Felicity Lawrence
Non c’è sull’etichetta
Einaudi
€ 15,50
trad. C. Di Barbara
Nell’introduzione di Non è sull’etichetta, Felicity Lawrence racconta la sensazione di spaesamento provata nel 1991 rientrando a Londra dopo due anni di volontariato in Afghanistan. Supermercati pieni di cibi di ogni provenienza, ovunque verdure perfette, tutte delle medesima forma e grandezza. E, in contrasto stridente con l’esperienza dei mercati di Peshawar, nessun odore: «impossibile prender in mano un frutto e tastarlo o annusarlo per capire se buono. Erano tutti duri, acerbi e senza odore ed erano per giunta impacchettati in chili di plastica».
Nei mesi successivi, questo sguardo «esterno» indusse l’autrice a rendersi conto che l’Occidente ricco ha perduto il concetto di cibo come esperienza culturale e sociale. L’interesse di Lawrence per il cibo e la sua produzione è sfociato in una serie di inchieste sul sistema alimentare globale per il «Guardian» che l’hanno portata a viaggiare per mezzo mondo e a infiltrarsi come lavoratrice in grandi stabilimenti alimentari.
Suddiviso per alimenti – Pollo, Insalata, Fagiolini, Pane, Mele & banane, Caffè & gamberi, Piatti pronti – «Non è sull’etichetta» documenta la progressiva difficoltà di chi dovrebbe vigilare sulla genuinità dei nostri cibi a smascherare frodi pericolosissime per la salute, armato di leggi apparentemente non aggirabili, in realtà aggirabilissime, come il bollo di qualità e di tracciabilità sulle carni.
«Pollo» racconta l’esperienza dell’autrice come tagliatrice e impacchettatrice di porzioni di pollo in una delle maggiori aziende inglesi del settore, fornitrice dei maggiori supermercati britannici. Come potrebbe confermare qualunque persona che fa la spesa, la carne di pollo è di solito a buon mercato e viene preferita perché «bianca»:
Rispetto a vent’anni fa il pollo è meno costoso e oggi ne consumiamo cinque volte tanto […] ma poter comprare un pollo intero pagandolo poco più di un caffè ha il suo prezzo […] i polli, come altri animali sono stati industrializzati e globalizzati. Non sappiamo più dove vengo allevati o come vengano lavorati. Quando li compriamo nelle loro confezioni asettiche o sotto forma di ingredienti in prodotti pronti, abbiamo ormai perso ogni traccia delle loro origine.
Parti di pollo provenienti dall’Olanda possono essere riconfezionate con nuove date di scadenza in uno stabilimento inglese, garantite con il marchio di qualità degli allevatori britannici e finire nei frigoriferi delle grandi catene di supermercati. I passaggi di mano sono numerosissimi, a ogni tappa il prezzo del pollo aumenta un po’, ma abbastanza poco perché l’affare continui a essere redditizio, così ci guadagnano tutti e la tracciabilità della carne diviene una chimera. Peggio, polli ammalati e contaminati da virus e batteri o destinati a divenire cibo per animali possono venir tagliati, lavati in ammoniaca e rivenduti per la realizzazione di prodotti alimentari. Che cosa c’è nelle deliziose polpettine di pollo tanto più leggere degli hamburger? Pelle di pollo. Sì, sono proprio «palle» di pollo come quella di Apelle… A parte una piccola quantità di pelle, circa il 15%, che è necessaria, pare, per rendere gustose le polpettine, il resto dovrebbe essere pollo, non poltiglia proteica ottenuta spremendo ritagli di pollo, non additivi tipo proteine della soia, non acqua aggiunta, non aromi e zuccheri, non gomme emulsionanti che servono a tenere insieme questo monstrum. Eppure vengono preparate polpette di carne di pollo che contengono soltanto il 16% di carne (la pelle conta come carne, ovviamente). I maghi di questa operazione di adulterazione sono i produttori olandesi che comprano polli congelati a basso prezzo da Thailandia o Brasile, li salano (così non risultano più carne fresca e pagano meno tasse) poi li scongelano, iniettano nella carne acqua e additivi di ogni genere e diluiscono il sale aggiunto in precedenza. Così i geniali produttori di questi patchwork di pollo in una volta sola riescono a eludere le tasse dell’UE sulle carni fresche e a gonfiarle vendendoci una generosa quantità d’acqua al prezzo del pollo; sistemi simili vengono usati per gonfiare il petto di pollo. Ma non illudetevi, non riuscirete a capire che cosa avete messo in padella dall’acqua rilasciata: i polifosfati non sono più di moda, al loro posto vengono usate proteine idrolizzabili che non rilasciano l’acqua durante la cottura.
Forse converrebbe rassegnarsi. Solo, per favore, ditecelo. Questa è stata la linea di condotta della Food Standard Agency inglese per i controlli alimentari che dichiarò legali i polli-patchwork purché dichiarati nell’etichetta. Ma supponiamo che voi stiate mangiando in una mensa o in un ristorante o in un McD… che fate, chiedete di vedere l’etichetta?
Se avete anime sensibili (o semplicemente stomaci delicati) forse non dovreste leggere le pagine iniziali e finali del capitolo, là dove condizioni di allevamento veramente ignobili riescono nel grandioso risultato di far condurre un’esistenza schifosa – e fortunatamente sempre più breve – ai polli (ognuno ha a disposizione, se sta sempre acquattato, il sontuoso spazio di un foglio A4) e di aumentare a dismisura le occasioni di infezione e contaminazione dei medesimi. Ma non abbiate (troppo) timore, una robusta dose di antibiotici avrà la meglio anche sui maledetti polli che si ostinano a restare organismi e non semplici prodotti biologici al nostro servizio. Per la peste suina, la BSE, l’afta epizootica… be’, fregheremo anche quelle, prima o poi, lasciate fare ai grandi allevatori!
Certo, i virus non collaborano, sono insensibili agli antibiotici e anche ai titoli dei giornali. Ma se servono a farci avere qualche informazione sulle condizioni di polli e lavoratori nel settore e sul funzionamento dell’industria avicola forse non esistono soltanto per nuocere…
Vi lascio il piacere di scoprire altre interessanti informazioni sui vostri cibi preferiti; io mangio poca carne e molta frutta e verdure così non ho avuto l’incubo del pollo (se non per solidarietà verso il medesimo) ma ho letto con raccapriccio crescente Insalata, Fagiolini e Mele & banane. E pensare che di mele e insalate io ci vivrei…
Se poi non siete cuochi provetti e spesso andate di fretta, vi sarà accaduto, durante i vostri turni ai fornelli, di utilizzare prodotti precucinati non surgelati. La Gran Bretagna è il maggior consumatore europeo di questi «pasti casalinghi per cene in solitaria» come vengono dolcemente chiamati dal marketing. Secondo i dati di Lawrence nello stufato d’agnello possono esserci otto tipi differenti di dolcificanti, sette tipi di grassi, quattro di conservanti e tre di aromi chimici e un contenuto di sale equivalente alla dose giornaliera raccomandata per persona. In un piatto di lasagne vegetariane invece l’ingrediente più abbondante è l’acqua, seguito da grassi di numerosi tipi e dal 15% di zuccheri vari. Sì lo so, vostra nonna le lasagne le faceva diversamente, ma queste sono vegetariane e «di qualità», cucinate seguendo la ricetta di uno chef. Nonna… Ma fatemi il piacere! Queste lasagne, dicevo, non sono surgelate. Quando le comprate. Ma possono essere composte da alimenti in precedenza surgelati e contengono sicuramente più additivi dei surgelati. E oli provenienti da colza, palma, e soia che vengono utilizzati dopo parziale idrogenazione (bravi, proprio i famosi grassi trans). Poi potrete trovare molti derivati del mais, tra cui amido modificato.
Ma perché usare tanta soia e tanto mais e derivati? Semplice, perché sono tra le materie prime più sovvenzionate al mondo, mentre frutta fresca e verdure non sono oggetto di sussidio. Inoltre soia e mais dopo la lavorazione si conservano per un sacco di tempo ma sono ipercalorici. E non fatevi l’idea che a produrli siano agricoltori piccoli e medi:
Quel che hanno fatto [i governi] è stato invece consegnare ingredienti economici al settore dell’industria alimentare mentre elargivano denaro al gruppo ristretto di colossi industriali che dominano il commercio e la trasformazione di generi alimentari sovvenzionati. I sussidi non hanno solo compromesso la sopravvivenza degli agricoltori in via di sviluppo ma anche peggiorato i regimi alimentari delle popolazioni dei paesi occidentali.
Ovviamente per tenere insieme questi ingredienti occorrono additivi. Quanti? Tanti; fate voi, ce ne sono ben 540 tra i quali scegliere!