Avrei avuto altri libri di cui parlare, libri acquistati e letti prima, ma la presenza del volume di Davide Del Popolo Riolo, che mi ha accompagnato alcune sere dell’appena trascorso dicembre, è una tentazione, o se si preferisce un dovere, al quale non intendo sottrarmi. A questo aggiungo la mia incoercibile simpatia per l’autore, visto, sia pure di sfuggita, più volte, al MuFant o presso Strani Mondi o in qualche altro luogo degno della presenza di noi appassionati di sf, tanto da spingermi a parlare del suo testo, vincitore del premio Urania. Tutto ciò detto, aggiungo che non dovete aspettarvi una recensione in forma mielosa e sconciamente elogiativa: non è nelle mie corde (per chiarire: sto ascoltando gli essercizi musici di Telemann) e non sono capace di parlare bene di qualcosa o qualcuno senza rischiare lo sbadiglio del lettore, sicché siete avvertiti.
Nota: se non avete ancora letto il libro fate attenzione: Sono quasi certo di poter fare involontario spoiler parlandone.
La vicenda è il racconto della «resistibile ascesa» di Ian Derrick, misterioso demagogo dalla sconosciuta provenienza e ignota origine, capace di risvegliare nel popolo minuto un’ira dimenticata verso i Patrizi, la classe storicamente dominante, e verso tutti i non-umani a cominciare dai “succhiatori”, un tipo particolare di educati e gentili vampiri che vivono da tempo immemorabile nella città. Tale ira nasce in un momento di epidemia (pandemia? Sì, è possibile) che colpisce in modo particolare le classi più svantaggiate e proletarizzate del nucleo urbano. La politica di Derrick, dalle evidentissime somiglianze con quella di un certo S*****i, lo porta rapidamente al potere, grazie a una condotta basata su un costante clima di odio e intolleranza fino a episodi di vera e propria persecuzione razziale.
Particolare non secondario: il luogo dove tutto ciò avviene è una città non terrestre, lascito di una semidimenticata espansione umana nella galassia, che viene tuttora ricordata ma in toni minori, come qualcosa accaduto molto tempo prima e di interesse limitato. La vita quotidiana nella città e si suppongono anche tutti i suoi traffici, attività economiche socialità, scuole e carriere professionali, hanno un evidente tratto vittoriano, tanto da risvegliare la sensazione di avere a che fare con un apocrifo di China Mieville e ciò che emerge da subito è l’assoluta non-alienità del luogo scelto per la narrazione: latitano le specie non terrestri sia in termini animali che vegetali e si giunge a supporre che le uniche forme di vita aliene siano le creature non-umane che popolano la città, mai spiegate e poco presentate.
Ma ciò detto, resta la profonda suggestione della storia raccontata, alla quale si può perdonare la scomparsa del sense of wonder, uno degli assi portanti della sf propriamente detta. Per lo stesso motivo si può ignorare la scomparsa del Novum, altro elemento fondante della fantascienza storica, sostituito da una passione che non esito a definire semplicemente politica, nel senso di interesse verso la polis, intolleranza verso gli intolleranti (curiosità non trascurabile: Ian Derrick nella seconda parte della sua carriera ha tratti evidentemente mutuati da Adolf Hitler durante la vita nel bunker), preoccupazione verso i dropouts, qualunque sia la loro origine, biologica o artificiale, e una genuina convinzione della fondamentale uguaglianza tra i sessi.
Il Pugno dell’Uomo è uscito a novembre del 2020, numero 1684 della rivista Urania. Costa di 280 pagine, stampate con un carattere che, a occhio, direi essere un times 11. No, non sto perdendo tempo, semplicemente mi chiedo quanto sia lungo il manoscritto inviato alla redazione di Urania: 300.000, 350.000 caratteri? Non è un problema così secondario, come spero di dimostrare in seguito. Il testo di Davide Del Popolo Riolo è infatti ricco di tragiche scomparse che avvengono fuori scena – a cominciare da quella che appare come la protagonista perlomeno nelle prime cento pagine: Alexandra – che si apprenderà essere morta senza preavvisi di alcun genere intorno a pagina 112, nella pagina che precede l’inizio della seconda parte.
Ma l’ecatombe di protagonisti non si ferma con Alexandra, seguono le morti di altri personaggi e comprimari anche queste in genere in assenza del lettore, particolare non del tutto gradevole per chi segue la vicenda.
A questo punto non posso che avanzare la domanda che mi ha accompagnato durante la lettura della seconda parte del romanzo: «Quanto era lungo in origine il romanzo di Del Popolo Riolo? 600.000, 700.000, un milione di caratteri? E quanto l’autore l’ha dovuto tagliuzzare per farlo entrare nella misura di Urania?»
Questa “misura di Urania”, dovuta a una semplice cura tipografica – oltre che alla necessità di non fare uscire un esordiente in un Urania Jumbo o in un Millemondi – è la camicia di Nesso della rivista, nata per pubblicare testi brevi, tipici della sf degli anni ’50, e costretta a inseguire l’evoluzione della sf con le sue modeste scarpette da giardino, obbligata a rimanere nella sua scarsa misura. Il fatto che molti autori privilegino dimensioni di gran lunga eccedenti Urania è un dato di fatto, oltre all’altro elemento, anche questo non secondario: i diritti d’autore degli autori della fantascienza contemporanea non sono più quelli dei tempi d’oro del genere, e non si computano più in qualche centinaio di dollari o con pochi cent a parola.
Sono convinto che Davide nasconda da qualche parte ciò che ha dovuto tagliare dal suo romanzo: le circostanze delle tante morti non descritte e non raccontate, qualche cenno alla storia della città e del pianeta, la sistematica zoologica e botanica aliena, la sua geologia e la sua geografia, un finale meno affrettato e disperato di quello che viene messo in scena e penso che prima o poi potremo assistere a una nuova edizione de Il Pugno dell’Uomo in director’s cut. In ogni caso, personalmente non posso che apprezzare fino all’applauso a scena aperta personaggi pressoché perfetti come Ma’am Zoe, Oleander e il suo ambiguo amico Ben – impressionante la somiglianza tra la sua famiglia, così borghesemente normale e quella di qualunque famiglia ebrea tedesca degli anni ’30 –; la seconda vita di Deirdre, lo squallido ma illuso Anton e la stessa Jana, personaggio atroce ma raccontato con cura e attenzione. Oltre a questo segnalo la capacità – in grado si suscitare la più bassa invidia in chi tenta di scribacchiare come il sottoscritto – di utilizzare con raffinata eleganza le diverse persone del narrare: la prima, la seconda e la terza, confermando la vocazione collettiva della sua narrazione.
Davvero, Davide, un buon lavoro.
Grazie per queste pagine, forse nonostante Urania.
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