Viaggio nella Napoli letteraria in compagnia di
Se dagli scrittori italiani, come abbiamo visto nella prima «tappa» del nostro viaggio sull’immagine letteraria di Napoli, la città è stata percepita e interpretata in maniera spesso contrapposta, il contributo degli intellettuali e autori francesi, tedeschi, russi, svizzeri e scandinavi (su cui è incentrata questa seconda «tappa»), pare ribadire la stessa disomogeneità, forse dimostrando che, a essere determinante non è tanto la matrice temporale o nazionale, quanto l’impatto casuale o l’orizzonte d’attesa di chi si pone dal punto di osservazione. Sotto questo aspetto la città è un caleidoscopio per cui la sua immagine è mutevole e può essere fastidiosa o coinvolgente, rozza o raffinata, inquietante o rassicurante. Per tutti, però, Napoli appare una città estrema, coacervo di individualità estranee l’una dall’altra, ma misteriosamente unite da un amalgama inafferrabile, che talvolta la porta ad autocompiacersi, fino al punto da farla apparire, come ha scritto l’intellettuale polacco Gustaw Herling, «una città chiusa» e «incapace di accogliere stranieri che non siano solo turisti». Ma un attimo dopo questa immagine sfugge, si disintegra fino a tramutarsi in un’altra aperta, libera, ossessivamente partecipativa. In questa camaleontica girandola di stati d’animo, di estemporanei atteggiamenti di sudditanza, cui seguono quelli di dichiarata arroganza, è quasi naturale che il visitatore anche più avvertito sia incapace di identificarla e finisca per registrare ciò che percepisce a un livello istintivo.
Anatole France
Fu così per lo scrittore francese Anatole France, che giunse in città nel 1881 e si soffermò non tanto sulle bellezze naturali quanto sulla gente, sul loro modo di vivere, sugli odori e sulla qualità dei cibi, annotando sul suo taccuino:
che notte chiara e rumorosa a Santa Lucia! La frutta forma montagne nelle botteghe illuminate da lanterne multicolori. Sui fornelli accesi all’aria aperta, l’acqua fuma nei paioli e la frittura canta nelle padelle. L’odore di pesce fritto e di carne calda mi solletica il naso e mi fa starnutire[1].
France si immerge nella folla e senza ritrarsi, volutamente si lascia toccare, urtare e, simpaticamente scrive:
non vengo spinto, sono cullato e penso che a forza di dondolarmi di qua e di là, questa gente finirà per addormentarmi in piedi[2].
Diametralmente opposto è il commento del tedesco Victor Hehn giunto a Napoli nel 1884. L’immagine che questi riporta sul suo taccuino di viaggio è talmente allucinante che, leggendo il suo scritto, si potrebbe pensare di essere giunti nell’avamposto dell’inferno. «Tutto intorno», sostiene Hehn,
ci era estraneo e sconosciuto; noi sgomenti e smarriti. Toledo ondeggiava piena di rumori, la marmaglia ci urlava dietro, gente dalle facce più strane, rischiarate da un incerto bagliore, ci teneva gli occhi addosso, aspettando avida il momento in cui ci saremmo fermati, per potersi avventare su di noi. [3]
Accurata è anche la descrizione che si riferisce all’aspetto fisiognomico del napoletano. Raramente nei resoconti di viaggio traspare un così forte disprezzo. Il napoletano definitivamente viene posto in una sorta di «laboratorio immaginario» studiato in tutte le sue caratteristiche. «Udir parlare il napoletano – sostiene Hehn – ha per il settentrionale un che di sinistro.» Poi, tralasciando ogni ritegno prosegue:
nei movimenti e nell’espressione degli occhi somiglia a uno spirito maligno, a un essere privo di ogni sensibilità umana. Tutto in lui è irritante, brusco, sa muovere le giunture tutte insieme, concentrando gli umori in un sol punto, che si fa turgido e sembra stia per scoppiare. [4]
Nel 1884 giunse a Napoli, subito dopo l’esplosione del colera, anche Axel Munthe[5]. Egli apprese la notizia nel corso di un suo viaggio in Lapponia e decise immediatamente di ritornare nella città partenopea per prestare nuovamente aiuto. Fu in seguito a questa drammatica esperienza che nacque La città dolente, forma definitiva delle lettere inviate da Munthe a un giornale svedese [6].
La nobile motivazione dell’illustre medico è di restituire un poco di quello che la città e l’Italia a suo avviso gli hanno dato. Napoli, scrive infatti Munthe nelle prime pagine del libro a sostegno di questa tesi,
è ora dolente e perciò desideriamo affrettarci lì, come verso un fratello nel dolore, noi che siamo stati così felici qui, che abbiamo imparato ad amare questo popolo semplice, dal cuore caldo, colpito dalla miseria; noi che abbiamo ascoltato il suono del mandolino a Santa Lucia sulle note di ‘O dolce Napoli!’; noi che dalle alture del convento dei Camaldoli abbiamo osservato la visione più incantevole che abbia mai colpito l’occhio umano, quando il sole scende dietro alle montagne di Ischia e quando sulle colline di Sorrento si spande quel roseo scintillio che nessun pennello sa dipingere, quando Capri stende il suo velo di nebbia azzurra sulla bella isola, mentre sui pendii di velluto color verde del Vesuvio cadono quelle sfumature di violetto cupo che non si possono dimenticare! [7]
Colera a Napoli, “Corriere della Sera” 1884
Nel dramma senza fine del colera l’autore individua il carattere profondo del popolo, «autentico in tutte le sue debolezze, ma anche in tutti i suoi aspetti migliori.»
Alla dettagliata descrizione dell’epidemia con le tante persone fulminate dal vibrione egli accosta quella dell’analisi sulle condizioni della città che nei suoi fondaci presenta scene raccapriccianti. Napoli, scrive a questo punto Munthe, attualmente ha circa 86 fondaci distribuiti in diversi quartieri. In essi, «vivono non meno di 9000 individui inclusi nel censimento (una distinzione che non vale certamente per tutti i suoi abitanti, con la conseguenza che le cifre restano basse)»[8]. Coloro che vivono nei fondaci non sono, però, gli unici poveri della città, giacché tanti e più numerosi vivono nei bassi e nelle locande che di certo non assicurano condizioni abitative migliori. L’indagine del medico svedese nelle pagine successive mostra di allargarsi anche agli aspetti sociologici. Si accorge, ad esempio, che a differenza di quanto gli era stato detto la camorra non è «una cosa del passato», ma è più viva che mai, anzi essa, egli afferma, è oggi «l’unica autorità riconosciuta in questi quartieri».
I vicoli di Napoli nelle settimane successive all’esplosione dell’epidemia, si presentano a Munthe in uno sconcertante silenzio. Egli si domanda perché Napoli sia rimasta così indietro nello sviluppo civile rispetto al resto d’Italia e giunge alla determinazione che, se in passato gli interessi dei potenti erano stati quelli di mantenere inalterata l’ignoranza e l’oppressione nei confronti del popolo, con l’unificazione del Paese non si era provveduto a risolvere la grave questione sociale. Ora, sostiene Munthe, «tutti si lamentano dell’ignoranza e della malvagità di questa gente, ma dimenticano tutti che non è stato mai fatto niente per eliminare le sue carenze, che non si è mai data una mano per sollevarla»[9].
Neanche il filtro del tempo sarà sufficiente a Munthe per ridurre l’emotività che il semplice ricordo gli suscita e, ne La storia di San Michele affermerà:
da principio, quando ho visto la morte al lavoro nelle corsie dell’ospedale, si trattava di una semplice lotta fra i due, un giuoco da ragazzi in confronto di quanto vidi più tardi. A Napoli l’ho vista uccidere più di mille persone al giorno davanti ai miei stessi occhi. [10]
Lo scrittore russo Anton Cechov, invece, è affascinato dalle bellezze naturali e, in una lettera inviata il 4 aprile del 1891 scrive,
il Vesuvio nasconde la cima fra le nuvole e si vede bene soltanto di sera. Di giorno il cielo è coperto. Siamo in un albergo sul lungomare, dal quale si vede ogni cosa: il mare, il Vesuvio, Capri, Sorrento… Durante il giorno siamo saliti fino al convento di San Martino: di lassù c’è una vista come non avevo mai goduto in vita mia. Un panorama stupendo. Qualcosa di simile lo vidi a Hong Kong, mentre salivo in treno su per la collina. [11]
Emile Zola
Nel 1894 insieme con la moglie Alexandrine arriva a Napoli anche Emile Zola. Se il grande scrittore francese nel 1864 di ritorno da un viaggio compiuto nel Meridione d’Italia aveva espresso un giudizio sprezzante nei confronti di questa parte della penisola, a distanza di trent’anni mostra un maggiore interesse a conoscere questi luoghi. A Napoli Zola si trattiene per una settimana, durante la quale non si limita a visitare solo i quartieri ameni della città e le bellezze dei dintorni, ma vuole conoscere la Napoli dei fondaci, quella popolare, plebea. Ad accompagnarlo in questo particolare tour nei bassifondi fu Ferdinando Russo. Lo scrittore francese rimase impressionato dalla scoperta di questa anima sconosciuta della città a tal punto che anche quando ritornò a Parigi continuò a chiedere al poeta napoletano ulteriori informazioni. La sua idea, infatti, era quella di scrivere un romanzo su Napoli, ma la morte sopraggiunta poco dopo non gli consentì di cimentarsi in questa difficile impresa.
Lungo quest’onda si muove anche Paul Klee, giunto a Napoli nel 1902. Egli è ammaliato dal paesaggio, dalla luce, dal mare, dai colori: uno spettacolo che a suo avviso fa pensare «alla tentazione di Cristo» e apre il cuore e la mente. Le meraviglie naturali, però, non impediscono all’artista svizzero di osservare l’immagine nuda della città che gli appare «indolente, sudicia, malata», anche se poco dopo aggiunge completando il pensiero, che «Napoli ha il più grande splendore accanto alla più grande miseria»[12].
Una miseria scrutata sul volto e sul corpo degli uomini abbrutiti dal lavoro, miseri, straccioni a tal punto da generare un’immediata compassione oltre a un inevitabile, istintivo ribrezzo che, tuttavia, non riduce il piacere di girare per la città sentendosi a casa propria. Qui, afferma Klee, «la vita è più stimolante, afferra di più lo spirito»[13]
A partire, grosso modo, dalla metà degli anni Venti sono i tedeschi i maggiori visitatori stranieri. Alfred Sohn-Rethel fu tra i primi filosofi tedeschi a soggiornare a lungo a Napoli. L’attenzione di Rethel si soffermò sulla capacità dei napoletani di adattarsi a condizioni negative altrove considerate intollerabili. L’esempio di questa peculiarità del popolo partenopeo, secondo il filosofo, è l’abilità sviluppata a far funzionare oggetti e macchine rotte. A Napoli si ha, a suo dire, la sensazione che le apparecchiature tecniche o i congegni elettrici nascano già rotti, e anche se «le cose non vanno mai come dovrebbero andare, in un modo o nell’altro, fila tutto liscio» [14]
Anche Bertolt Brecht fu di passaggio a Capri e a Napoli nella seconda metà degli anni Venti, dando dell’isola e della città un giudizio durissimo. Il grande drammaturgo definì Capri «una maledetta limonata azzurra» e, non riservando al capoluogo campano minore disprezzo, affermò che a Napoli «ci sono drinks, musica e sifilide»[15].
La Napoli invece letta da Walter Benjamin e Asja Lacis è una città all’insegna dei contrasti: quello esistente tra una forte religiosità e un dilagante spirito profano, tra vita e morte, tra sofferenza e ilarità. Grandezze estreme mescolate insieme come non avviene in nessun altro luogo del mondo. Al pari di quanto scriverà qualche anno dopo Bernari, anche a Benjamin e Lacis, Napoli appare una città grigia in totale contrasto con la luminosità del cielo e del mare. Poi lo sguardo si sofferma sulla sua struttura rocciosa, sulle sue grotte di tufo che, osservate dal basso, sembrano miracolosamente reggere immensi, sovrastanti casermoni. Il tufo diviene agli occhi dei due illustri visitatori la metafora e il possibile canale interpretativo della città. La porosità della roccia, nell’opinione di Benjamin e Lacis, pare evitare «il definitivo, il codificato. Nessuna situazione, così com’è, sembra pensata per sempre, nessuna forma impone un “così e nient’altro” [16].» In quest’inedito fluire dell’esistenza si può riconoscere la grandezza, ma anche la fragilità della città, la sua capacità di resistere a una miseria che non si attesta a una condizione individuale, ma è spesso una sorte da condividere sul piano collettivo. Per cui, affermano Benjamin e Lacis, se per il nordeuropeo l’esistere è la più privata delle questioni, a Napoli è
una faccenda collettiva. Così la casa non è tanto il rifugio in cui entrano esseri umani, quanto piuttosto il serbatoio inesauribile da cui escono a fiotti. […] La miseria è riuscita a realizzare una dilatazione dei confini, che è l’immagine riflessa della più radiosa libertà di spirito. Non c’è un’ora precisa per mangiare e dormire, e spesso nemmeno un luogo. [17]
Walter Benjamin
In un altro intervento, scritto presumibilmente tra il 1925 e il 1929, cioè in uno dei suoi viaggi successivi a Napoli, Walter Benjamin si sofferma in maniera più approfondita sulla città e sull’immagine che essa ha nel tempo sviluppato.
Per la generazione dei nostri genitori Napoli era soprattutto un luogo romantico, particolarmente adatto per i pittori che vi cercavano strane prospettive di tortuosi e ripidi vicoli a serpentina, raffinati effetti di luce ed edifici fatiscenti, impreziosendo i loro quadretti con figure di mendicanti cenciosi, pescatori, donne con il mandolino. È la Napoli del dolce far niente, un’invenzione dell’industria turistica, vera e insieme falsa come lo possono essere tutti i cliché del genere. [18]
Benjamin affronta, quindi, una delle tematiche centrali relative all’immagine della città, consapevole che troppo spesso essa è accompagnata da stereotipati luoghi comuni piuttosto che essere il risultato di un’adeguata indagine.
Oltre ai visitatori tedeschi, anche quelli francesi nel periodo fascista ebbero l’occasione di giungere a Napoli. Tra questi Paul Valéry che, nei suoi numerosi viaggi compiuti in Italia non manca di passarvi la prima volta nel 1929. In questa circostanza visita anche le isole di Ischia, Procida e Capri lasciando, però, poche testimonianze scritte. Si limita, infatti, nel suo diario ad annotare il magnifico scenario paesaggistico. Arriva a Napoli dal mare e rimane colpito dallo spettacolo che si apre davanti ai suoi occhi. La costa gli spunta davanti all’improvviso come uno splendido palcoscenico naturale in fondo al quale domina il Vesuvio fumante e di dimensioni esorbitanti. Poi visita i musei ma rimane scarsamente colpito dagli scavi di Ercolano. Nel 1931 Valéry incontra anche Benedetto Croce che, «si è accanito a stroncare il poeta in Italia e ne ha limitato, in una certa misura, la diffusione»[19]. Il rapporto tra i due è immediatamente difficile. Valéry, non a caso, in più circostanze accuserà il filosofo di pedanteria. Il poeta ripasserà poi, rapidamente, per Napoli nel maggio del 1933 per tenere una conferenza al Circolo degli Illusi su «Musica e poesia».
Qualche anno dopo, nel 1936, giunge a Napoli Jean-Paul Sartre. Cercando di superare l’incanto del paesaggio e la ricca tradizione culturale propria della città, egli va alla ricerca della Napoli situata dietro il famoso «paravento» indicato da Matilde Serao. A suo avviso, infatti, solo oltre l’apparenza che accomuna tutte le città moderne, si può riconoscere la realtà, talvolta dolente, drammatica, nauseabonda, altre volte più clemente, ma sempre intensamente significativa. Penetrando nel «ventre di Napoli», Sartre scopre quella che definisce l’immonda parentela tra amore e cibo e scrive:
non è avvenuto all’improvviso, Napoli non si rivela immediatamente: è una città che si vergogna di se stessa; tenta di far credere agli stranieri che è popolata di casinò, ville e palazzi. Sono arrivato via mare, un mattino di settembre ed essa mi ha accolto da lontano con dei bagliori scialbi; ho passeggiato tutto il giorno lungo le sue strade diritte e larghe, la Via Umberto, la Via Garibaldi e non ho saputo scorgere, dietro i belletti, le piaghe sospette che esse si portano ai fianchi. [20]
Caffé Gambrinus nel 1920
Ciò che colpisce maggiormente l’attenzione di Sartre è la coesistenza di più città in una; dal tavolo del mitico Caffè Gambrinus egli si sposta lungo via Roma per scoprire che essa è, come il Rettifilo, «un’apertura igienica» della città. Al di là di queste arterie principali si apre un mondo diametralmente opposto, «una enorme esistenza sudicia e rosa, come i dolci gessosi che i pasticcieri mettono in vetrina» [21].
Esiste, quindi, una Napoli vista dal Vesuvio, una da Posillipo, una dal Palazzo Reale. Immagini diverse, di luoghi spesso fisicamente situati l’uno accanto all’altro, ma separati culturalmente da una distanza siderale. Come si fa, si domanda Sartre, a mettere insieme l’immagine della Napoli del Gambrinus o quella di Posillipo con quella dei vicoli, dei «bassi impudichi e segreti» che sembra buttare in faccia ai passanti «il loro colore organico». Quei «bassi» chiusi ermeticamente durante la notte, ma che «di giorno, quando si aprivano, si svuotavano dei loro occupanti, li spingevano fuori, nella strada, e questi restavano là tutto il giorno, madidi, stagnanti, legati ai bassi da un invisibile cordone ombelicale, legati tra di loro da un qualcosa più profondo del linguaggio, da una comunanza carnale. Un vicolo di Napoli è una colonia animale» [22]
Ma questa Napoli in parte riluttante, sporca, lurida mostra allo scrittore un volto più reale, che tuttavia come egli fa dire al suo alter-ego Andry, protagonista del breve racconto intitolato Spaesamento, crea un tale smarrimento nel visitatore da costringerlo a ritrarsi, a non immergersi nella folla.
C’era qualcosa da prendere in quella Napoli miserevole che aveva appena lasciato. Qualcosa di cui si sarebbe potuto gioire, un senso, forse era proprio il senso di Napoli. Ma non aveva saputo profittarne, era ogni volta la stessa cosa: quei vicoli lo toccavano troppo perché potesse vederli per come erano […] Cominciava con il disgusto e poi, a poco a poco, c’erano quegli odori sporchi che gli riempivano la gola, c’era quella penombra, l’abbandono di quei corpi tristi: era preso al basso ventre. [23]
Si ripresenta, quindi, la contraddizione tipica dell’intellettuale che se da una parte cerca di percepire fino in fondo quanto lo circonda, dall’altra si ritrae per una incapacità istintiva a coesistere con certi ambienti. Come Salvatore Di Giacomo, pertanto, anche Jean-Paul Sartre evita la contaminazione fisica, il contatto diretto amato e cercato, invece, da Anatole France. E Andry ritorna nelle strade della Napoli borghese dalle insegne luminose e dalle «belle ghirlande di limoni», appese ai chioschi dei venditori di limonata, in quella città, cioè che sembrava ignorare l’esistenza dell’altra Napoli.
All’inizio degli anni Cinquanta anche lo scrittore francese Roger Peyrefitte giunge a Napoli, prima tappa del lungo tour che decide di compiere nell’Italia meridionale. Egli racconterà questa esperienza in un libro laconicamente intitolato Dal Vesuvio all’Etna, pubblicato nel 1952. Peyrefitte rimane affascinato dal Mezzogiorno italiano, ma in particolare a colpirlo sono la Sicilia e Napoli.
Tuttavia, lo scrittore non cede al facile entusiasmo e traccia un’analisi della città a tutto tondo. Ne apprezza i monumenti, le chiese, avverte il peso della storia disseminata in ogni angolo, ma più di ogni altra cosa è interessato a comprendere la gente, a scrutare «il cuore, l’animo, l’umanità di Napoli» [24]
Malgrado noti la bruttezza, visibile nelle cose, nei vestiti e nel contegno della gente, al tempo stesso è meravigliato dalla bellezza dei volti, dal sorriso caldo delle persone, dall’abilità, ma anche dall’affabilità dei venditori ambulanti e dall’abbondanza di prodotti di ogni tipo esposti lungo le strade affollate. A stupirlo è l’aspetto contraddittorio dei napoletani percepibile nei bassi dei quartieri popolari, al cui interno hanno
la falce e il martello tracciati sulla porta e, nella stanza, il lumino davanti a un’immagine votiva (e davanti alle fotografie dei parenti defunti). Sopra queste case, considerate insalubri, il Comune ha fatto apporre un cartello: ‘non abitabile’, ma sono le case più sovraffollate. [25]
Lo sorprende anche l’estrema promiscuità sociale che mescola ricchi ed eleganti nobili a «mendicanti straccioni», «monelli», «venditori scalzi». Poi, come spesso accade ai visitatori, le immagini si sovrappongono rapide; la scrittura sembra tracciare un ininterrotto flusso di quadri nei quali si succedono gli infiniti rumori della strada con il «baccano infernale» degli ambulanti, i ragazzi che «accarezzano le cosce nude delle vedettes sui poster cinematografici», la Galleria Umberto, «probabile immagine di quel che doveva essere una basilica nell’antichità», i cocomeri appesi ai balconi e ancora il caos per le strade che non riduce la cortesia e la simpatia della gente.
Note
[1] Il commento di Anatole France è riportato nell’ottima antologia curata da F. Ramondino e A. F. Müller, Dadapolis, Einaudi, Torino 1989, p. 261[2] Ibidem, p. 262
[3] Ibidem, p. 252
[4] Ibidem, p. 294
[5] Axel Munthe, nato in Svezia nell’ottobre del 1857, arrivò la prima volta in Italia nel 1880. In quella circostanza il medico svedese si recò in viaggio di nozze a Capri. Ma un’improvvisa epidemia di tifo lo indusse a rimanere per quasi un anno sull’isola per dare il suo contributo professionale agli abitanti. La collaborazione, come scrive Maria Concolato Palermo, «fu tanto intensa e significativa da meritargli una decorazione da parte del Re d’Italia.» (M. Concolato Palermo, Introduzione a A. Munthe, La città dolente, Mephite, Atripalda (Av) 2004, p. 24)
[6] La prima edizione italiana, corredata da un’introduzione di Pasquale Villari, uscì nel 1910 con il titolo La città dolente, ‘lettere da Napoli’, pubblicata dalla casa editrice Barbera di Firenze.
[7] A. Munthe, La città dolente, op. cit., p. 41
[8] Ibidem, p. 43
[9] Ibidem, pp. 92-93
[10] A. Munthe, La storia di San Michele, Garzanti, Milano 1999, p. 158
[11] F. Ramondino e A.F. Mü11er, op. cit., p. 13
[12] P. Klee, Diari (1898-1918), Il Saggiatore, Milano 2004, p. 99
[13] Ibidem p. 101 [14] E. Donaggio (a cura di), Napoli, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2000, p. 45
[15] Ibidem, p. 10 [16] Ibidem, p. 34
[17] Ibidem, p. 39
[18] Ibidem, p. 51
[19] A. Lo Giudice, Motivi italiani in Paul Valéry, Palumbo, Palermo 1984, p. 140
[20] J.P. Sartre, Spaesamento Napoli e Capri, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2000, p. 19
[21] Ibidem, p. 25
[22] Ibidem, pp. 31-32
[23] Ibidem, p. 34
[24] R. Peyrefitte, Dal Vesuvio all’Etna, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2003, p. 17
[25] Ibidem, pp. 34-35