Cormac McCarthy
La strada
Einaudi
€ 16,80
trad. M. Testa
Confesso una debolezza: mi hanno sempre incuriosito, aldilà degli effettivi pregi artistici, tutti i libri, i film, i racconti del genere post-apocalittico. Quelli cioè ambientati «dopo»: dopo l’esplosione della guerra termonucleare, dopo lo scioglimento dei ghiacci del pianeta, dopo insomma una catastrofe qualsiasi, purché essa abbia sterminato buona parte della razza umana e precipitato i pochi superstiti in una condizione da medioevo prossimo venturo o peggio. Tanto per capirci, un sottogenere dove stanno insieme piccoli capolavori della letteratura come le Cronache del dopobomba di Philip Dick, film cult come Il pianeta delle scimmie (quello con Charlton Heston), onesti prodotti di artigianato come il Mad Max di Mel Gibson e solenni scemenze come il serial televisivo Jericho, andato in onda la primavera scorsa.
Tutto questo per dire che ho iniziato a leggere La strada, l’ultimo romanzo dell’americano Mc Carthy, soprattutto perché attratto dall’idea di fondo, ampiamente pubblicizzata sia nelle recensioni che nei lanci pubblicitari, ammesso che tra le prime e i secondi esista ancora qualche differenza: un uomo e un bambino, padre e figlio, percorrono le strade di un mondo stravolto dall’apocalisse nucleare.
È un mondo freddo, battuto continuamente da una pioggia gelida e sporca. Un mondo buio, perché il sole non riesce più a bucare la coltre di cenere che le esplosioni hanno sollevato. Un mondo pericoloso, dove i pochi superstiti si sono lasciati alle spalle qualsiasi remora religiosa o morale e sopravvivono cibandosi di carne umana.
Sotto quest’aspetto, il romanzo di Mc Carthy si fa apprezzare per la forza dell’invenzione delle immagini e della scrittura. Si veda a proposito la descrizione allucinata dell’oceano morto davanti al quale i due protagonisti, l’uomo e il bambino, si ritrovano, al termine del loro viaggio:
Laggiù c’era la spiaggia grigia con le onde lente che si infrangevano pigre e plumbee, e il loro suono distante. Come la desolazione di un qualche mare alieno che bagnava le coste di un mondo sconosciuto. Più al largo, sulle secche create dalla marea, una nave cisterna arenata. Ancora oltre, l’oceano vasto e freddo, che si muoveva pesante come le scorie di fusione dentro una vasca sollevata lentamente. E infine la linea di groppo grigia di cenere. L’uomo guardò il bambino. La sua faccia tradiva la delusione. Mi dispiace che non sia blu, disse. Non fa niente, disse il bambino […] Piccole masse vetrose che galleggiavano sulla superficie dell’acqua, ricoperte di una crosta grigia. Ossa di uccelli marini. Lungo la linea di marea un fitto tappeto di alghe e milioni di lische di pesce a perdita d’occhio come un’isoclina di morte. Un’unica immensa sepoltura salata…
Fa parte dello stile di Mc Carthy il gusto per le immagini forti e, in questo caso, l’evocazione vivida degli orrori in cui è precipitata la misera umanità superstite: il sotterraneo nel quale una banda rinchiude uomini e donne per cibarsene, e una delle vittime sta buttata su un materasso, con due moncherini al posto delle gambe, evidentemente già divorate dai carnefici, oppure i resti di un accampamento in una radura nel bosco, con un neonato «decapitato e sventrato» infilzato su uno spiedo.
Il libro non è solo questo, però. Al contrario, ne La strada c’è molto di più, e di meglio. C’è l’evocazione, struggente, del rapporto tra padre e figlio. Un rapporto che brilla come un diamante, una perla purissima nel mare di fango e di cenere che li circonda.
I due sono «l’uno il mondo intero dell’altro». L’uomo si prende cura del bambino con una tenerezza e sollecitudine rese ancora più disperate dallo sforzo di salvaguardare non solo la vita, ma anche l’anima del ragazzo. Egli è deciso a non far spegnere nel figlio quello che i due chiamano «il fuoco» e che non è altro che il residuo senso di umanità, l’elementare fraternità tra gli esseri viventi: un sentimento che spinge il bambino a supplicare il padre di aiutare un vecchio vagabondo incontrato lungo il cammino, a commuoversi per la sorte di un cane che ha sentito ululare tra le macerie e per quella di un altro bambino, che ha creduto di intravedere sulla veranda di una casa distrutta.
In questo mondo desolato e barbarico, padre e figlio si muovono come circondati da una fragile sfera di luce e di calore, che emana da loro stessi, dal loro reciproco amore, e che li mantiene al riparo della desolazione, dello squallore e della violenza indicibile che li assedia continuamente.
Non è facile trattenere la commozione quando si legge del padre che, dopo una giornata di cammino in mezzo a strade di fango e cenere, inseguiti da mostruose creature che di umano hanno conservato solo il nome, al riparo di un misero telo di plastica o rintanati come topi in luride cantine, si preoccupa di ripulire alla meglio il bambino, di fargli il bagno appena ha un poco di acqua a disposizione, di preparargli una cena con le scatolette rimediate chissà dove, perfino di leggergli una favola prima di mettersi a dormire. E poi: le notti all’addiaccio abbracciati stretti, con la mano dell’uomo che accarezza i capelli biondi e il corpicino scheletrico del bambino, i risvegli dell’adulto, con il suo primo pensiero che va al piccino e il sollievo di sentirselo ancora sdraiato al fianco, addormentato oppure già sveglio e immerso in chissà quali pensieri, la gioia di potergli offrire una lattina di cocacola strappata a un distributore automatico…
Il bambino è l’ultima, unica speranza dell’uomo, «l’unica cosa che lo separa dalla morte». Ma non solo: il piccino, nella sua purezza, nella sua disperata ricerca dei «buoni» ai quali riunirsi, nella sua convinzione di portare dentro di sé il «fuoco», è anche l’estrema testimonianza, per quanto fragile e minacciata, della sopravvivenza eterna di qualcosa che va aldilà di tutto l’orrore possibile e immaginabile della Storia. Qualcosa che, sembra suggerire Mc Carthy nelle pagine più belle del romanzo, potremmo anche chiamare Dio.