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    TerraNova

    Il fantastico di Silvina Ocampo

    • di Silvia Treves
    • Gennaio 9, 2017 a 4:39 pm

    autobiografia-di-irene

    Costruzioni logiche e impossibili che sono di solito avventure di immaginazione filosofica.

    Così Borges e Bioy Casares definivano, nella prefazione all’edizione italiana (Editori Riuniti, 1981) dell’Antologia della letteratura fantastica curata insieme a Silvina Ocampo, la «specie» di genere fantastico che tutti e tre frequentarono assiduamente.

    Silvina Ocampo (Buenos Aires 1906-1993) mise in pratica gli enunciati dell’Antologia in numerose raccolte di racconti raggiungendo talvolta esiti superbi. Grazie ad atmosfere rarefatte, a un punto di vista intensamente «femminile» a un tono forte e tagliente come una lama, ad una immaginazione crudele. «La scrittura di Silvina Ocampo è uno specchio che riflette il mondo in immagini doppie e ambigue», disse Italo Calvino che ne curò per Einaudi le antologie Porfiria (1973) e I giorni della notte (1976).

    Dalla sua vasta produzione ho scelto due raccolte: Autobiografia di Irene (Sellerio, 2000, ed. or. 1948) che ha il grande pregio di aver riportato in circolazione, oltre al racconto che dà il titolo al volume, anche uno splendido racconto sul tema del doppio ed E così via (Einaudi 1997, ed. orig. 1987), una delle sue ultime raccolte, pubblicata dopo quasi dieci anni di silenzio.

    Circa 80 delle 150 pagine di Autobiografia di Irene sono dedicate a L’impostore, il racconto senz’altro più interessante della raccolta, una vicenda sospesa e inafferrabile che circuisce il lettore per il ritmo lento, le descrizioni minuziose e inquietanti, l’atmosfera calda e logorante dell’estate argentina.

    Faceva un caldo soffocante. Alle quattro arrivai alla stazione di Constituciòn […] Attrasse la mia attenzione, nella libreria, una matita Eversharp, che costava poco: la comprai, comprai pure una boccetta di brillantina. Non uso la brillantina, ma pensai che in campagna, nei giorni di vento, avrei potuto averne bisogno. Nei riflessi di una vetrina vidi, come un obbrobrio, i miei capelli ricci. Reminiscenze vaghe delle prime sofferenze a scuola mi tornarono alla memoria.

    L’Io narrante si rivela al lettore sin dalle prime frasi, meticoloso, insicuro, pieno di apprensione per la vacanza che, per volere della famiglia, trascorrerà nella casa di campagna di un coetaneo sconosciuto. Accuditi da pochi domestici quasi invisibili, i due giovani, simili nel carattere e combattuti tra amicizia e rivalità, si studiano come due scacchisti, si abbandonano a confidenze, si ritraggono; la diffidenza reciproca cresce con il trascorrere dei giorni: «Lei è venuto in questa tenuta con il pretesto di riposare, di studiare per i prossimi esami, e non riposa né studia. Ma non è neppure capace di spiare, per ogni cosa bisogna essere intelligenti», giungerà a dire il figlio del padrone di casa all’ospite. La storia procede a spirale, ogni giro più stretto e claustrofobico del precedente, e il lettore la segue con ansia crescente, nonostante sospetti – se buon conoscitore del genere – dove approderà la narratrice. Questa consapevolezza non nuoce affatto, ma sprona a continuare la lettura, a raccogliere indizi (che non diventano mai prove), a seguire le tracce dei due nella vecchia casa cadente e polverosa: «Non le ho detto che tutto è scomparso in questa tenuta? […] Tutto, tranne i pipistrelli, i ragni, i rettili, lei ed io» Racconto davvero notevole, con l’unica (venialissima) pecca di terminare con poche righe superflue di spiegazione.

    Bello anche Autobiografia di Irene, che però – nonostante l’impianto intrigante e diversi passaggi intensi – mi è sembrato un po’ troppo letterario.

    e-cosi-via

    I racconti di E così via sono stati scritti a quasi quarant’anni di distanza dai precedenti, dopo un silenzio di quasi dieci anni che potrebbe avere la sua spiegazione allegorica nel racconto Qualcosa di indimenticabile:

    La censura ha proibito di scrivere opere di finzione. All’inizio mi sono ribellata […] Ora sono d’accordo perché sono d’accordo su qualsiasi sciocchezza, perché tutto è scombinato. Non si protesta più, ci si rassegna. La mancanza di lettori cresce insieme a quelli che non scrivono se non sciocchezze e protestano per la noia che procurano questi nuovi libri ispirati solo alla realtà. A volte ho sperato che qualcuno mi facesse uscire dall’abisso d’inerzia in cui ero caduta. Dimostrando che la realtà può essere fantastica, ho suscitato l’odio di quelli che si erano dedicati alle opere di finzione.

    Una grande dichiarazione di impegno civile attraverso la scrittura. I racconti, quasi tutti brevi della raccolta sono molto ineguali sia per tono sia per ispirazione. Accanto a narrazioni feroci come Il rivale, esplorazione di una passione amorosa lungamente imbrigliata che sfocia in una tragedia ambigua, o Il destino, breve racconto che riesce a evocare emozioni torbide senza mai una parola di troppo, o ancora Le conversazioni, intreccio di passioni adolescenti e di attrazioni inconfessate, ve ne sono altre rarefatte e piene di humour come Lenzuola di terra, che dipinge il destino ineluttabile ma non tragico di un «vero» giardiniere, o La musica della pioggia, incontro tra intellettuali e un genio musicale molto precoce. Altre, non poche, sconfinano nell’allegoria e sono, forse, le meno riuscite, imprigionate come sono tra la necessità di raccontare l’estremo e l’ambizione razionale di trasformare una visione in un sistema di pensiero, di promuovere un’intuizione del mondo a spiegazione universale, di attenersi, insomma alla creazione di «costruzioni logiche e impossibili».

    silvina-ocampo

    Silvina Ocampo

    Personalmente ritengo il fantastico un genere che teme le spiegazioni, a meno che non siano il tentativo destinato a fallire dei personaggi di spiegarsi e spiegare a noi lettori, il proprio destino. Silvina Ocampo invece spesso non resiste alla tentazione di prendere per mano il lettore, di spiegare: «Ma si rese conto che tutto quello che pensava era quanto avevano pensato altre persone e che tutto quello che stava pensando era già degli altri», conclude il bel racconto La sinfonia, ma il lettore vorrebbe arrivare da solo alla conclusione, respirarla nel racconto, non leggerla. E «La cosa più importante di tutto per noi è dimenticarci del tempo e sapere […] Che tutto il mondo vive in qualsiasi momento nel mondo di chi lo guarda , benché questo mi sembri stupido e totalmente vano…» così il protagonista del suggestivo Il bosco delle felci arringa il proprio cane.

    Un confronto, o almeno un riferimento a Borges, amico e sodale della Ocampo, è quasi inevitabile. Il brivido che dà leggere Borges non è di genere narrativo, nelle sue pagine il lettore non cerca l’emozione del riconoscimento, ma quella della comprensione: è precisamente attraverso le «costruzioni logiche e impossibili» che Borges ci parla di noi, senza alcun bisogno di evocare personaggi specchio del lettore. Vorrei citare una riflessione molto efficace di Stanislaw Lem:

    Se nessun filosofo chiamato Schopenhauer fosse mai esistito e se Borges avesse inventato in una storia una dottrina chiamata Il mondo come volontà, noi l’accetteremmo come un frammento della narrativa e non della storia della filosofia. Ma di quale genere di narrativa, invero? Della filosofia fantastica, perché venne pubblicata non assertivamente. Qui c’è una letteratura di idee immaginarie, di valori della finzione, di altre civiltà, in una parola la fantasia dell’astratto» [traduzione dall’inglese mia].

    Ma Silvina Ocampo in realtà è tutt’altro che «astratta», la sua immaginazione turba, le sue visioni raccontano i maniera atrocemente efficace l’incomprensione, l’impossibilità di comprendersi tra uomini e donne, l’impenetrabilità dell’animo maschile per il pensiero femminile e viceversa, la tortuosità della mente e del cuore degli umani. I suoi personaggi e lei stessa guardano il mondo da dentro eppure con distacco. La gabbia di riflessioni che talvolta l’autrice cala sulle proprie visioni rischia di indebolirle, di ridurle a un raffinato e pianificato gioco intellettuale.

    «Fantastico senza inconscio», azzardava giorni fa un amico al quale cercavo di spiegare le mie perplessità. Forse. O forse, talvolta nei racconti di Ocampo l’inconscio è semplicemente recintato, allontanato fino a essere osservato attraverso un cannocchiale rovesciato.

    .

    Silvina Ocampo, Autobiografia di Irene, Sellerio 2000, pp. 160, trad. Angelo Morino

    Silvina Ocampo, E così via, Einaudi Supercoralli 1997, pp. 130, trad. A, Meregalli, A. Morino

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