Suspense e filosofia, mistero e storia, amore e sangue sono i fili che si intrecciano nell’arabescata trama dell’ottimo Giallo storico Il manoscritto delle anime perdute di Giulio Leoni (Casa Editrice Nord, 2017). Tra il lontano Oriente e il Veneto, dal 1303 al 1304, la finzione narrativa e l’attenta ricostruzione storica di questo seducente romanzo – con le sue suggestive pirotecnie nere di morti violente, antefatti remoti, entità ultraterrene ed intrighi politici – ci immergono nell’atmosfera purpurea, fantastica e reale insieme, di un medioevo restituito alla sua dimensione più autentica e vitale, scalzata dalle immagini convenzionali tanto di un’ingessata e polverosa aurea aulica quanto au contraire, come spesso accade in un gioco degli opposti, di uno sguardo banalmente folkloristico e giullaresco, proprie entrambe di certa fiction storiografica scadente.
Una ricostruzione colta e affascinante che coglie lo spirito dell’epoca al di là degli stereotipi, capace di dare vita ad un universo trecentesco infiammabile e senza mezze misure ma già pronto, attraverso la figura del personaggio di Dante Alighieri, a quell’Autunno del medioevo che, come dice Le Goff a proposito del celebre saggio di Huizinga, «è pieno di furore e di rumore, di sangue e lacrime» eppure apre la strada a quella passione per le sottigliezze e le complessità, i dubbi e le domande, tipica dell’uomo moderno. È questo il perno fondamentale della fortunata serie delle avventure dantesche di Giulio Leoni, tradotte all’estero nei maggiori Paesi – I delitti della Medusa (2000), I delitti del mosaico (2004), I delitti della luce (2005), La crociata della tenebre (2007) e La sindone del diavolo (2014) – vale a dire l’ossessione di sapere, la brama di verità, quell’andare oltre il veto dell’albero del Bene e del Male del cui frutto non ci si può nutrire perché
«l’assoluta sapienza è solo dominio di Dio, non è data a noi se non per barlumi e frammenti, come se vedessimo in uno specchio oscuro. Per speculum videmus in aenigmate, solo la conoscenza dell’ombra ci è permessa»
dice a Dante Lanfranco da Cuma, il temibile capo dell’Inquisizione romana a caccia del frate eretico in possesso di un libro maledetto il cui segreto, rimasto nascosto per secoli, se divulgato sarebbe capace di scuotere l’edificio stesso della Chiesa fin dalle sue fondamenta. Si tratta di un misterioso manoscritto trafugato da una biblioteca orientale, composto nella lingua degli angeli caduti, la lingua primigenia della creazione dalla quale sarebbero nati tutti gli idiomi parlati sulla Terra. Cosa accadrebbe se un testo simile finisse nelle mani del volgo? La Chiesa ha il dovere di impedirlo.
«Ho sempre rifuggito dall’addentrarmi sul sentiero che porta ai primi giorni. Dio stesso sacrificò il figlio suo diletto per cancellare ciò che avvenne prima dell’annunzio della Buona novella. […] Che giova conoscere in qual lingua Adamo e la sua turpe compagna confabularono tra loro per tradire il comandamento, o in quale idioma ascoltarono il grido di vendetta che li perdeva nei secoli?»
ammonisce l’inquisitore. Ma Dante, mosso dall’insaziabile desiderio di sapere e conoscere, pur se incaricato di una delicata questione diplomatica con il signore di Verona a nome dei Bianchi di Firenze, non può fare a meno di seguire le tracce che portano all’inquietante volume, anche a rischio di essere accusato dell’omicidio di un copista, nella cui bottega aveva intravisto una pergamena vergata con i medesimi sconosciuti segni dell’idioma favoloso, o di essere egli stesso accusato dal Santo Uffizio e perseguito per eresia.
Tra i vicoli infuocati dell’estate veronese, gli aspri sentieri degli Appennini e le tumultuose strade di una Firenze assediata dalla fazione guelfa dei Neri, Il manoscritto delle anime perdute ci restituisce un Dante inedito, vibrante e vivo, tanto immerso in sottili questioni filosofiche quanto calato nella più aderente quotidianità del suo tempo, con indosso «ancora gli abiti di panno pesante dell’inverno, un abbigliamento consunto dagli anni dell’esilio che non aveva modo di rinnovare ora», o intento a «inghiottire il piccolo pezzo di carne bollita che uno degli uomini gli aveva servito su una fetta di pane raffermo», mentre nel suo avventuroso peregrinare si imbatte in ambigui personaggi, bordelli, accampamenti militari, taverne e antichi amori. Scritto in una lingua che sia nei termini che nella sintassi rievoca il passato trecentesco, ma senza affettazioni di troppo o virtuosismi che potrebbero renderne faticosa la lettura, questo avvincente romanzo, calibrato sull’ordinato meccanismo del Giallo, dà vita ad un sottile gioco di enigmi, misteri e false piste che ci guideranno fino allo sconvolgente e inatteso finale.
Giulio Leoni, Il manoscritto delle anime perdute, Casa Editrice Nord, 2017, 378 pp., copertina rigida € 16,90
Idem e-book € 9,99
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