La parabola del seminatore di Octavia E. Butler appartiene al vasto e ricco filone dei romanzi ambientati in un futuro decisamente peggiore del presente, nel quale la civiltà occidentale è giunta al suo capolinea. La vicenda è raccontata in prima persona da una teen-ager, vittima di una inconsueta malattia originata da una malformazione genetica, un iperempatia che la rende sensibile al dolore provato dagli altri. Lauren vive con la famiglia in un quartiere fortificato, un’enclave di periferia circondata dai cani rinselvatichiti e esseri umani ridotti ad una miseria feroce, imbarbariti fino al cannibalismo. All’interno del villaggio gli abitanti si sforzano di condurre una vita dignitosa e civile, guidati dal pastore, il padre di Lauren. Ma le risorse sono scarse e ad avvelenare i rapporti all’interno della comunità c’è la coscienza angosciosa della fine di ogni realistica speranza di miglioramento della propria condizione. Nel resto della California e dell’intera Unione la situazione non è certo migliore. Esistono altri villaggi fortificati, residui di precedenti quartieri residenziali per benestanti e professionisti, circondati dalla plebe furiosa e disperata che aveva popolato le città, ma anche cittadine protette dalle milizie ben armate di qualche impresa, dove è stata di fatto reintrodotta la schiavitù. La comunità di Lauren è un residuo del passato e come tale è destinata a scomparire. Lauren, insieme a pochi altri sopravvissuti, dovrà prendere la strada del nord, la terra promessa che buona parte della popolazione americana sta tentando di raggiungere. Nel corso del viaggio, condotto in abiti maschili, Lauren farà alcune conoscenze decisive e troverà finalmente il senso, anche mistico e religioso, della sua avventura.
La parabola del seminatore, com’è evidente fin dal titolo, che richiama immediatamente la letteratura sacra, è un’opera a più facce: romanzo dagli spiccati connotati politici e sociali e romanzo di formazione, ma anche un testo mosso da una forte tensione etica che trova la sua realizzazione nella nascita, attraverso la rivelazione di Lauren, di una religione sincretica, nata da una donna che, in senso proprio, ha conosciuto e conosce il dolore di chi la circonda. Le due correnti del romanzo miracolosamente riescono a convivere ed a rimanere in perfetto equilibrio fino al termine, permettendo a Butler di articolare il suo pensiero sul mondo, pensiero nel quale si ritrovano – senza settarismi né chiusure – molti dei temi più fecondi del femminismo: un concetto di specificità femminile che è innanzitutto specificità “umana”, ossia capacità di con-patire e da questa coscienza (e solo da questa) muoversi per avere cura degli altri; la necessità – divenuta pressante – di prendere in mano il proprio destino senza attendere che siano altri a farlo; una concezione della non-violenza che è scelta e non rinuncia. Non vorrei aver dato con questa tirata un’impressione errata del romanzo: non si tratta di un volantino né di una predica. La sua forza argomentativa nasce interamente dalla sua forza narrativa, dalla capacità dell’autrice di lasciar emergere i temi senza forzare il lettore. Octavia Butler è stata la prima autrice afroamericana di SF giunta ad essere conosciuta anche in Europa. Ha scritto alcuni racconti memorabili, ha vinto premi Hugo e Nebula ma raramente ha raggiunto, come in questo caso, un equilibrio espressivo tanto efficace. Davvero un romanzo che merita ricordare.
Octavia Estella Butler, La parabola del seminatore
Fanucci, Atlantica 2006, pp. 344, € 16,00
Trad. Anna Polo
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.