di Massimo Citi
Se avete letto qualcuno dei più recenti lavori di J. G. Ballard (Cocaine Nights, Super-Cannes e magari anche Millennium People) non sarete, probabilmente, troppo sorpresi dal particolare angolo visuale di Kingdom Come, anche se il punto di vista è passato dai tecnocrati in colletto bianco diSuper-Cannes al neoproletariato di fanatici sportivi e tossici dello shopping di Kingdom Come («The Monkey Puzzle»).
Ora, anni dopo, in Kingdom Come, noi incontriamo lo stesso sguardo gelido e senza riposo, la stessa visione ossessiva e spezzata che non inventa il futuro ma reinterpreta il presente (John Harrison).
Tutti i grandi scrittori hanno una mania. Una fissazione, un incubo che si ripresenta a ogni nuova opera e diventa centro e cornice di ciò che viene narrato.
Per J.G.Ballard, in tempi ormai remoti autore di fantascienza – anche se di un genere personalissimo – l’incubo preferito ha contorni solidamente architettonici. La lussuosa e avveniristica torre di Condominium, i quartieri avveniristici riservati al personale dirigente di Super-Cannes, il villaggio turistico di Cocaine Nights, le dimore residenziali di Millennium People (ma anche di Un gioco da bambini) e ora il colossale centro commerciale al centro di quest’ultimo Regno a venire.
Ma anche in tempi ormai lontani Ballard ha sempre fatto del luogo delle sue storie l’elemento centrale di ciò che vi accade. Già nel ciclo di racconti de I segreti di Vermillion Sands l’influsso di ambienti completamente artificiali, nati dal sogno – o dall’incubo – di un architetto si è rivelato determinante nella percezione della realtà da parte dei suoi personaggi. Per Ballard ci muoviamo in un universo completamente artefatto il cui influsso è determinante per suscitare e incanalare le nostre emozioni.
A partire da questo elemento centrale delle narrazioni ballardiane nasce l’interrogativo: «quali sentimenti e passioni potrà suscitare in una comunità umana periferica la presenza di un immane, inesauribile centro commerciale?». Regno a venire è la risposta.
Il Metro-Centre, costruito a Brooklands, anonimo centro residenziale sul tracciato dell’autostrada che porta da Londra all’aeroporto di Heathrow, fin dalla sua comparsa ha profondamente alterato la vita placida e anonima degli abitanti del centro urbano.
Niente più golf, gite campestri, tornei di giochi di carte, campionati di giardinaggio e di torte fatti in casa. L’unica attività è diventata lo shopping, l’unico luogo di ritrovo e di socializzazione il Metro-Centre.
James Graham Ballard |
Il centro commerciale è una presenza invadente ma benevola, unisce la comunità e gli conferisce un’identità attraverso la creazione di una TV via cavo. Come la titanica cattedrale di un moderno culto del Cargo personifica il luogo definitivo dei desideri che è possibile soddisfare: l’ennesima lavatrice, una nuova televisione al plasma, un altro set di mobili da giardino. Il Metro-Centre è uno stile di vita definitivo, un modo di rappresentare e definire la realtà. Fuori dal centro commerciale, dalla sua vischiosa e totalizzante bonomia sono destinati a restare gli ultimi arrivati, gli emarginati per scelta o per necessità, gli immigrati pachistani, indiani, asiatici o arabi.
Il nuovo nazionalismo germinato intorno allo stile di vita dettato dal centro commerciale trova la sua glorificazione e il suo luogo di organizzazione nella fitta rete di appuntamenti sportivi organizzati lungo l’autostrada M25.
Lontane dalla vita febbrile della metropoli […] le cittadine satelliti che sonnecchiavano protette dalla M25 erano praticamente un’invenzione pubblicitaria […] avremmo potuto credere fino all’ultimo giorno della nostra vita che quei posti erano trasfigurati dai prodotti che vendevamo loro […] Ma solo poche settimane prima quei graziosi sobborghi si erano acquattati ringhiosi per sferrare l’attacco e uccidere mio padre.
I gruppi auto organizzati di tifosi sono il braccio armato del sogno consumista del Metro-Centre. Radunati in occasione dell’ennesima partita di rugby, hockey o calcio, organizzano raid contro i modesti negozi indiani o cinesi, colpiscono, feriscono, in qualche caso uccidono nell’indifferenza della polizia che preferisce non intervenire per non creare ulteriori incidenti.
Il senso di appartenenza alla comunità del Metro-Centre, nutrito dall’immagine benevola di David Cruise – mediocre attore divenuto la voce e il volto del centro commerciale – trova la sua rappresentazione «militante» nei volontari in maglietta con la croce di San Giorgio, nei pestaggi, gli agguati, gli incendi.
Il mondo politico assiste indifferente alla nascita del nuovo fascismo, tranquillizzato dalla mancanza di un programma e di un uomo forte, simbolo del nuovo nazionalismo.
Il neofascismo nato all’ombra dei centri commerciali non ha ancora un volto definito. È anonimo e onnipresente. Si autodefinisce per esclusione, per identificazione e partecipazione ai medesimi riti. La festa del Metro-Centre, la lotteria, il gioco a premi della TV via cavo.
Richard Pearson, il pubblicitario protagonista del romanzo, è arrivato a Brooklands per assistere al funerale del padre, ucciso nel corso di una sparatoria nel centro commerciale. Il presunto colpevole – un malato di mente – non ha mai nascosto la sua ostilità per il Metro-Centre e, in apparenza, tutto parrebbe destinato a essere riassorbito e presto dimenticato come «uno spiacevole incidente».
Ma Pearson non si accontenta. Il suo rapporto con il padre è sempre stato difficile e la semplice spiegazione dell’accesso di follia violenta non gli basta. Poco per volta conosce i protagonisti della piccola comunità: il preside della scuola superiore di Brooklands, un graduato di polizia, un avvocato, uno psichiatra, una dottoressa. Individui incolori nonostante qualche ossessione personale, temerari ma incoerenti, rispettabili ma inquieti.
La morte del padre di Pearson diverrà presto un giallo intricato che coinvolgerà i maggiorenti di Brooklands, portando alla luce gli oscuri sogni di secessione e pulizia etnica germogliati all’ombra del Metro-Centre.
La cosa rassicurante era che quel nuovo movimento non aveva un centro ben preciso. Non c’erano freddi strateghi che tramavano per prendere il potere. Nonostante quei vaghi echi di fascismo, si trattava di una forma light, una varietà edulcorata e non tossica.
Basterà molto poco, una campagna pubblicitaria «più aggressiva» condotta da David Cruise, per la prima volta vero protagonista, a scatenare la follia fino a quel momento mascherata da febbre dello shopping e innocente agonismo sportivo.
Il Metro-Centre diverrà così la prima fortezza del Nuovo Ordine europeo, il simbolo vivente del nuovo fascismo senza volto.
Regno a venire è forse uno dei romanzi più nettamente e ferocemente politici tra quelli finora scritti da Ballard. Se non ha mai rifiutato il commento e il giudizio sulla realtà (cfr. Fine millennio: istruzioni per l’uso, Baldini Castoldi Dalai 2001) l’autore inglese giunge in questo caso a toccare il ventre molle della politica a venire, nei territori del malessere delle periferie, dell’intolleranza e dell’insoddisfazione delle nuove plebi, solo in apparenza ammansite dall’apertura dell’ennesimo paradiso delle merci.
Violenti, sostanzialmente analfabeti e senza futuro, i neoproletari cresciuti all’ombra di centri commerciali e reality show possono essere chiamati a essere protagonisti, «we can be heroes just for one day», come cantava David Bowie, divenendo, come in Regno a venire, i nuovi cani da guardia della paralisi sociale, i servi arrabbiati della loro stessa emarginazione.
Appassionati di eventi sportivi senza importanza, squadristi del nulla sapranno accontentarsi, per inscenare il loro immaginario riscatto, di un mediocre attore, di una sceneggiatura scontata e di un popolo di vittime predestinate: titolari di ristoranti cinesi o di lavanderie pachistane.
Non è un libro che si possa dimenticare facilmente, Regno a venire.
Essenzialmente perché tratta del qui-e-ora con una precisione e una lucidità che gran parte della cronaca e del giornalismo contemporanei sono ben lungi dal raggiungere.
La buona narrativa è in grado di riorganizzare la realtà ripresentandola al lettore in forma più incisiva e penetrante. È questa una delle sue maggiori e più preziose peculiarità.
E non è certo strano che sia uno dei maggiori scrittori di fantascienza del Ventesimo secolo a fare un uso tanto efficace di questa arma narrativa. La speculazione sociale e politica è da sempre una caratteristica essenziale della buona fantascienza.
James Graham Ballard
Regno a venire
Feltrinelli, Universale Economica, 2007
€ 9,50
trad. F. Aceto