Confesso che ci sono cascata in pieno. Ho creduto alla leggenda del passaparola che fa giustizia degli investimenti pubblicitari dei grandi gruppi editoriali e sono corsa a comprarlo, a un prezzo non proprio popolare, pregustando il capolavoro misconosciuto. La delusione è stata cocente. Ben mi sta, avrei dovuto immaginare che si trattava di un prodotto molto, troppo semplice, un’americanata pronta a diventare un film da girare in Marocco con attori travestiti da afgani, che infatti è già in fase di preproduzione.
La storia. Amir trascorre la sua felice infanzia in una Kabul idilliaca, prima dell’invasione russa, in cui convivono in serena incoscienza la modernità di un padre laico e intellettuale, che beve e fuma senza mai mettere piede in moschea e una madre insegnante universitaria (un’occupazione diffusissima, immagino, tra le donne afgane di quegli anni) e il rapporto semifeudale con i servi di casa. La famiglia di Amir è di etnia pashtun, dominante, mentre i servi sono hazara, di etnia inferiore e disprezzata, ma si vogliono un bene dell’anima. Amir va a scuola e gioca con il piccolo Hassan che a scuola non ci va e si dedica a servirlo dall’alba al tramonto, ma il benevolo padroncino gli racconta le storie dei libri che lui, analfabeta, non potrà mai decifrare. In una gara che consiste nell’abbattere gli aquiloni degli avversari Hassan riesce a sconfiggere un perfido ragazzino che per vendetta lo violenta sotto gli occhi di Amir, che non alza un dito per difenderlo. Il senso di colpa porterà Amir a un tradimento davvero ignobile, Hassan e suo padre se ne vanno disonorati, poi la situazione precipita con l’arrivo dei russi e la borghesia afgana, tra cui Amir e suo padre, fuggono fortunosamente e sbarcano infine negli Stati Uniti dove si rifanno una vita svolgendo lavori modesti in seno a una comunità di compatrioti espatriati. Molti anni dopo Amir, sposato senza figli, viene a sapere che Hassan è morto per difendere la casa degli antichi padroni e ha lasciato un figlio internato in orfanotrofio. Amir parte per Kabul alla ricerca del bambino, che ha fatto una fine orribile: un talibano pedofilo, nientemeno che lo stesso violentatore di suo padre, l’ha rapito per farne il suo giocattolo sessuale. In un crescendo grottesco Amir viene pestato a sangue, riesce a liberare il piccolo e torna nella terra della libertà e della democrazia. Dimenticavo, a un certo punto avviene un’agnizione in purissimo stile telenovela messicana.
La prima parte, quella modellata forse sui ricordi d’infanzia dell’autore, ha una sua grazia malinconica anche se semplifica all’osso questioni complesse. Il resto, secondo me, è purissima spazzatura che non spiega niente, accumula solo luoghi comuni e paranoie diffuse che gratificano il desiderio di sentirsi superiori degli occidentali, in modo rozzo e ingenuo. Gli afgani erano buoni, civili e moderni, poi sono arrivati i talebani (dell’occupazione russa non si parla) che erano mele marce fin dall’infanzia, decontestualizzati e destoricizzati, decadenti viziosi e ipocriti. Ora, io penso tutto il male possibile dei talebani, ma è possibile ridurre un fenomeno come l’integralismo islamico a una corruzione genetica? Al solito conflitto di civiltà in cui gli americani sono il polo positivo e risolvono la questione a suon di cazzotti?
La vox populi dice che questo libro è piaciuto tanto perché racconta cose che non si conoscono. Secondo me è proprio il contrario, conferma pregiudizi, cattiva informazione, presunzione occidentale di essere comunque e sempre portatori di civiltà. Ma è facile, leggibile, rassicurante, in fondo consolatorio. Avrà ancora molto successo.
Khaled Hosseini
Il cacciatore di aquiloni
Piemme
€ 17,50
trad. dall’inglese di I. Vaj
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