L’horror è il genere più aperto, si può scrivere di ogni cosa, basta renderla credibile.
L’affermazione è di J. A. Lindqvist e l’autore cerca di metterla in pratica in tutte le sue opere, introducendo un forte elemento sovrannaturale in una realtà quotidiana fatta di particolari minuti, di solito legati alla propria esperienza: la vita in un quartiere periferico di Stoccolma, i giochi usati da bambino, le auto di allora, la musica ascoltata da adolescente, gli oggetti casalinghi, cassetti zeppi di piccole cose… Tutto concorre a descrivere il mondo nel quale vivono i suoi personaggi e a creare un ponte tra loro e noi che a nostra volta ricordiamo.
Il porto degli spiriti, Arbour nella versione originale, si svolge a Domarö, un’isola di fantasia che l’autore colloca sul raggio esterno dell’arcipelago di Stoccolma. Anders, il protagonista, è un isolano che anni prima si è stabilito a Stoccolma con la moglie e la loro figlioletta Maja. Un inverno, durante una visita ai parenti, la famiglia fa una gita a un vecchio faro deserto e qui Maja sparisce inspiegabilmente durante un attimo di distrazione dei genitori. Il matrimonio non regge al dolore, alle recriminazioni e al senso di colpa e i coniugi si separano.
Un anno dopo Anders, ossessionato dalla perdita, torna sull’isola per ritrovare la bimba. Accampato nella vecchia casa di famiglia, si sforza di ricordare ogni minimo particolare della figlia, di pensare come una bambina della sua età, quasi di divenire lei. E piano piano, nella casa silenziosa, riesce a percepire la presenza di Maja, convincendosi che le tenui tracce e le coincidenze inspiegabili che talvolta si verificano siano messaggi che la bimba gli manda da un qualche Altrove.
Sull’isola vivono anche la nonna di Anders e il suo compagno, entrambi figure chiave della comunità, la nonna per il passato avventuroso e il carisma, Simon, perché mago prestigiatore di talento. Eppure perfino Simon, in possesso di un potere quasi soprannaturale, non conosce tutti i segreti degli isolani: il mago è pur sempre “uno della capitale”.
Durante uno dei suoi vagabondaggi nell’isola, una sera Anders bussa alla casa di un’amica persa di vista da tanto tempo; l’incontro fa riaffiorare ricordi sepolti, portandogli la consapevolezza di un passato che non gli appare più lontano e innocente come si è sforzato di credere per tanti anni. E pagina dopo pagina Domarö si popola di fantasmi, quelli di Anders ma anche quelli di Greta, di Simon e degli isolani… poi ai fantasmi si intrecciano episodi reali: atti vandalici sparizioni, suicidi e incidenti che hanno come comune denominatore il mare. Più Anders si guarda attorno più ha la sensazione che il villaggio subisca sempre più l’influenza di forze sconosciute e crudeli.
È soltanto l’inizio di una spirale che affonda nella storia dell’isola e nelle profondità marine; al fondo forse lo attende Maja, ma il prezzo da pagare per ritrovarla sarà molto alto.
Nel romanzo di Lindqvist, reale e sovrannaturale si intrecciano in maniera molto efficace: e l’autore vi spende davvero frammenti della propria vita. Domarö, ad esempio, è una buona rappresentazione della diffusa avversione della gente delle isole nei confronti di “quelli della capitale”. Gli abitanti dell’arcipelago, infatti, ancora adesso vivono soprattutto di pesca: la maggior parte di loro sono pescatori o lavorano il pesce, o lo trasportano sulla terraferma e vivono una quotidianità lontanissima da quella dei villeggianti giunti da Stoccolma, che hanno comprato a poco prezzo e ristrutturato vecchi capanni da pesca e aree un tempo adibite a pascolo per trascorrervi l’estate. Quelli di Stoccolma non sanno niente delle tradizioni delle isole e dei timori della loro gente. L’autore ha vissuto questa frattura di persona, trascorrendo numerose estati sull’arcipelago di Stoccolma insieme al padre isolano e pescatore di aringhe e si serve di questa esperienza per accentuare l’incomprensione fra isolani e villeggianti con un elemento sovrannaturale.
Il mago è una chiara proiezione dei trascorsi da prestigiatore dell’autore, ma anche una figura chiave del romanzo, un illusionista che in maniera razionale gioca con ciò che è reale e ciò che semplicemente lo sembra, costretto a confrontarsi con poteri sovrannaturali.
Nella sparizione di Maja l’autore rivive l’esperienza, fortunatamente andata a buon fine, di aver perduto il proprio figlio durante una passeggiata invernale nei boschi:
il mio pensiero in quel momento non era che un uomo cattivo lo avesse preso o che si fosse rotto il collo cadendo, era che fosse veramente sparito. Che io non avessi mai meritato di averlo e che ora fosse stato portato via. Che fosse sparito. Dalla faccia della terra.
Il porto degli spiriti è un libro ricco di sfumature, sospeso fra tragedia e commedia perché, afferma l’autore
La commedia e l’horror sono simili, perché entrambi coinvolgono una esplorazione dell’inaspettato.
Nel romanzo i commedianti sono due spettri in bicicletta, cultori degli Smiths e di Morrissey ed esasperanti con la loro monomania di esprimere i loro pensieri soltanto utilizzando i testi delle loro canzoni.
Oltre che alla musica e alle atmosfere egli anni Ottanta, il romanzo è pieno di altri riferimenti: la minaccia che viene dal mare, naturalmente ricorda gli Antichi di Lovecraft, uno degli autori più amati da Lindqvist, gli uccelli delle isole hanno un loro ruolo nella narrazione e richiamano alla memoria il film di Hitchcock. L’autore continua qui una sua personalissima esplorazione dell’horror soprannaturale, sempre ambientato in Svezia: in Lasciami entrare ha raccontato – senza l’ormai consueto e banalissimo glamour – una storia di predilezione, forse d’amore tra due dodicenni: Oskar perseguitato dai bulli del quaertiere ed Eli una giovanissima vampira; in L’estate dei morti viventi ha esplorato il ritorno dai parenti di zombie pacifici ma davvero ingombranti, seguendo l’intuizione che, nonostante vengano sempre rappresentati come agguerriti nemici (e spesso divoratori) degli umani in realtà ogni zombie sia stato anche un parente, un genitore, un figlio di qualcuno. In La piccola stella mette in scena adolescenti rabbiose contro la società svedese e unite tra loro da un patto di sangue che evocano la figura del licantropo…
Insomma Il porto degli spiriti è una lettura notevole, che tiene compagnia e diviene parte del nostro immaginario, nonostante le accuse (assolutamente non fuori luogo) di una eccessiva lunghezza, che smorza la tensione, e di una trama aggrovigliata che tira in ballo troppi elementi senza riuscire ad amalgamarli nel finale.
Come lettore di fantastico di lungo corso aggiungo una obiezione sostanziale, riguardante il finale: l’esito scelto da Linqvist mi pare una sorta di tradimento delle leggi non scritte del romanzo fantastico: trasgredire alle leggi naturali per amore, avidità, lussuria, acquisizione di potere comporta sempre il pagamento di un prezzo elevato, che viene sempre pagato dal trasgressore: alla fine Dracula e Carmilla muoiono davvero, Orfeo non riesce a portare in salvo Euridice, gli zombie non tornano liberi umani… qui non avviene così e nessuno dei protagonisti se ne cura davvero.
Ma questo è un parere personale e non inficia i molti meriti del libro.
A proposito non ho ancora letto Muri di carta ma ne ho sentito molte lodi, provvederò al più presto.
John Ajvide Lindqvist, Il porto degli spiriti
Marsilio, tascabili, 2010 e 2012, pp. 495, € 19,00, Trad. G. Puleo
Qui l’intervista all’autore dalla quale ho preso qualche citazione: http://www.thejakartapost.com/news/2009/12/20/john-ajvide-lindqvist-monsters-magic-and-morrissey.html
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