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    Magazzino

    S. Lambiase – Terroristi brava gente

    • di Giulio Artusi
    • maggio 2, 2006 a 3:04 pm

    Sergio Lambiase
    Terroristi brava gente
    Marlin
    € 12,00

    Parrebbe un’impresa impossibile – o meglio inopportuna – accostare il tema «lotta armata» in chiave amena o, peggio che mai, comica. Un po’ come scherzare sulle camere a gas – tema che comunque diverte molto il nostro benamato ex-premier – o, peggio che peggio, sulla fedeltà dei calciatori ai colori sociali.
    Questo in omaggio alla seriosità composta e ipocrita che affratella destra e sinistra italiane e che nasce dalla cultura poco secolare e molto criptocattolica di un paese mai approdato all’età adulta, tanto da continuare a confondere «peccato» con «reato».
    Scherzare sul terrorismo e soprattutto scherzare sui terroristi, sulla loro storia e avventure, sulle loro fissazioni, manie, convinzioni fasulle, errori di giudizio e (militante) stupidità può viceversa risultare un’operazione salutare, un modo finalmente laico per ripensare una stagione della sinistra non ancora completamente risolta né del tutto digerita.
    Terroristi brava gentedi Sergio Lambiase si può così considerare una sorta di «modesta proposta» per ripensare quegli anni, una rivisitazione condotta con leggerezza e umorismo – un umorismo spesso amaramente sardonico – della vocazione inconsapevolmente tragicomica di chi confuse la realtà con i propri desideri e le proprie paure.
    I terroristi di Lambiase sono individui verbosi e approssimativi, «otri pieni di vento» che ripetono enfaticamente parole d’ordine maturate in altri tempi e altri luoghi, che scimmiottano organizzazione e prassi di militanti comunisti divenuti tali in situazioni radicalmente – spesso drammaticamente – diverse.
    Volendo cercare un punto del romanzo dove la frattura tra la realtà e il voler essere dei marxisti-leninisti di Lambiase raggiunge il suo acme basterà leggere le pagine dedicate alla visita a Napoli dei compagni Khmer provenienti dalla Cambogia. «I gloriosi compagni della Kampuchea» che si scattano foto tra loro come turisti giapponesi e passano mezz’ora a guardare, rapiti, il soffitto affrescato dell’aula magna dell’Università dove deve tenersi «l’incontro militante».
    Ma questo è forse soltanto uno dei tanti punti di frattura del percorso confuso e affannato che conduce Febo e i suoi «compagni» dalla vigilanza antifascista e i volantinaggi in fabbrica al terrorismo, in una patetica rincorsa verso nuove figure sociali «oggettivamente rivoluzionarie», come il «proletariato in carcere» e i malati mentali.
    Delusi dalla classe operaia, definitivamente imborghesitasi,

    […] stronzetti piccolo-borghesi peggio di noi, anzi noi tentavamo di uscire dalla nostra pelle e loro ambivano a entrarci, ultrareazionari, anime perse per qualsiasi rivoluzione, nonostante il loro proclamato antifascismo e la voglia sempre pronta di battere tamburi di latta nei cortei.

    ma ancora irriducibilmente, testardamente rivoluzionari, i componenti del piccolo gruppo armato del quale Febo – candido frustrato – è la voce narrante, organizzano attentati, rapimenti, azioni paramilitari, finendo però sempre per avvertire amaramente la propria inadeguatezza rispetto alle cupe geometrie militari delle BR.
    Il gruppo di Febo, decimato dall’incompetenza nell’uso degli esplosivi e dalle defezioni finirà fatalmente per sfasciarsi. Per alcuni resterà aperta soltanto la via che conduce oltre la zona grigia che li separa dalla delinquenza comune. Per altri, e tra questi Febo, la fine dell’esperienza rivoluzionaria sarà un passaggio inavvertito dalla condizione privilegiata di detenuto «politico» a quella di recluso normale, chiamato a una scomoda riabilitazione.
    La scelta di narrare l’epica rivoluzionaria della «Colonna Gavino Prunas» attraverso la voce incerta di Febo, «fedele alla linea» ma sovente perplesso o distratto da inopportune questioni amorose, è probabilmente uno degli elementi di maggiore felicità del romanzo.
    Resta da chiedersi quale sarà l’accoglienza per un romanzo tanto poco liturgicamente compassato e, nonostante l’apparenza bonaria, così evidentemente critico verso gli errori fatali della sinistra radicale italiana. Esplorare criticamente (e allegramente) il confine tra pratica politica e terrorismo non è un esercizio comune né facile per chi ha trascorso la gioventù tra fumose e interminabili riunioni picchetti, volantinaggi, presidi e cortei e li vede ora illuminati dalla luce gloriosa del ricordo, ma è – e resta – una pratica salutare.
    Un sentito grazie, quindi, a Sergio Lambiase per aver iniziato il lavoro e un caldo invito a non lasciarsi scappare il suo libro.

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