza impeccabile, che rispondeva personalmente a tutte le lettere dei suoi fan e che intratteneva i propri amici con recite estemporanee dei classici.
Un uomo che fu autore e interprete delle proprie storie, ispiratore e interprete di storie altrui, che visse in molti universi diversi, e che per gli appassionati del genere fantastico, nelle parole di Ellison, camminò, metaforicamente, sulle acque.
Forse un giorno anche i lettori di «narrativa seria» si accorgeranno di lui, e lamenteranno il tempo perduto.
3 – Miracoli
Se, in futuro, mostrerò scarsa inclinazione a filosofare dogmaticamente, e mi affannerò con triviali e alquanto infantili attività quali, ad esempio, infestare negozi di giochi e parchi divertimenti e altre malfamate e pittoresche località, e se scriverò narrativa eccessivamente fantasiosa, addirittura frivola, se mi dedicherò all’inseguimento instancabile di persone stucchevoli e curiose, se ci sarà a tratti un che di frenetico nel mio desiderio di vicinanza umana, e se occasionalmente parrò protendermi all’esterno verso l’universo, ovunque in esso, e sempre più in profondità… beh, spero capirete (Fritz Leiber, 1979).
Sul fronte dei generi, Leiber scrisse tutto: fantascienza, fantasy, horror, avventura, poliziesco e mainstream, oltre a storie che rappresentano originali, prime ibridazioni di genere.
Molto appropriatamente, quindi, sul fronte dei premi, Leiber vinse tutto: otto volte l’Hugo, quattro volte il Nebula (con sette nominations), due volte il Grand Master (Nebula e SFWA), il Life Achievement, il Premio Gandalf, il Gilgamesh, l’H.P. Lovecraft, l’August Derleth, il Bram Stoker, per un totale di oltre trenta premi.
Vinse persino il premio per il miglior costume al ballo in maschera degli autori a una WorldCon di tanti anni or sono: scoprendo sulla porta che era previsto un costume (l’alcolismo gli aveva danneggiato tra l’altro la memoria a breve termine, causando tutta una serie di episodi fra l’aneddoto e la tragedia), l’impeccabile Fritz si tracciò una sorta di segno del Tao in fronte con un pennarello, e poi recitò la parte del Signore dei Serpenti (dalla sua serie della Guerra del Cambio) per il resto della serata.
Fu un trionfo.
Molto appropriatamente, dalla metà degli anni Settanta esiste anche un elusivo Fritz Leiber Fantasy Award, assegnato ad autori la cui carriera abbia privilegiato il fantastico «adulto»; il trofeo è costituito, inopinatamente, da una pistola Mauser 7.92 (probabilmente un’idea di L. Sprague de Camp).
Leiber venne utilizzato come personaggio da Robert Bloch (The Haunter of the Dark), da Michael Moorcock e addirittura infilato a forza in un apocrifo di Star Trek (Fritz Leiber: Actor Extraordinaire di Linda J. Dunn, 1978); nella storia della Dunn, mai più ristampata, l’equipaggio dell’Enterprise incontra un Leiber parallelo, che non ha mai abbandonato la professione teatrale per dedicarsi alla scrittura. Come vedremo, Kirk e soci non sono gli unici ad aver goduto di questa curiosa esperienza.
Leiber stesso usò frequentissimamente se stesso come modello per i propri protagonisti; nell’ultima storia pubblicata prima di morire (oggi inclusa nell’antologia Gummitch and Others), usò i propri genitori, in maniera molto poco rispettosa, quali protagonisti e vittime della narrazione.
Allo stesso modo, nel corso della sua carriera, Leiber non mancò di inserire alcuni colleghi quali comprimari nelle proprie storie: Sprague de Camp e Lin Carter, come abbiamo visto, Joanna Russ, Robert Bloch e forse anche Henry Kuttner. I cameo più gustosi, tuttavia, Leiber li riservò alle proprie bestie nere: John W. Campbell, editor che consigliava ai suoi autori di adottare pseudonimi WASP (suggerì al troppo ebraico Horace Gold di firmare i propri racconti come «Clyde Crane Campbell»), e che di Leiber apprezzava il ceppo germanico come di Anderson le radici scandinave e di De Camp i sentori normanni; L. Ron Hubbard, bugiardo cronico – non necessariamente un male, per un autore di fantasy – e infatti dotato autore del fantastico più sbrigliato, ma anche perpetratore della grande truffa della Scientologia; Mickey Spillane, colpevole di un peccato imperdonabile per un artista come Leiber, la corruzione dei modelli e del linguaggio di Chandler, piegati alle più bieche fantasie falliche.
E anche il maestro Lovecraft venne precettato dalla penna di Leiber come personaggio in alcuni racconti, il più famoso dei quali è l’eulogia (e saggio in forma narrativa) Per Arkham ad Astra; ma non manca un velenoso frammento incompiuto su un incontro fra il Gentiluomo di Providence e una «dominatrice» sadomasochista; il frammento è oggi conservato fra le carte del figlio di Fritz, Justin Leiber.
I fan non possono che lamentare l’incompiutezza dell’opera.
E possono cogliere, con un po’ di attenzione e di fortuna, due altri Fritz Leiber «paralleli», altri due succosi alter ego dell’autore che più di ogni altro ebbe mille facce per il proprio pubblico.
In qualità di attore cinematografico, Leiber compare brevemente in Camille, con Greta Garbo e Robert Taylor, e in Monsieur Verdoux di Charlie Chaplin; in quest’ultimo, Leiber interpreta un impressionante sacerdote, un Leiber-che-avrebbe-potuto-essere, se solo Fritz non avesse abbandonato la scuola di teologia e la vocazione.
Leiber compare pure ne Il Gobbo di Notre Dame, del 1939, con Maureen O’Hara e Charles Laughton, in The Web, un noir a basso costo del 1944 con Edmond O’Brien e Vincent Price, nel B-horror Equinoxdel 1970 (anche noto come The Beast), e nel docudramaThe Bermuda Triangle (1979), basato sul libro di Charles Berlitz.
Infine, in The Great Garrick, del 1937, diretto da James Whale (quello del Frankenstein con Boris Karloff), Fritz Leiber sr. e Fritz Leiber jr. interpretando rispettivamente i ruoli shakespeariani di Orazio e Fortibras.
Uno dei miei ricordi più cari di Fritz fu un weekend nella vecchia residenza estiva di Fletcher Pratt, a Highlands, nel New England, con Fritz disteso a terra nella stanza dei giochi, una splendida bionda accoccolata su ciascun lato, che incantava una stanza piena di scrittori e artisti entusiasti recitando magistralmente Dover Beach (Frederick Pohl, 1999).
I libri di Fritz Leiber sono stati adattati a radiodramma (tre, in X Minus 1), a film (gli adattamenti di Conjure Wife e The Girl with the Hungry Eyes) e a telefilm (The Dead Man, comparso nel 1970 in Night Gallery), a fumetti (le storie di Lankhmar, sceneggiate da Howard Chaykin e disegnate da un giovanissimo Mike Mignola molto prima di Hellboy), a graphic novel (il recentissimo Gonna Roll the Bones, illustrato da David Wiesner) e a gioco di società (il vecchio Lankhmardella TSR, che era zoppo ma, in retrospettiva, non era poi così malvagio).
Nel 1969 Joanna Russ adattò The Winter Files per il palcoscenico, e nel 1982 il Babcock Theatre di Salt Lake City portò in scena The Big Time, l’opera forse più teatrale di Leiber.
E nel 1976 lo stesso Leiber pubblicò un audiolibro, un trentatré giri nel quale le sue doti di attore venivano messe al servizio del pluripremiato Gonna Roll the Bones.
Nel 1980, i Jefferson Starship – rock-band con due Hugoall’attivo – fecero una canzone basata su The Girl with the Hungry Eyes.
Altri due gruppi rock – i tedeschi X Marks the Pedewalk e i canadesi Lankmar – devono il proprio nome a lavori di Leiber.
E se il film basato su Conjure Wife uscì col titolo di un libro di Merritt, nel 1968, la rivista francese «Galaxie» attribuì a Leiber Il Pianeta del Piacere, di Frederik Pohl. Errore comprensibile, per alcuni – in fondo anche Leiber era, a modo suo, un autore di fantascienza sociologica.
[Quando cominciai a scrivere] presi una delle storie di Fafhrd e del Gray Mouser, di Fritz Leiber, e la studiai. Fritz è bravissimo; ti fa arrivare l’informazione in modo molto astuto, molto sottile. Non riesci a vedere il movimento delle mani (C. J. Cherryh, 1992).
Poul Anderson |
Tutti i romanzi, gran parte dei racconti e una più che discreta selezione dei saggi di Fritz Leiber sono stati tradotti, più volte, e spesso malissimo, in italiano; il linguaggio di Leiber è preciso, asciutto, uno strumento perfettamente adattato alla musica che deve eseguire – non c’è una virgola fuori posto, ed è il suono delle parole a dare il ritmo alla prosa.
In uno dei passaggi autobiografici del suo testamento spirituale, Going for Infinity (2002) Poul Anderson ammette implicitamente di aver attraversato una fase di crisi creativa, fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, a causa – fra le altre cose – della prosa pirotecnica di Leiber, che «come una supernova» si stagliava sulla povertà del panorama generale. Come Asimov e forse più di Asimov, Anderson non condivideva la politica di Leiber e lo smacco doveva bruciare, appunto, come una supernova. A differenza di Asimov, Anderson poteva permettersi di dimostrare il proprio rispetto per un vecchio amico, e rammaricarsi che le disavventure di una vita troppo «artistica» gli abbiano impedito di scrivere di più.
Forse una delle cose che allontanano Leiber dai critici è la ricchezza che le sue opere mostrano alla superficie. Una sorta di horror vacuilo spinge a sfruttare ogni frase e ogni parola caricandola di un’allusione o di un’invenzione, e inoltre Leiber ama giocare sull’ambiguità, tanto che il vero significato emerge soltanto in seconda o terza lettura, quando tutte le tessere sono cadute al loro posto. (Riccardo Valla, 1976).
Peccato, a questo punto, che i traduttori nostrani, di fronte alla non facile impresa di tradurre la prosa leiberiana, tendano a sbrodolarsi, travisando o impoverendo spesso il linguaggio di Leiber. Confrontiamo ad esempio il primo paragrafo di The Black Gondolier (1964)…
Daloway lived alone in a broken-down trailer beside an oil well on the bank of a canal in Venice, near the café La Gondola Negra on the Grand Canal not five blocks from St. Mark’s Plaza.
…con il primo paragrafo de Il Gondoliere Nero (Mondadori, 1989, traduzione di Giuseppe Lippi):
Daloway viveva, solo, in una roulotte che aveva visto tempi migliori ed era sistemata presso un pozzo di petrolio a Venice; si trovava vicino all’acqua, nei pressi del caffè «Gondola Negra», proprio di fronte al Canal Grande e a meno di cinque isolati da piazza San Marco.
Inutile dire che si tratta di due diverse roulotte, in due località diverse, presso locali con nomi e insegne differenti. La voce è diversa, lo stile, i tempi, il ritmo. In italiano c’è dell’acqua che non compare nell’originale e i riferimenti geografici (e il gioco Venezia/Venice) sono stravolti.
Le cose peggiorano, nelle righe e nelle pagine successive.
E questo è solo un esempio, e forse neppure il più orribile.
Vogliamo qui approfittare dell’occasione per esprimere il viscido e freddo brivido di disgusto che ci coglie al solo pensiero che qualcuno, a suo tempo, si provò a tradurre Gray Mouser come «Toparo Grigio» (vergogna!); abominio poco lontano dal comunque pessimo «Acchiappatopi Grigio» oggi usato dai più (anche dal catalogo Vegetti) e che si contende con l’equivalente spagnolo, «Ratonero Gris», la palma della peggior traduzione inutile di un nome altrimenti perfetto così com’era.
Ma controllatelo, il Vegetti (www.fantascienza.com\catalogo), che a Leiber dedica cinque pagine abbondanti, e poi buttatevi a setacciare le bancarelle, gli specialisti in remainders, e i mercatini delle pulci.
Ci sono buone edizioni (un indizio: non «Urania») ed edizioni mediocri (certe «traduzioni creative» stampate da Libra, ad esempio). Tutte sono degne di nota – anche se spesso per i motivi sbagliati – e tutte sono ampiamente collezionabili, anche se solo per il valore venale.
Nonostante abbia aperto la strada al colossal fantascientifico con le quattrocento e più pagine di The Wanderer, Leiber scrive in un’epoca in cui «romanzo» significava prevalentemente una storia serializzabile in quattro o cinque puntate su una rivista – non aspettatevi quindi volumi massicci, a parte il polposo Il Mondo di Newhon, pubblicato da Nord nel 1977, e un omnibus pubblicato da Mondadori negli anni Ottanta.
La parte più difficile, per il collezionista integrale, sarà mettere insieme i racconti fuori serie – non ne esiste un’edizione completa, né in italiano né in inglese (dove tuttavia è improbabile che si faccia attendere a lungo). Una quantità di materiale apparve in appendice a «Urania» e «Galassia». Ghost Light (tradotto in italiano come Luce Fantasma, da Interno Giallo) è un buon punto d’inizio, un volume illustrato che copre l’intera produzione di Leiber, da Lankhmar a poco prima della sua morte.
La caccia a Leiber sarà lunga e spesso frustrante, ma potrebbe riservare delle sorprese – dopotutto, uno dei libri più rari della fantascienza americana è suo (Night’s Black Agents, edizione Arkham del 1947), e il libro più raro della fantascienza italiana è suo (quel dannato – è il caso di dirlo – «Urania» numero 35).
Altrettanto introvabile, e coccolata dai collezionisti, rimane l’unica incursione di Leiber nel genere dell’avventura pura – quel Tarzan and the Valley of Gold del 1966, scritto per pagare i conti, venticinquesimo volume della saga dell’Uomo Scimmia, primo e migliore fra gli apocrifi burroughsiani.
Adattamento (in oltre 300 pagine) dell’insipido film omonimo ambientato in Sud America, Valley of Gold è considerato una delle voci più curiose nel catalogo di narrativa dedicata a Lord Greystoke – pur attenendosi ai canoni dell’avventura muscolare di Burroughs, Leiber rimane fedele a se stesso nell’accuratezza delle descrizioni, nella caratterizzazione approfondita dei personaggi (anche i comprimari hanno un loro spessore) e nell’uso consapevole di elementi junghiani e campbelliani; in mano a Leiber, Tarzan e Lord Greystoke sono quasi due personalità separate animate dallo stesso spirito avventuroso, partecipi del mondo animale attraverso la possibilità di comunicare usando «qualcosa di più profondo di ciò che gli umani chiamano linguaggio». In questo, Leiber precorre i pastiches burroughsiani di Philip J. Farmer (la cui interpretazione di Tarzan è comunque freudiana), ma rimane infinitamente più rispettoso del personaggio, e in ultima analisi molto più leggibile.
Il guaio con Leiber è, che egli possedeva tutto il necessario per essere un narratore davvero grande, ma troppo spesso si accontentò di riciclare convenzioni della letteratura pulp per risolvere prove di narrazione altrimenti brillanti (Michel Basilieres, 2005).
Per chi invece volesse approfondire il discorso critico, a parte pochi articoli e varie introduzioni ai diversi volumi, al momento esistono solo tre studi su Fritz Leiber immediatamente disponibili.
L’ingannevolmente esile Witches of the Mind, pubblicato dalla Necronomicon Press, si concentra sugli elementi psicoanalitici delle storie di Leiber, e sottolinea il passaggio da una fase lovecraftiana ad una fase junghiana a una finale fase di maturità.
Il recente Masters of Darkness (Wildside Press) analizza invece il carteggio Leiber-Lovecraft e, ristampando tanto le lettere quanto gli articoli di Leiber su Lovecraft e i racconti scritti sotto l’influenza del maestro, rappresenta uno dei volumi più completi per comprendere la prima fase dell’opus leiberiano (e un buon posto dove trovare almeno parte di Night’s Black Agents).
Il doppio numero monografico della rivista «Fantasy Commentator» n. 57/58, settembre 2004, allinea invece una ventina di saggi di altrettanti autori storici, a commemorare la vita e l’opera di Leiber.
Il francese L’Univers de Fritz Leiber, pubblicato come volume fuori serie della rivista «Bifrost», offre una carrellata critica aggiornata sull’opera leiberiana, oltre a una buona selezione di storie, e meriterebbe di essere il quarto della nostra lista – ma risulta esaurito anche presso l’editore, e quindi scomparso insieme a tanti studi precedenti (un paio di centinaia di articoli).
Un quinto, dottissimo studio, pianificato a suo tempo dallo psicoanalista e scrittore canadese Bruce Ballon e dal leiberofilo torinese che firma in calce questo pezzo, non ha finora avuto modo di concretizzarsi (ma chissà che una di queste notti, quando le stelle saranno al posto giusto…). In attesa che quel ponderoso volume prenda forma, una selezione opportunamente riorganizzata del materiale a suo tempo compilato la state leggendo proprio ora.
Appendice Per il Lettore Avventuroso – L’Amico Fritz
Fritz Leiber aveva uno stile in prosa di gran lunga superiore a tanti scrittori di «high fantasy» […] Questa roba è rock’n’roll e dev’essere eseguita il più possibile come rock’n’roll – il che non significa trasformarsi in sessantenni a torso nudo coi peli del petto tinti, ma significa conservare una certa tensione e un certo ritmo. La volontà di infrangere un sacco di regole e sbattersene fin tanto che la storia suona vera… Altrimenti diventa pop (Michael Moorcock, 2001).
A cinque anni dalla sua morte, il trono di Fritz Leiber, al quale egli stesso non dimostrò mai molto attaccamento, resta penosamente vacante.
La scrittura rimane un vizio di famiglia: Justin Leiber, figlio di Fritz, è un filosofo con al proprio attivo alcuni romanzi di fantascienza, inclusa una interessante trilogia transumanista (Beyond Rejection, Beyond Humanity, e Beyond Gravity)e svariati volumi di filosofia e psicologia cognitiva; la nipote Arlynn Presser, figlia di Justin, è un ex avvocato che, abbandonata la carriera legale, con lo pseudonimo di Vivian Leiber ha al proprio attivo diciotto romanzi rosa, molti dei quali con elementi insoliti e anticonformisti.
Per il resto Leiber non ha lasciato eredi diretti – letterariamente parlando. In molti si avvicinano a questo o quell’aspetto dell’opera leiberiana, ma le «regole di campo» automaticamente fanno perdere significato al confronto – per paragonarsi al Leiber di Novilunio, della Guerra del Cambio o di Lankhmar bisogna essere maturi, oltre che grandi, e i grandi autori maturi sono di solito troppo personali per potersi paragonare a chicchessia.
Meraviglioso, magico Fritz Leiber, davanti al quale Bradbury e Sturgeon e Norton e Goldman e Barth e Vonnegut si inchinano, senza contare Robinson, Busby, Anderson e anche il sottoscritto, il più folle egomaniaco fra tutti loro. Fritz Leiber, molto probabilmente il migliore di tutti noi, l’uomo che ha vinto più premi di chiunque altro, l’uomo le cui parole hanno sollevato questa categoria troppo spesso disgraziata fino alle vette olimpiche più spesso di quanto ci sia concesso dire (Harlan Ellison, 1977).
Alcuni citano Harlan Ellison, quale attuale emulo dei fasti leiberiani.
Certo, Ellison sta seguendo una strada parallela a quella seguita da Fritz, sia nell’evoluzione tematica e stilistica, sia nella continua vendemmia di premi letterari. Gode inoltre di un rispetto presso il pubblico mainstream che Leiber non conobbe mai – e vanta il record di essere stato licenziato dalla Disney dopo aver lavorato per loro appena mezza giornata, un’impresa degna di Leiber e che Fritz avrebbe certamente invidiato.
Ellison e Leiber sono però lontani per tessitura e sapore narrativo.
Tim Powers, originariamente membro del «circolo» di Philip K. Dick (un altro autore di «Galaxy»), giganteggia oggi forse allo stesso livello di Leiber nel panorama della letteratura americana, con opere quali The Drawing of the Dark (in italiano, inopinatamente, Il re pescatore, Nord) e On Stranger Tides (Fanucci, Sui mari del fato), o Declare, che vanno al di là del semplice «fantastico», ma Powers possiede uno stile troppo personale per permetterci un paragone costruttivo.
Altri?
Pochi, ma forse più di quanti non si creda.
Nel campo dell’orrore, l’autore che oggi maggiormente si avvicina a Leiber per stile e forma è certamente l’inglese Kim Newman, specie nella narrativa breve (da noi comparsa a sprazzi in alcune antologie di Newton Compton).
Un po’ più ossessionato dai media, forse, il Newman di Week Girl (ideale aggiornamento della Ragazza dagli Occhi Famelici ai fatui e confusi anni Novanta), The Original Doctor Shades e di Out of the Night (When the Full Moon is Bright) e di tante altre storie fulminanti, «suona» quasi come una cover band di Leiber.
Sulla forma lunga, l’americano Jeffrey Barlough, con il suo originale e piacevole mix di Dickens e Lovecraft, si avvicina al Leiber più ironicamente distaccato ed elegante, sottile cesellatore del linguaggio, capace di costruire brividi e meraviglie su premesse balzane; Barlough è leiberiano anche nel trattare i rapporti sentimentali dei suoi protagonisti, nei quali si sottolinea una inerente e irrisolvibile vena crudele.
Peccato che Barlough scriva i propri romanzi col contagocce (solo tre volumi, al momento, nel ciclo del Talbotshire), e che nessuno li abbia mai tradotti nella nostra lingua.
Per il fantasy, sarebbe bello poter dire che ciò che gli editori ci spacciano oggi come sword & sorcery è tutta produzione di una «Scuola leiberiana»; purtroppo non è così, e nella valanga di Eddings e Turtledove e Jordan e Martin, sono rari i titoli di sword & sorcery che, fedeli ai precetti di Fritz, siano anche solo paragonabili alla peggiore delle storie di Fafhrd e del Gray Mouser.
Si salva l’inglese Mary Gentle, con le sue storie del Corvo Bianco (già più volte citate, e malamente tradotte – in parte – da Fanucci) e col recente 1610,ipotetica «storia vera» del bieco spadaccino «quasi Mouser» Rocheford, che Dumas avrebbe poi plagiato scrivendo i propri romanzi. Affine alla Gentle, ma più «popolare» per stile e inclinazioni, è l’americano di origini ungheresi Steven Brust, con la serie sull’assassino Vlad Taltos (iniziata nel 1983): unico serio erede dello stocco del Mouser, lo spadaccino-stregone Taltos è protagonista di una lunga serie di romanzi ricchi di inventiva, che in Italia non hanno mai visto la pubblicazione (e se ciò che abbiamo detto in passato è vero, mai la vedranno). Il trotskista Brust traccia le proprie origini nel Dumas del ciclo dei Moschettieri (di nuovo), e ha pure pubblicato una variazione sul tema di The Big Time, col romanzo di fantascienza Cowboy Feng’s Space Bar and Grille (1990) – quasi una rilettura di Leiber, con un cast al contempo infinitamente più fragile e più brutale.
Promette bene il francese Mathieu Gaborit, che ha in Leiber e Moorcock i propri autori di riferimento, con le sue storie neoclassiche e bizantine (Les Chroniques des crepusculaires, edizione definitiva 1999), un altro autore per il quale vediamo all’orizzonte poche speranze di traduzione.
Ma se c’è un genere nel quale Leiber ha davvero lasciato un vuoto, questo è la fantascienza.
Forse Kage Baker, fra gli scrittori dell’ultima generazione, ha ereditato l’umorismo e il rigore di Leiber, dimostrati proprio cucinando una serie di romanzi imperniati sui viaggi nel tempo, vicini alle cronache di Ragni e Serpenti (e pubblicati in Italia da «Urania»). È con una certa curiosità che i lettori aspettano la prima prova di Baker in campo fantasy, in uscita in questi giorni.
Recentemente, infine, l’inglese Liz Williams – laureata in filosofia e in cibernetica come ben due generazioni di Leiber, Fritz e Justin, ma con alle spalle anche un periodo trascorso come cartomante nelle fiere – ha mostrato le stesse doti di Leiber nell’affrontare in maniera non conformista l’intero spettro del fantastico, dall’horror alla fantascienza hard, con i racconti raccolti nello splendido Banquet for the Lords of Night (Night Shade Books, 2004), quasi un «Neri Araldi» parallelo. Williams ha all’attivo anche quattro ottimi romanzi, nei quali associa a una logica ferrea una grande felicità inventiva. Finora mai tradotta in italiano, Williams resta un’autrice da tenere d’occhio. Considerando che i primi due romanzi di Williams, Ghost Sister e Empire of Bones, e il più recente Banner of Souls (EOS, 2005) hanno ricevuto una nomination per il prestigioso Philip K. Dick Memorial Award, è probabile che anche i nostri sonnacchiosi editori italiani prima o poi si accorgano di lei – e non invidiamo il traduttore che dovrà dibattersi con la prosa di quest’autrice che mescola senza difficoltà, e con grande divertimento, demoni cinesi, guerriglieri afgani e alieni che sono il modello sul quale l’inconscio collettivo plasmò le divinità indù.
Ma si tratta sempre, anche nel caso di questi giovani, di autori troppo compiuti, nel proprio stile e nel proprio approccio alla narrativa, perché il paragone abbia un valore più che indicativo.
Ma d’altra parte, è davvero necessario che un grande come Leiber crei una propria «scuola»?
Nel settimo secolo, lo sceicco Omar bruciò la biblioteca di Alessandria.
Sosteneva che basta il Corano.
Ci sono giorni, in cui potrei bruciare la mia collezioni di libri di fantascienza.
E di fantasy.
E di horror.
E tutti i manuali di scrittura.
Ci sono giorni in cui basta Fritz Leiber.