
Sergej Barmin è un «animator».
Una strana attività, dalle forme in apparenza rigorosamente scientifiche ma in realtà legata a un talento del tutto personale e, in ultima analisi, inspiegabile.
Ciò che un «animator» è in grado di offrire a coloro che gli si rivolgono è un semplice simulacro di sopravvivenza individuale nella forma di una limpida fiamma dai riflessi colorati chiusa in un prisma di cristallo. Poco, quasi nulla, ma quanto basta perché chi ha perduto uno dei propri cari si rivolga ai laboratori di stato per vedere «animare» la fiamma del proprio congiunto nel prisma.
A Barmin si rivolgono in genere individui facoltosi e inevitabili sono i contatti con alti burocrati, alti gradi militari, membri di spicco della malavita. È lui il primo a ritenere sostanzialmente patetico questo «segnale di sopravvivenza» post-mortem e cinicamente incredulo di fronte agli sforzi, alle preghiere, al denaro che la gente è disposta a spendere. Ma è anche orgoglioso del proprio talento e sprezzante verso chi non possedendo tale dote pretende di dettare legge nell’Animacentro, dove gli animator conducono la propria attività.
Ma anche se professionalmente realizzato Barmin è tutt’altro che un uomo felice. Abbandonato dalla moglie e rinnegato dalla figlia si dedica completamente al lavoro per non trascorrere il tempo libero a ripercorrere dolorosamente la strada dei suoi fallimenti, errori e manchevolezze.
Il suo lavoro consiste in primo luogo nel formulare l’«anamnesi» della morte, ovvero ricostruire grazie a un testimone la storia della vita del defunto fino all’exitus. Il tessuto del romanzo è fatto proprio di frammenti della vita quotidiana di Barmin alternati al racconto delle ultime ore dei suoi «clienti». A ogni «anamnesi» segue l’accensione di una fiamma nel cristallo di Kraft, tutto normale, tutto regolare.
Ciò che Barmin non riesce a cogliere è la regolarità ossessiva di certe morti, il crescendo di violenza – guerra, attentati, terrorismo e controterrorismo – che attraversa la società russa. La situazione scivola verso il caos più feroce letteralmente sotto il suo naso ma l’animator, come milioni di altri russi (ma anche di occidentali) non «vede», non sa riempire gli spazi bianchi di un’informazione a senso unico.
Ciò che è concesso al semplice lettore – veder crescere da un lato la corruzione e il degrado dell’amministrazione e dall’altra il diffondersi di un fanatismo basato su false premesse religiose – è, a quanto sembra, negato ai personaggi di Volos, rinchiusi senza speranza nel ventre di una quotidianità asfissiante.
Il finale, che riprende i fatti del teatro Dubrovka di Mosca, non giunge inaspettato al lettore. Ma il racconto dell’assalto al teatro compiuto dai corpi speciali, l’uso dei gas che mietono più vittime tra gli spettatori delle armi dei terroristi è condotta con la perfetta sapienza narrativa di un grande scrittore. Nessun compiacimento, nessun gusto per il melodramma e nessuna concessione alla retorica. Anzi, non è difficile cogliere nel racconto di Volos una sfumatura di disperata, rabbiosa ironia, di funereo sarcasmo.
Andrej Volos, accostato a Philip K. Dick e a Michail Bulgakov possiede certamente del secondo il talento di utilizzare l’immaginario per afferrare elementi del reale altrimenti dispersi e confusi. Più complesso, viceversa, il confronto con Dick, autore meno sorvegliato e meno direttamente «politico», anche se è possibile avvertire una coloritura tipicamente dickiana nel racconto del mondo chiuso e cieco dove Barmin si trova a tentare di sopravvivere. E non saranno comunque pochi i lettori ai quali la morte dimezzata dell’Animacentro richiamerà immediatamente alla memoria il mondo di Ubiq…
Andrej Volos, Animator, Frassinelli 2005, € 16,00, trad. S. Rapetti
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