Dulce Chacón
La ragazze di Ventas
Neri Pozza
€ 16,50
trad. di S. Sichel
A volte compri un libro perché di quell’autrice ti è rimasta una bella sensazione addosso, da quando in un aeroporto spagnolo hai comprato un libro senza riuscire a leggerlo tutto in lingua originale, ma era comunque bello, e non parlava di guerra. Parlava di donne e di amore. Questo invece sì. Parla di guerra, ma anche di donne e di amore. Parla dei franchisti, di un carcere femminile, del peggio dell’uomo che l’uomo sa mettere in campo quando le circostanze gli danno una mano, o un alibi. Abu Ghraib docet, tanto per stare sull’attualità.
Di norma non sono letture rilassanti. Di norma gli orrori non ho piacere di leggerli, mi basta credere sulla fiducia. Poi scopri che l’autrice non c’è più, scomparsa in giovane età, nonostante la giovane età. E adesso è la prima volta, credo, che è stata tradotta in Italia. Il libro è nato dalle testimonianze autentiche delle sopravvissute, e racconta delle miliziane della repubblica spagnola imprigionate dai franchisti a Madrid. Come dire un pezzo di storia, per meglio dire un pezzo importante di storia. È uno di quei libri che sembrano i libri di una volta, quelli che riuscivano anche a insegnarti delle cose. Io la storia l’ho studiata all’università, ma il franchismo nei libri universitari non ha la voce di Hortensia, né di Elvira, né di Tomasa. Non ha il dolore, e l’amore, e la paura dei personaggi di un libro, non ha un parto che sa di morte e che parla la lingua della vita, la urla tanto forte da contraddire se stesso, o forse da sottolinearsi.
La storia nei libri di storia non ha quaderni azzurri da tramandare come unico atto di amore e di memoria, a parte la realtà di chi è morto per la repubblica e per la democrazia, particolari apparentemente di nessuna utilità per una bambina che dovrà crescere senza madre.
La storia nei libri di storia solitamente la scrivono i vincitori. Ma nel libro della Chacón la storia la scrivono le donne che l’hanno fatta, che l’hanno costruita a colpi di sangue e sudore, a colpi di carezze e baci rubati, a colpi di memoria e di silenzio.
Sulla scrittura non c’è praticamente nulla da dire, è un signor romanzo, con una signora traduzione, e va un plauso a Silvia Sichel per questo, che nello scegliere di chiamare tabarro un indumento che molti avrebbero chiamato cappotto, ci regala invece l’immagine precisa di qualcuno che non ha addosso un cappotto, ma un tabarro, e fa la differenza.
È bella anche la copertina, con due gran bei sorrisi volti al futuro, o così li immagino io, sarà perché hanno camminato tanto a lungo da giungere a me.
da LN-LibriNuovi 37 – primavera 2006