E ora, la paleontologia «immaginaria» di H.P. Lovecraft
Le montagne della follia è un racconto lungo scritta nel 1931, rifiutata da Weird Tales e poi pubblicata a puntate sulla rivista di FS Astounding Stories, nel 1936.
Al di là delle ragioni (forse anche personali) per le quali l’editor di Weird Tales rifiutò la novella, la collocazione su una rivista fantascientifica mi pare decisamente appropriata: Alle montagne della follia è fantascienza, particolarmente interessante per le discipline scientifiche che tira in ballo, poco frequentata di sicuro dalla FS degli anni Trenta: la paleontologia, la geologia e la esoetnologia.
La storia è scritta in prima persona dal geologo Dyer, come memoriale di una terribile scoperta compiuta insieme al giovane compagno Danford durante una spedizione in un’area sconosciuta dell’Antartide. Dopo anni di silenzio i due geologi decidono di rivelare cose indicibili per salvare la vita ai membri di una nuova spedizione in partenza e per scongiurare pericoli per tutta la civiltà umana.
La piccola ma equipaggiatissima spedizione è (per la delizia dei fan di Lovecraft) promossa e gestita dalla Miskatonic University. Spingendosi nell’interno, proprio nell’area più vicina al Polo Sud, gli studiosi scoprono – in una valle circondata da montagne altissime (quasi 20.000 metri) e scavata da un antichissimo fiume – i corpi di 14 alieni figli di un’evoluzione completamente differente da quella terrestre, ma vissuti sul nostro pianeta forse fin dal periodo Precambriano…
Era stranamente convinto che quella traccia fosse l’impronta di un qualche enorme organismo misterioso, assolutamente non classificabile ed ad un grado evolutivo notevolmente avanzato, malgrado il fatto che la roccia che lo deteneva fosse di una data enormemente più antica – Cambriana se non addiruttura Precambriana […] Questi frammenti, con le loro strane tracce, dovevano avere un’età compresa ta i cinquecento e i mille milioni di anni.
Dopo la scomparsa di un primo gruppo di studiosi, i superstiti seguono le loro tracce, scoprendo i resti di una città aliena, ormai abbandonata da eoni ma piena di documenti e sculture, e riescono a ricostruire la storia e la civiltà di coloro che gli scienziati cominciano a chiamare gli Antichi…
La storia è ben condotta e ammirevolmente documentata: Lovecraft ha messo in gioco tutta la sua cultura e il suo entusiasmo per le letture scientifiche, mescolando con abilità le innovazioni tecnologiche degli anni Venti del Novecento e le (allora) ultime scoperte in molteplici discipline, dalla paleontologia alla vulcanologia, alla storia della vita sul nostro pianeta. L’unico «errore» presente nel racconto non è uno sbaglio di Lovecraft ma un vuoto scientifico: per l’elaborazione della teoria della tettonica a zolle e per le relative prove occorrerà attendere fino agli anni Cinquanta.
Alle montagne della follia è una lettura appassionante, non solo perché la storia è ben condotta, ma anche per la cura dei dettagli, l’attenzione alle nuove scoperte, la conoscenza dei fossili e delle ere geologiche, la capacità di evocare architetture e strutture biologiche coerenti e aliene. Tanto che, commentando la storia in famiglia, mi sono lasciata scappare un’affermazione almeno audace: «se avessi tempo di fare leggere ai miei alunni di terza media questa storia, scommetto che studierebbero i capitoli di geologia e paleontologia con molto più interesse». «Potresti proporre un seminario al Dirigente…!», hanno commentato serafici i due cari.
Resto della mia opinione e potrei sostenerla onorevolmente, ma temo di farmi prendere la mano (in effetti questa è la seconda stesura della recensione; la prima conteneva la mia “arringa” ed era decisamente più lunga). Quindi citerò soltanto qualche breve esempio. Se voleste saperne di più, vi rimando come il solito al mio blog.
Primo esempio: la descrizione del corpo degli Antichi – una pagina fitta di dettagli poco famigliari che non dovete assolutamente saltare, se non altro perché Lovecraft ci ha lavorato con molto impegno – tira in ballo il problema dei piani di sviluppo degli organismi animali. Un grandissimo numero di essi presenta una simmetria bilaterale ma, per i suoi Antichi, Lovecraft ha osato immaginare ben altro: una forma di simmetria raggiata che esiste anche sul nostro pianeta, per organismi molto primitivi. Caso, necessità evolutive? Vi darò qualche cenno sul mio blog, ma posso suggerirvi una lettura appassionante, un saggio che si legge come un romanzo, La vita meravigliosa di Stephen J. Gould (e chi se no?), che vi farà conoscere la quasi incredibile fauna di Burgess …
Secondo esempio: la città abbandonata è un insieme delirante e grandioso di enormi edifici ormai in rovina, spesso privi di coperture superiori e riempiti di ghiaccio e detriti; le costruzioni, a forma di cubo, cilindro e cono, si innalzano dal terreno e sprofondano in esso, collegati fra loro da ponti e scale. Ora, riducete tutto a dimensioni umane, anzi alle dimensioni di una città neolitica… A me, questi collegamenti a vari livelli, questo poter entrare dall’alto e non solo dal piano terra, ha ricordato Çatalhöyük , un imponente centro abitativo neolitico in Anatolia.
Sì, mi rendo conto che Çatalhöyük è una pallida realtà rispetto alla fantasiosa maestà della città degli Antichi; ciò che apprezzo nella descrizione è il tentativo di immaginare una logica architettonica abbastanza differente da quella occidentale da poter apparire credibilmente «aliena» ai lettori. A proposito, il villaggio anatolico venne scoperto e studiato nei primi anni Sessanta, molto dopo la stesura del racconto.
L’architettura è un elemento fondamentale in un racconto su una civiltà aliena: anatomie e morfologie differenti richiedono, o almeno suggeriscono, forme architettoniche e artistiche diverse. Ricordate le magnifiche porte a forma di pentagono sghembo costruite dai Krell di Pianeta proibito? A essere prosaici, bastavano e avanzavano porte rettangolari più larghe, in fondo noi umani non costruiamo porte che ricalcano la forma bipede di un umanone… Ma volete mettere l’impatto evocativo?
Se poi voleste proprio avere un’idea, anche approssimativa, della morgologia degli Antichi del racconto, aliena, così come Lovecraft l’aveva immaginata, potreste dare un’occhiata alle note originali dell’autore per il suo racconto.
Una passione per il mondo estremo
La novella presenta alcuni punti ulteriori di interesse; la fascinazione di Lovecraft per il mondo polare estremo e gelido nacque quando era ragazzo: il suo biografo S. T. Joshi ricorda che a dodici anni scrisse numerosi piccoli trattati sui primi esploratori dell’Antartide e, poiché negli anni Venti il settimo continente era ancora largamente sconosciuto, Lovecraft potè sbizzarrirsi a immaginarne la geografia, senza tema di smentite immediate. D’altra parte, la prima spedizione di R. E. Bird venne attuata tra il 1928 e il 1930, proprio al tempo in cui venne scritta la novella, e Lovecraft, nelle sue lunghe lettere ai corrispondenti sottolineò più volte il ritrovamento di numerosi fossili che testimoniavano un passato tropicale per quel continente.Forse fu motivo di ispirazione anche l’ipersensibilità di Lovecraft per il freddo, riportata da Lin carter, suo amico e biografo.Il tema dell’esplorazione polare, questa volta nell’artico, e della scoperta di una città sotterranea non umana venne utilizzato dall’autore anche ne La città senza nome.
Gli echi di alcune note opere di narrativa sono poi rintracciabili nella novella di Lovecraft:
Gordon Pym, di E.A. Poe, chiaramente citato nel testo, a cominciare da misterioso grido Tekeli-li con i lquale si concludono entrambi i racconti.
Al centro della terra di E. Rice Burrough (1914), un’opera della serie di Pellucidar: (Gli Antichi ricordano un po’ i Mahar ed entrambi i popoli possiedono servitori i cui nomi, tra l’altro sono abbastanza simili.
La nube purpurea, di Shiel (1901, ma ripubblicata nel 1930), per il tema dell’esplorazione polare. Nel romanzo di Shiel, però, la vicenda era ambientata al Polo Nord
Non bisogna poi dimenticare l’interesse suscitato in Lovecraft per i dipinti di Nicholas Roerich, nella novella esplicitamente citati per descrivere il paesaggio Antartico.
Gran finale
Un paio di osservazioni per tirare le fila di questa doppia recensione (cliccate qui per leggere la prima parte)…
La prima:
Nel primo romanzo, Strane creature di Tracy Chevalier, le donne sono in primo piano, contrapposte al punto di vista maschile onnipresente nella società non solo britannica del primo Ottocento. Il mondo accademico di allora poteva giungere al punto di ringraziare la disponibilità femminile ad aiutare gli scienziati, ma certo nessuno studioso avrebbe mai riconosciuto a una donna pari dignità scientifica.
Nella novella di Lovecraft non c’è, ovviamente, l’ombra di una donna. Nessuno degli studiosi è nemmeno attraversato dal pensiero di madri, figlie, mogli o fidanzate lasciate a casa. Le donne non compaiono nemmeno nelle vesti delle gentili vedove bianche, come invece facevano le consorti degli astronauti nei romanzi FS degli anni Quaranta (e, nella realtà, quelle degli astronauti della NASA degli anni Settanta).
Pare che il secolo trascorso tra la vicenda di Mary e d Elizabeth e quella dei temerari studiosi della Miskatonic University non abbia cambiato nulla. In parte è sicuramente vero, ma non bisogna dimenticare le peculiarità caratteriali del gentiluomo di Providence, di cui ho già avuto occasione di scrivere.
Alla faccia della Warner Bros che, per produrre una versione cinematografica della novella di Lovecraft, pretende una storia d’amore e un happy ending. Per saperne di più sulla questione leggete il post sul mio blog.

Immagine della Miskatonic University cortesemente da Propnomicon
La seconda:
A questo punto, viene spontaneo chiedersi perché mai leggere due romanzi due sui fossili. Non sarebbe più opportuno scegliere un bel saggio, anche solo un bignami?».
In effetti, vi è chi – dopo aver letto Strane creature – si è posto la domanda, come Philip Strange, il quale ha risposto che sì, un saggio o una monografia sarebbero una lettura migliore. Non oso pensare che cosa avrebbe scritto sul valore paleontologico di una novella di genere come Alle montagne della follia.
Il tema posto è comunque intrigante: scienza e narrativa possono andare a braccetto nel medesimo libro senza generare confusione o insoddisfazione? E, ancora prima, un narratore è autorizzato a «riempire» a suo piacimento i buchi biografici di un personaggio realmente esistito? La possibilità (senza prove) che un certo evento sia avvenuto, bastano a farlo accadere in un romanzo?
Cominciamo dal romanzo di Chevalier, che – se non altro – racconta cose veramente avvenute. È chiaro che l’autrice compie una sorta di arbitrio, peraltro dichiarato esplicitamente nella postfazione:
Questo romanzo è in larga misura frutto della mia fantasia, ma molti dei suoi personaggi sono realmente esistiti. […]
Strange argomenta con chiarezza la propria tesi: chi legge Strane creature potrebbe convincersi di aver letto la vera vita di Mary (su Elizabeth, ahimé, non spende nemmeno una parola).
Mi irrita, comunque, che alcuni lettori possano credere di aver letto un resoconto vero della sua vita, cosa che questo libro non è. [trad. mia]
Ciò che conta, scrive Strange, è questo: al di là del valore puramente paleontologico, l’opera di Mary è importante perché ha scosso dalle fondamenta l’establishment scientifico e religioso dell’epoca, obbligandolo a prendere atto che il mondo non aveva solo poche migliaia di anni e che i suoi abitanti non erano stati creati una volta per tutte. Il mondo è molto più antico di quanto siamo indotti a credere, le specie nascono e muoiono per cause che dobbiamo scoprire. Questo è il lascito del lavoro di Mary che, insieme alle innovazioni di Hutton e di Lyell (e di molti altri) aprirà la strada alla teoria di Darwin. Strange spiega tutto questo con abilità e io ho provato piacere nel leggere la sua argomentazione, chiara e semplice ma ineccepibile.
Devo dire, però, che anche Chevalier non se la cava affatto male a spiegare il medesimo concetto.
Passando a Lovecraft, ho francamente divorato il suo racconto anche perché – quando descriveva i corpi degli Antichi, organizzati in maniera tanto differente – io sapevo che cosa intendeva, potevo cogliere l’originalità dei particolari, e anche chiedermi (e cercare di rispondere) se quel tipo di struttura avrebbe potuto funzionare davvero.
Però io ho una preparazione scientifica di livello universitario e insegno scienze da tanti, tanti anni. Ormai la mia mente è, come dire, un fatt’apposta per capire questi argomenti e soprattutto per trarne piacere.
Altri lettori, diversi da me, sanno apprezzare la descrizione del funzionamento di un macchinario, o di una partita a cricket o della costruzione di un ponte… Io non sono attrezzata, ho bisogno della mediazione narrativa. Ho appena finito di leggere un romanzo che ruota intorno alla costruzione del sistema fognario di Londra nel XIX secolo. «Cosa me ne frega?», potrei chiedermi. Ma la storia me lo impedisce: il sistema fognario mi interessa perché interessa ai personaggi, condiziona le loro vite, cambia il loro modo di vedere il mondo.
Prendiamo per esempio questa frase che Chevalier attribuisce ad Elizabeth:
Prediligo i pesci fossili, perché la trama delle scaglie e le pinne li accomunano a quelli che mangiamo ogni venerdì, avvicinandoli al presente pur nella loro stranezza.
Sembra una osservazione da niente, ma dice molto e suggerisce domande non banali: Elizabeth si interessa di paleontologia, quindi – per la sua epoca – è una donna aperta, emancipata, una antesignana. Ma è anche una signorina non così benestante da ignorare come si pulisce e cucina il pesce. Inoltre è una cristiana praticante, perché mangia pesce di venerdì (in altre pagine del romanzo assiste a una funzione in chiesa e al termine polemizza con il reverendo sul modo di intendere la creazione). Forse, però, il pesce del venerdì è soprattutto una consuetudine. Inoltre, quante donne della sua epoca e del suo ceto erano davvero credenti?
Per saperlo, o almeno per immaginarlo, forse basterebbe un buon saggio. Ma un buon saggio non aiuterebbe chi legge a «diventare» Elizabeth…
Quindi ben vangano le storie, quella di Chevalier, che – mentre, inventando un po’, ci racconta i possibili (ma non certi) sentimenti di Mary – ci spiega con parole forse più semplici ma non «sbagliate» l’importanza scientifica del suo lavoro. Quella di Lovecraft che ci (e si) sfida a immaginare un’evoluzione differente. E annche quella di Anne Perry che ci racconta il mondo delle fogne di una grande città (e che recensirò quanto prima).
A questo che servono le buone storie: a farci mangiare quelle idee che altrimenti non sceglieremmo mai dal menù.
Comunque, Chevalier non è certo l’unica ad aver scritto una storia al femminile basata sulla «rivoluzione scientifica» avvenuta nelle scienze naturali durante il XIX secolo: su Alia Anglostorie (CS Libri, Torino 2009) è stato pubblicato un racconto delizioso di Delia Sherman, Miss Carstairs e il Tritone, nel quale la protagonista, studiosa di vaglia ma costretta a firmarsi al maschile, conduce osservazioni affascinanti su una specie aliena, ne documenta le abitudini, l’intelligenza e le abilità sociali e stabilisce con un suo rappresentante una improbabile ma rispettosa e commovente comprensione.
Un racconto struggente che in un suo modo asciutto dà speranza. Un grazie a Davide Mana, curatore del volume, per averlo scelto e tradotto.
Ulteriori particolari sul mio blog.
L’edizione che ho utilizzato di Alle montagne della follia, Newton Compton, non è più in commercio.
È invece disponibile
Howard P. Lovecraft
Le Montagne della Follia
Newton Compton, p. 160, € 6,00
Introduzione di C. Lucarelli, Traduzione di Gianni Pilo
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.