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    Golem

    Il Segnalibro mancante

    • di Massimo Citi
    • Gennaio 13, 2012 a 12:19 pm

    di Piero Fabbri

    Science has proof without any certainty.

    Creationists have certainty without any proof.

    (Ashley Montagu)

    La perfezione è quando non se ne avverte neppure il bisogno. Capita raramente, però: perché non sono poi tanti i libri che prendono fino al punto di far dimenticare la voglia di un respiro di liberazione, di un ritorno al mondo reale, di un contatto pragmatico e immediato con la terra, l’asfalto, l’aria e i proprio simili. Però qualcuno ce n’è: libri di cento pagine scarse, con caratteri di corpo elefantiaco, palese artificio editoriale per spacciare come romanzo quello che è al massimo un racconto lungo, con brossura leggera e pagine facili da sfogliare. Poi serve un gran bravo autore, in grado di scrivere un testo affascinante, e soprattutto una storia eccezionale, nata quasi solo per essere raccontata. Pensateci, vedrete che ve ne verranno in mente almeno un paio, di libri così: di quelli che si leggono davvero d’un fiato, in due o tre ore di apnea sociale, mentre si sta sprofondati in un angolo protetto della casa. Ma si possono anche leggere senza isolarsi fisicamente nell’alveo di una poltrona, a patto di saper continuare a leggere sempre, in semi-trance, anche camminando mentre si tiene solo un quarto di sopracciglio di sentinella verso gli ostacoli che abbondano infidi sui marciapiedi; o in piedi in cucina, girando il sugo sul fuoco con la mano destra mentre il pollice della sinistra si oppone, com’è suo primitivo mestiere, alle altre quattro dita mancine, sostenendo il libro e al tempo stesso mantenendo aperte le pagine al punto giusto. Però sono casi rari, quasi non vale tenerne davvero conto. Capolavori assoluti e brevi, o quantomeno gialli o thriller non certo indimenticabili, ma buoni abbastanza da volerne vedere la fine senza interruzioni di sorta. Casi rari, dicevamo: per tutti gli altri, il segnalibro ci vuole.

    Però è anche vero che un segnalibro non deve necessariamente essere un segnalibro canonico: alle eleganti striscioline di cartone lucido, spesso decorate con una riproduzione artistica (classico gadget da negozi di museo), ai vetusti rettangolini di pelle o tessuto, con tanto di accurate frange e decorazioni, si possono contrapporre centinaia di alternative. Ognuno avrà le sue preferenze, in questo campo complesso.

    La sostituzione più crudele e selvaggia funziona male con i libri rilegati, ma si può applicare con meditata spietatezza sui poveri libretti difesi solo da una leggera copertina in brossura: c’è infatti chi squaderna il misero tascabile rimarcandone profondamente col dorso della mano (quando non addirittura con il pollice a mo’ d’aratro o, peggio, con unghia ben curata e affilata) la linea di confine tra le due pagine ove la lettura s’è disperatamente arrestata. A quel punto il libro può anche essere richiuso, ma senza perdita di segnale: sul dorso brossurato sarà infatti a quel punto comparsa una indelebile riga bianca, che causerà l’automatica riapertura del libro al punto giusto, almeno finché un altro segno non verrà nuovamente prodotto con la medesima tecnica visigota. Bastano tre o quattro marcature del genere, prima che i libro, suicidandosi, cominci lentamente a seminare le pagine, sempre più libere dal vincolo della debole colla che le teneva originariamente insieme. Il lettore di questo tipo finisce il libro dando al verbo «finire» più d’un significato esistenziale. Impossibile la rilettura, inimmaginabile il passaggio dell’opera ad un amico: a meno che non si voglia fargli un regalo doppio: prima il puzzle, consistente nella consegna di duecento fogli in ordine sparso da riassemblare: poi il libro, appunto leggibile solo se il puzzle sarà felicemente risolto. Tecnica barbara, insomma: ma va riconosciuto che così facendo il segnalibro è implicito, automatico, del tutto embeddednel libro stesso, manco fosse un giornalista americano in una guerra irachena: e non servono gadget di sorta.

    Se i frammentatori di bordi sono tutto sommato rari, gli orecchiatori di angoli sono probabilmente la maggioranza assoluta; e anche per loro non servono corpi estranei per tenere il segno. Del resto, quello di «fare l’orecchia» è oggettivamente un modo naturale, addirittura istintivo per marcare il libro e il territorio. Arrivo a leggere fino a pagina 118? Mi prende sonno? Prima di lasciare che il peso granitico delle palpebre abbia la meglio, riesco a piegare alla meno peggio l’angolo superiore della pagina sventurata, e lascio che il libro rotoli per moto proprio ai piedi del letto. Non è il massimo della cura verso i sacri testi: il protagonista di Autodafèdi Canetti probabilmente rabbrividirebbe solo all’idea ma, insomma, siamo già fuori dalla patologia criminale: è un comportamento naturale, se non proprio ortodosso. C’è da chiedersi se potrebbe valere la pena dedicare un paio d’ore, in quarta elementare, per convincere i lettori in erba che il costo energetico di infilare un segnalibro al punto giusto è lo stesso – o forse addirittura minore – di quello necessario a piegare l’angolo della pagina, ma non è detto che le due ore spese dalle maestre avrebbero effetto, alla fine dei conti. Piuttosto, ci sarebbe da indagare a fondo sul perché le orecchie segnalibro siano sempre ineluttabilmente perpetrate negli angoli superiori delle pagine, e mai in quelli inferiori: ma questo è quasi certamente uno dei grandi misteri della natura, e non sarà facile disvelarlo.

    Al di fuori di queste due categorie di lettori e di libri, tutte le altre combinazioni richiedono segnalibri veri e propri. I bei libri rilegati che hanno uno o due nastrini rossi o blu incollati nel bordo superiore, come nei messali di chiesa e nei romanzi ottocenteschi, sono ormai una rarità riservata alle edizioni di lusso: e, vista la perdurante crisi economica, ne consegue che al giorno d’oggi quasi tutti i libri saranno abitati da proletari segnalibri in cartone; più o meno ufficiali, più o meno di fortuna, più o meno esteticamente significativi o, peggio ancora, identificativi. Perché identificativi, a volte, i segnalibri riescono ad esserlo in modo imbarazzante: se dall’ultimo libro di Moccia fa capolino un Re di Quadri, non ci vuole molto a capire che il proprietario dell’accoppiata non può essere altro che un avvocato quarantenne single con gusti sessuali prossimi alla pedofilia e un’insana e disperante passione per il Texas Hold’em Poker. Tomi di meccanica quantistica sono spesso imbottiti in più punti con sottobicchieri di birreria, e non si può negare che anche questo sia significativo: del resto, nel breve periodo del Novecento in cui sono state utilizzate, non c’era studente di facoltà scientifica che non facesse incetta di schede perforate di calcolatore elettronico, proprio da usare come placidi segnalibri da esibire con nonchalance all’interno dell’ultimo saggio di Walter Benjamin o, ancor più spudoratamente, all’interno de I Guermantes, giusto per far vedere che anche i giovani scienziati, se vogliono, riescono a superare lo scoglio dei primi due volumi della Recherche. Pochi anni dopo, i calcolatori subirono una vistosa cura dimagrante e cessarono di necessitare di schede perforate, e nel contempo quegli studenti smisero di essere studenti; finirono dietro una cattedra o dietro i cancelli di qualche impresa: i più fortunati tra loro ottennero, oltre allo stipendio, anche un set di biglietti da visita, raggiungendo così il gotha della difficile disciplina della segnalibristica. I biglietti da visita sono infatti segnalibri per eccellenza: economici (quasi sempre gratuiti), di formato e spessore ideale (altro che rettangoli lunghi lunghi e stretti stretti: meglio una cosa dalle dimensioni standard d’un bancomat, si maneggia molto meglio) e, soprattutto, sempre disponibili in gran quantità. Certo, se volete sbarazzarvi d’un manuale sulla masturbazione incrociata lasciandolo in book-crossingin un coffee-shop di Amsterdam, è bene controllare con molta attenzione di aver rimosso tutti i «segnalibri» di questo genere dal volume, a meno che non si voglia esporsi al rischio di intriganti appuntamenti al buio.

    È comunque certo che avere a disposizione una riserva virtualmente infinita di segnalibri è fondamentale, per il lettore professionista; perché il lettore professionista non legge mica solo i bestseller di classifica. Se viaggiate in metropolitana leggendo l’ultimo Baricco, un segnalibro basta e avanza (ad essere onesti, quasi certamente avanza); ma in generale non è questione di pochezza dell’autore: salvo casi eccezionali di particolari edizioni critiche e annotate, un segnalibro basta anche per Calvino e perfino per Shakespeare. Ma esistono libri che di segnalibri ne richiedono almeno due.

    Ian Stewart

    Prendete l’ultima fatica di Ian Stewart, ad esempio. Si intitola La piccola bottega delle curiosità matematiche del professor Stewart, e non è certo un romanzo. Ian Stewart è un matematico; inglese, docente all’università di Warwick, è una vera autorità in due campi insoliti della matematica: la ricreazionee la divulgazione. E se il concetto di divulgazione è verosimilmente ben noto, potrebbe essere necessario spendere qualche parola per quello di ricreazione. La matematica ricreativa è quella disciplina (anche se mai termine fu più approssimativo) che intende raccogliere e presentare gli aspetti divertenti della matematica: per i molti detrattori della scienza d’Archimede è pertanto disciplina inesistente e puramente fantastica, non esistendo affatto – secondo loro – i summenzionati aspetti divertenti in cotanta materia. Ma quei detrattori si sbagliano: almeno un po’ devono esistere davvero, visto che il professor Stewart, grazie a loro, riesce a condurre una vita ragionevolmente serena e presumibilmente opulenta. Il canuto professor Ian è infatti uno dei successori di Martin Gardner, tenutario per decenni della celeberrima rubrica Enigmi e Giochi Matematici di Scientific American: e la fama di Gardner è tanto ampia e assoluta tra i fan della matematica divertente che ogni suo successore gode di un buon riverbero di fama riflessa. E infatti il matematico di Warwick ha già pubblicato un gran numero di volumi, tutti di buon successo editoriale.

    Questa sua ultima fatica, in un certo senso, mostra effettivamente degli aspetti innovativi, anche se non necessariamente gratificanti e positivi: anche se la cosa può sembrare impossibile a chi non frequenta le amene spiagge della ricreazione matematica, il fatto è che il «corpus» degli aneddoti e dei problemi matematici classici e dilettevoli è lungi dall’essere infinito. Esistono certo sempre nuove scoperte, nuove curiosità, nuove attrazioni, ma non sono in numero sufficiente per garantire agli affamati cultori del genere bastante alimento cerebrale. Se la materia prima rischia di venir meno, è però vero che ogni volta ci sono nuovi adepti: ragazzi che si avvicinano timidamente alla matematica per la prima volta, liceali incuriositi da aspetti insoliti dei numeri, nonostante il bromuro intellettuale dei programmi ministeriali: ed è giusto pensare anche a queste nuove leve, quando si scrive un libro. 

    E forse è proprio alle nuove leve che Ian Stewart ha pensato, mentre scriveva questo libro; probabilmente indeciso se scrivere un nuovo testo di divulgazione o un nuovo testo di ricreazione, deve aver infine deciso di scrivere un testo a mezza strada tra le due intenzioni. E in fondo il titolo è onesto, da questo punto di vista: nel generico nome di curiosità matematiche possono rientrare sia problemi classici che meno classici, sia aneddoti che barzellette, e perfino un discreto numero di pezzi divulgativi che spieghino per sommi capi quali siano gli argomenti più affascinanti della attuale ricerca matematica; specialmente di quella di cui ogni tanto si parla perfino sui quotidiani e che è talvolta premiata con milioni di dollari lasciati in palio da qualche generoso benefattore. Ed è onesto, il titolo, anche nel riportare un po’ narcisisticamente lo stesso nome dell’autore, così che si sappia che è proprio nel celebre nome, più che nelle novità del contenuto, che va ricercata la ragione ultima all’acquisto.
    Il risultato è infatti che il libro è assolutamente poco organico: in fondo – terzo elemento dell’onestà del titolo – è proprio come una bottega, che come tale non ha alcuna intenzione d’essere organica, ma piuttosto espositiva (avrete notato, mi auguro, la differenza che c’è tra un biblioteca e una libreria, specie se la libreria è una di quei lucidi negozi di catena, no?). Ne risulta un libro prezioso, probabilmente, per chi è effettivamente neofita: quasi tutti problemi proposti sono superclassici, e i pezzi di divulgazione sono oggettivamente centrati sugli argomenti più a la page della matematica di questo XXI secolo; non porta molte informazioni nuove, né nel contenuto né, tutto sommato, nel modo di porgerle, a chi è già un po’ cultore della matematica ricreativa e divulgativa; ma probabilmente questa è solo una questione di target, e come tale messa a bilancio sia dall’autore che dagli editori. Così, chi non ha ancora in biblioteca nessun libro di matematica ricreativa potrebbe trovare in questo uno sguardo generale e curioso sull’argomento, anche se forse privo del respiro dei classici gardneriani.

    Ma il punto non è questo, perdinci. Il punto è che si parlava proprio di come non perdere il punto, e il libro di Stewart è un ottimo esempio dei casi in cui un solo segnalibro è altamente insufficiente. Immaginate di aver appena letto una barzelletta sui matematici, una divagazione sul Paradosso di Russell, e che improvvisamente Stewart torni infine ai punti interrogativi proponendovi, tanto per fare un esempio, il sempiterno quesito dell’attraversamento del fiume con lupo, capra e cavoli. Il problema merita attenzione, concentrazione e, sperabilmente, anche una risposta; immaginate di avere una buona idea su come veicolare i tre protagonisti sull’altra sponda e che vogliate, prima di passare al paragrafo successivo (occhieggiate già che si tratta di una disquisizione ardita su come dividere al meglio una torta), sapere se la vostra risposta è esatta. Non è difficile soddisfare tale curiosità: basta saltare al reparto soluzioni e ivi leggere la desiàta soluzione: ma hic sunt leones! Le soluzioni sono una zona franca, libro nel libro, e un tomo come quello di Stewart abbisogna pertanto di almeno due segnalibri: uno per il testo propriamente detto, l’altro per la sezione soluzioni. Matematica ricreativa batte letteratura due a uno, almeno dal punto di vista del consumo dei segnalibri.

    Richard Dawkins

    Ma non è certo un caso limitato ai giochi matematici. Per controprova, restate pure nella medesima isola, l’Inghilterra, e mantenetevi pure sempre nell’ambito accademico. Da Warwick spostatevi a Cambridge, e bussate alla porta di un vecchio amico di Douglas Adams, il professor Dawkins. Da quando ha pubblicato il suo libro più famoso, Il gene egoista, sono passati molti anni, e la sua fama è andata sempre crescendo. Biologo di fama mondiale e membro della Royal Society, è famoso presso il grande pubblico soprattutto per i suoi libri di divulgazione sulle teorie darwiniane e per la sua strenua difesa del pensiero agnostico e razionalista in contrapposizione a quello religioso. Come Stewart inglese, come Stewart autorità assoluta nel suo campo, come Stewart scrittore prolifico. Il suo ultimo libro, uscito a Febbraio, si intitola Il più grande spettacolo della terra, e parla dell’evoluzione delle specie per mezzo della selezione naturale.

    La cosa abbastanza sorprendente è che la lunga frase «evoluzione delle specie per mezzo della selezione naturale»non è una recente invenzione di Dawkins, ma fu scritta per la prima volta da un altro professore, anche lui inglese: tal Charles Robert Darwin, che da ormai due secoli fa parlare di sé. Eppure, a detta di Dawkins, parlare di evoluzione è più che mai necessario: la percentuale di americani che non crede alla Teoria dell’Evoluzione è alta in maniera imbarazzante, e quella degli inglesi solo poco meno tragica: nonostante tutte le evidenze che mostrano senza ombra di dubbio che le creature viventi si sono evolute nel passato e continuano ad evolversi tuttora, un libro che provi a spiegare esplicitamente per quali ragioni la teoria dell’evoluzione è vera sembra assolutamente necessario.

    Questa banale constatazione è già di per sé di una tristezza infinita: ed è ammirevole com Dawkins si veda costretto a partire dal principio, proprio dalla definizione di parole come «Teoria», per spogliarla di quel senso di meschina incertezza che i creazionisti vogliono sottolineare nella parola (chissà che penserebbe il nostro professore nello scoprire che nell’italiano corrente la parola «teorema» è addirittura diventata sinonimo di «falsa costruzione complottistica e tendenziosa»). Così, capitolo dopo capitolo si passa a vedere le «prove» della verità del pensiero darwiniano: lucertole della Croazia che «speciano» praticamente sotto i nostri occhi, diventando animali diversi in funzione delle diverse condizioni ambientali di due isole vicine ma diverse, come nelle Galapagos di Darwin; pesci di fiume in cui si leggono strategie evolutive differenti a seconda della presenza dei predatori – che li spingono al mimetismo e all’invisibilità – o della loro assenza, che li spinge invece a mettersi in mostra per attrarre le femmine. E poi il percorso indietro, nelle ere geologiche, nei fossili, nella deriva dei continenti. È un percorso così complesso e affascinante che nessun Dio, potendo scegliere, sceglierebbe come canovaccio da mettere in scena quella barba biblica di poche migliaia di anni, rispetto a questo kolossal che articola pochi elementi variazionali in una infinità di imprevedibili complessità successive.
    Ma di nuovo, non siamo qui per parlare di libri: rischieremmo di scrivere delle recensioni, in tal caso. Il punto è che anche per libri come questi è difficile tenere il punto. Alcuni saggi saggi (nel senso di libri di saggistica illuminati da una razionale organizzazione tipografica) fanno uso delle note a piè di pagina, che si risolvono in un rapido cambio di indirizzo dello sguardo1. Altri, particolarmente sadici e perversi, usano note che rinviano non a piè di pagina e neppure a fondo volume, ma solo a fondo capitolo; sono comunque solo una variazione sul tema del caso più comune, quello appunto che riserva ai rimandi uno spazio specifico a fondo libro, diciamo tra l’epilogo e la bibliografia2. Anche in questo caso, il secondo segnalibro è fondamentale: al pari della ricerca delle soluzioni al fondo del libro, la curiosità del rimando richiede il segnaposto aggiuntivo.

    Ma una nuova rivoluzione incombe. Il libro di Stewart e quello di Dawkins non hanno in comune solo l’essere inglesi, la missione divulgativa, gli autori accademici, e la necessità di avere almeno due segnalibri. Hanno anche, evidente e clamorosa, una ulteriore comunanza, l’assenza e la necessità di un ancora inesistente terzo segnalibro. Forse è caratteristico dei libri di divulgazione inglesi, più che di quelli nazionali: ma i riferimenti a più di pagina e a fondo volume ormai abbondano di URL. Le URL (Universal Resource Locator) sono semplicemente gli indirizzi internet: Dawkins parla del comportamento complesso degli stormi? Lo spiega in teoria, e poi rimanda ad un filmato YouTube. Stewart racconta delle ultime ricerche sul problema da un milione di dollari «P vs NP»? Prima lo descrive, poi fa un rimando esplicito ad una esaustiva pubblicazione in rete. E così via, riferendosi a scritti, immagini, suoni, foto.
    E il segnalibro non c’è: a differenza dell’Anello Mancante che Dawkins racconta non essere affatto mancante, il segnalibro delle URL fa sentire davvero l’incompletezza dei riferimenti. Si finisce sempre sol libro aperto di fronte ad un PC, di digita e si gugla, e il solo fatto che esista già un verbo come guglarela dice lunga sull’assenza di un segnalibro fondamentale.

    Finirà, probabilmente, tutto dentro un’iPad. Il libro, il testo, le note. Il segnalibro sarà virtuale e potentissimo, finchè piano piano cambieranno anche i significati di pagina, di volume, forse anche di libro. E il segnalibro delle URL sarà talmente scontato da non essere neppure riconosciuto come tale: nel pezzo di schermo in cui Dawkins cita il volo degli stormi sarà già attivo il filmato, magari in 3D.

    Forse. Fra non molto, forse sarà così.

    Per adesso, ci limitiamo a notare l’assenza d’un segnalibro importante: ma per qualche anno ancora non ci dispiacerà portare il libro a fianco del PC, leggere la URL stampata, ricopiarla diligentemente sullo schermo, e premere Invio sulla tastiera. Magari chiudendo il libro per un po’; ma non prima di aver fatto una bella orecchia sul bordo superiore della pagina.

    Richard Dawkins
    Il più grande spettacolo della Terra
    Mondadori
    Trad. Laura Serra
    Febbraio 2010, pag. 408, euro 22,00
    Tit. orig.: The greatest show on Earth



    La Ian Stewart

    Piccola bottega delle curiosità

    matematiche del professor Stewart

    Codice Edizioni
    Trad.: Daniele A. Gewurz
    Marzo 2010, pag. 256, euro 26,00
    Tit. orig. Professor Stewart’s cabinet of mathematical curiosities

    1 Ecco, questa è una nota a piè di pagina. La leggete, sbuffate perché pensate di aver perso tempo a leggere delle sciocchezze inutili, e tornate subito al punto dove avete interrotto la lettura nel corpo della pagina.
    2 Ecco, questa NON è il caso d’una nota a fondo volume: per metterla a fondo volume occorrerebbe stravolgere tutto l’impianto di LN, e soprattutto ci si troverebbe in un insanabile conflitto con la nota qua sopra, che invece deve proprio essere una nota a piè di pagina. Quindi, come esempio questa nota fa schifo, ma forse ci siamo capiti lo stesso.

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